Capitolo quattordici
Summertown era la zona più settentrionale di Oxford, con le ultime vie larghe prima della tangenziale, poi c’erano campi e paesini, Woodstock, le Cotswolds. Oltre un certo punto in Banbury Road, si trovava una manciata di facoltà e uffici universitari. Lì vivevano i professionisti, dottori e avvocati, i docenti dal maggior successo in termini finanziari, che mandavano i figli nelle scuole più eccellenti: Oxford High, Cherwell, St Edward’s e St Helena’s.
Un luogo decisamente borghese, in passato e ancora adesso, ma dall’ultima volta che ci era stata l’atmosfera era cambiata. Il negozio Oxfam resisteva, così come quello Blue Cross e la libreria indipendente, ma ora si erano intromessi anche Farrow & Ball e JoJo Maman Bébé. Dietro l’angolo, in South Parade, c’era Bang & Olufsen. La videoteca, il ristorante italiano a conduzione famigliare e la panetteria dove compravano i sandwich avevano chiuso e al loro posto erano state aperte delle agenzie immobiliari. Ma quante ce n’erano, per l’amor del cielo? Hamptons, John D Wood, Savills, Chancellors, Knight Frank… Alla fine di quel corteo, le venne da ridere.
Si fermò per guardare la vetrina di Strutt & Parker. I prezzi erano da capogiro: due milioni e mezzo, tre milioni e centoventicinquemila. Notò una casa molto simile a quella dei Glass in Bradmore Road, la via parallela a Fyfield. Come la loro, aveva sei camere da letto ma il giardino era più piccolo e si specificava che c’era bisogno di qualche piccolo lavoro, il gergo immobiliare per dire che andava ristrutturata completamente. Costava comunque quattro milioni di sterline.
La venderemo. Quindi la casa era di Adam e Jacqueline? Marianne ne aveva posseduto un terzo? E se, vivendoci, fosse stata di mezzo mentre Adam aveva bisogno di soldi? Che idea folle: Adam che faceva fuori Mazz per incassare dei soldi. E allora perché non poteva essere stata la madre?
Si era portata la cesta africana di Jacqueline con l’idea di andare da The Co-op ma, d’impulso, decise di andare da Marks & Spencer. Quel giorno voleva la versione della vita offerta da quel supermercato, facile e comoda, senza badare al risparmio, senza doversela cavare. Sotto le luci forti, davanti ai frigoriferi zeppi di costosi piatti pronti, i fantasmi della notte scomparvero e i vampiri si trasformarono in cenere al sole.
Finita la spesa, si avviò di nuovo verso il centro ma, invece di tornare direttamente a casa, svoltò a sinistra in Belbroughton Road e poi ancora a sinistra.
Il St Helena’s occupava un edificio di mattoni con la stessa architettura neogotica del Keble College. Era interamente circondato da un lungo muro di pietra, che proteggeva il cortile e il campo da netball e nascondeva alla vista le aule al pianoterra. «Le mura di cinta di un castello», aveva detto una volta Marianne.
Rowan si era messa a ridere. «Per tenere le succulente damigelle della zona nord di Oxford al sicuro da galantuomini predatori».
Alcune attuali damigelle stavano giocando a netball; oltre il muro sentì le scarpe da ginnastica che strisciavano sull’asfalto e le urla concitate: «Qui!». Prima di conoscere Marianne, Rowan aveva passato molto tempo a escogitare modi per sottrarsi alle partite. A tredici e quattordici anni, ricorreva alle classiche scuse come geloni o caviglie storte, ma poi il fatto che il padre non ci fosse sempre per scriverle le giustifiche si era rivelato un vantaggio. Quando lo convinceva a farlo, e le bastava usare la parola “ciclo”, lui preparava le lettere al computer, le stampava e le firmava in fondo con un indecifrabile svolazzo in penna blu. Per il suo quindicesimo compleanno, le aveva regalato il suo vecchio computer.
L’amicizia con Marianne le aveva fatto cambiare atteggiamento. Sulla carta, Mazz era la classica furbacchiona disposta a tutto pur di evitare qualsiasi sport e invece, anche se aveva rifiutato di sottoporsi al supplizio dell’hockey, era un’appassionata di nuoto e netball. Lo faceva per sé stessa, diceva, non perché fosse obbligata. «A parte nuotare, in realtà non mi piace lo sport. E preferisco di gran lunga nuotare in mare. Ma quando fai esercizio, pensi meglio. Io dormo meglio e penso meglio, quindi dipingo meglio, e posso farlo in orario scolastico. Dov’è il lato negativo?».
L’idea che il proprio atteggiamento potesse dare un nuovo scopo a qualcosa di necessario, che potesse trasformarlo in qualcosa che veniva fatto per sé stessi, rientrava tra i cambiamenti discreti ma fondamentali che Marianne aveva determinato nel modo di pensare dell’amica. Grazie a ognuno di essi, Rowan si era sentita sempre meno come una pallina sballottata tra i due flipper rappresentati dalla scuola e dal padre e sempre più autonoma, con il pieno controllo di sé.
Ma il rapporto con i Glass le aveva aperto gli occhi in moltissimi modi. Per quanto fosse ormai un uomo di successo, e nonostante viaggiasse tanto, suo padre aveva comunque un punto di vista piuttosto limitato e il suo impegno nel mondo restava confinato al settore in cui operava; sul giornale leggeva solo la sezione economica e l’attualità per le ricadute sul mondo dell’economia. Jacqueline e Seb, al contrario, erano affamati di tutta la conoscenza su cui riuscivano a mettere le mani, a prescindere dal fatto che riguardasse o meno il loro campo. In Fyfield Road, quotidiani e riviste venivano disossati fino all’ultimo pezzo. Non avevano problemi a dare la loro opinione, in pubblico così come in privato. Davanti a un episodio di disparità di genere in qualsiasi ambito, Jacqueline pensava fosse suo dovere intervenire. In quegli anni, c’erano stati diversi alterchi prolungati sulle pagine del «Guardian».
In suo padre, Rowan continuava a notare un atteggiamento da “noi e loro”, dei dubbi sul suo diritto di apparire ed essere ascoltato nel mondo. La domanda in base alla quale agiva era: «Perché io?». Al contrario, un pomeriggio, seduta al tavolo della cucina a scrivere un articolo come opinionista per il «New York Times», sentendosi legittimamente alterata, Jacqueline aveva detto: «Se non noi, ragazze, allora chi?».
Suo padre aveva incontrato Jacqueline e Seb soltanto in due occasioni: una volta quando era venuto a una serata per i genitori delle studentesse dell’ultimo anno e una quando, con grande stupore di Rowan, era passato a prenderla di ritorno dall’aeroporto. Seb l’aveva appena salutato per poi sparire nel suo studio, mentre Jacqueline l’aveva convinto a bere un bicchiere di vino insieme a lei e Rowan aveva dovuto assistere allo spettacolo del padre che cercava di mostrarsi impassibile di fronte all’intelligenza e alla fiducia in sé stessa di Jacqueline, con i suoi capelli indomabili e i bracciali.
Ricordava ancora l’ansia al pensiero che lui la mettesse in imbarazzo con un commento che evidenziasse l’abisso tra loro e i Glass, o che si trasformasse in Uriah Heep davanti alla fama di Jacqueline. Allo stesso tempo però, si era sentita orgogliosa: lei, Rowan, ormai faceva parte dell’arredamento in Fyfield Road, era stata accettata e l’intera famiglia le voleva bene. Le persone che intimidivano suo padre erano sue amiche.
Prima che Marianne cominciasse a frequentare il St Helena’s, Rowan si era battuta per andare in collegio. Nella pagella finale del secondo anno, ben tre insegnanti avevano scritto che lei era stanca e meno capace del solito di concentrarsi. Ad aprile, proprio all’inizio del quadrimestre, qualcuno aveva davvero cercato di entrare dalla porta d’ingresso nel cuore della notte. Da una finestra del piano di sopra aveva visto allontanarsi il vecchio ubriacone che barcollava per la loro strada dopo la chiusura dei pub, ma aveva comunque sofferto di insonnia per settimane. Il padre aveva liquidato l’episodio dicendo che Jimmy Pagnell era innocuo. «E l’unico motivo per cui vai in quel liceo è che hai una borsa di studio. Non possiamo permetterci che tu stia a convitto».
«Ma adesso non sei a capo del Sud America?», gli aveva gridato lei a metà scala. «E ancora non guadagni niente?»
«Come ti permetti?», aveva ringhiato lui e Rowan l’aveva visto reprimere l’impulso di avventarsi su di lei. «Tutto quello che faccio, lo faccio per te. Tutti i viaggi, tutte le ore di lavoro».
L’aveva guardato dritto negli occhi. «Che cazzata».
A ottobre, tuttavia, si era rallegrata che lui avesse rifiutato. Le collegiali dovevano rispettare rigide regole sugli orari in cui potevano lasciare la scuola; vivendo a casa da sola invece, poteva regolarsi da sé e passare tutto il tempo che voleva in Fyfield Road.
Quando James Greenwood le aveva detto di essersi trasferito a Oxford perché la figlia potesse vivere a casa, aveva provato una forte gelosia. A trentadue anni era ridicolo, ma quel contrasto le bruciava ancora. Chissà com’era avere un padre disposto a sradicare la propria vita da Londra e fare avanti e indietro per ore ogni giorno pur di garantire una certa stabilità alla figlia.
La campanella della scuola squillò, lo stesso suono di quando ci andava lei. Le 12:35: ora di pranzo. I piedi strascicati si fermarono e, un minuto dopo, le ragazze corsero negli spogliatoi e le loro voci si spensero.
Stando a Turk, Bryony aveva diciotto anni e stava per finire il liceo, quindi, a meno che fossero cambiate le regole, aveva un’ora di libertà per il pranzo. Da un momento all’altro, le ragazze avrebbero cominciato a uscire dal cancello.
Rowan poteva parlare con lei? Andare da Greenwood era un conto, ma aspettare la figlia fuori da scuola era un grosso rischio. Bryony l’avrebbe detto al padre e, se quell’uomo non aveva già drizzato le antenne, di certo l’avrebbe fatto allora. Per mantenere il segreto di Marianne, doveva stare attenta a non segnalare agli altri la sua esistenza. D’altro canto però, se davvero erano state legate come aveva detto Turk, forse Bryony sapeva qualcosa di prezioso.
Attraversò la strada e si attardò vicino all’alloro dove una volta le aspettavano i ragazzi del Cherwell. La borsa di Jacqueline era pesante, quindi se la sfilò dalla spalla e la appoggiò con cautela sul muro. Dall’altro lato della strada, sentì togliere il pesante catenaccio e vide aprirsi il cancello laterale, da cui uscirono tre ragazze con la versione dell’uniforme dell’ultimo anno: gonne pieghettate blu navy che erano una libera interpretazione del concetto di “sopra al ginocchio”, maglioni extralarge dello stesso colore, il blazer grigio della scuola, mocassini di vernice e sciarpe talmente enormi che sarebbero state più adatte a un gulag che a una scappata da Starbucks. Tutte e tre stringevano il cellulare tra le dita, che spuntavano appena dalle maniche. Rowan provò un moto di nostalgia. Era tutto così semplice allora: ogni cosa era possibile, niente era andato a puttane. Nessuno era morto.
Uscirono altre due allieve che parlavano fitto tra loro, una con uno chignon alto biondo e l’altra castano. La prima prese degli occhiali da sole dalla tasca del blazer e se li mise. Chissà se avrebbe riconosciuto Bryony. Rowan richiamò alla mente la sua immagine al funerale e ricordò i lineamenti delicati e la fronte alta. Aveva i capelli biondi color miele, dorati, non così chiari.
Il cancello continuava ad aprirsi, anzi, si richiudeva a malapena tra i gruppetti e subito le tornò in mente la necessità di sfruttare il più possibile quell’ora fuori dalle mura della scuola. Altre coppie e terzetti, un paio di gruppi di quattro. Nessuna usciva da sola, non era consentito. Le era sempre parsa ridicola l’eccessiva cautela della scuola circa la loro sicurezza per quell’unica ora in pieno giorno quando poi lei, di notte, da anni restava a casa da sola. Alcune ragazze le lanciarono un’occhiata, abituate a sospettare di chi si attardava lì intorno, ma vedendo una donna distolsero lo sguardo.
Sentì suonare il telefono e lo prese dalla tasca. Un altro numero che non conosceva. Fece un sorrisetto a un paio di ragazze che la fissavano e rispose.
«Parlo con Rowan Winter?».
Ebbe a malapena il tempo di catalogare la voce – un uomo con accento americano – che lui proseguì: «Sono Michael Cory. Mi dispiace chiamarla così all’improvviso. Ho avuto il suo numero da James Greenwood. Sono un amico di Marianne».
Si voltò, dando le spalle alla scuola. «Sì, sono Rowan». Aveva dato il suo numero a Greenwood il giorno prima; Cory doveva avergli parlato dopo di allora.
«Sono un pittore», si presentò, come se lei non lo sapesse. Che fosse falsa modestia? Sì: se avevano parlato di lei, Greenwood doveva avergli detto che gli aveva chiesto di Cory. «Stavo facendo un ritratto a Marianne».
«James me l’ha detto. L’ho visto ieri». Dall’altra parte del muro, tra i rami di un cespuglio di rose, un ragno si spostava sui fili gelati di una ragnatela.
«Me l’ha detto. Mi chiedevo se potessi venire a parlare con lei. Vorrei finire il ritratto, adesso ancora più di prima, e James ha detto che lei conosceva bene Marianne».
«Da ragazzine, molto tempo fa. Ci siamo conosciute quando si è trasferita qui da Londra».
«Giusto. Mi piacerebbe molto parlare di lei. È davvero importante per me, per il mio lavoro, capire la persona che ritraggo. Adesso che lei non c’è più, devo trovare altri modi. Pensa che si possa fare?»
«Sì», rispose lei, con la mente già all’opera. «Credo di sì».
«Domani?»
«Domani?». Le parve così presto.
«Nel pomeriggio, verso le tre. Non è impegnata?». Era a malapena una domanda.
«Posso trovare il tempo», rispose. «Potremmo vederci per un caffè da Chez Gaston in North Parade. Lo conosce? È a pochi minuti a piedi da Fyfie…».
«Verrò a casa», affermò lui e, senza darle il tempo di replicare, aggiunse: «A domani allora. Alle tre». Chiuse la telefonata senza salutarla.