Capitolo sette
Rispetto al bagno in camera di Jacqueline e Seb, quello destinato alle altre tre stanze al primo piano era datato, quasi trasandato, eppure Marianne lo usava. Dietro la porta era appesa una vestaglia con ricamato sopra un ibisco e, accanto al lavabo, c’erano uno spazzolino e del dentifricio. C’erano anche oggetti maschili. Sul ripiano della doccia, tra i flaconi di shampoo e balsamo, ce n’era uno di docciaschiuma Molton Brown da uomo e, nell’armadietto, Rowan aveva visto un rasoio elettrico. Chissà quanto spesso James Greenwood dormiva in quella casa. Marianne ci abitava da sola e lui non si era trasferito. Dopo quattro anni, pareva insolito per una coppia non convivere ma, come aveva spiegato Jacqueline, Marianne aveva bisogno di stare sola per lavorare e lui aveva la figlia. Ma allora quanto tempo passavano insieme, e dove? La persona a cui chiedere era Peter Turk. Era abbastanza masochista da voler stare a sentire ogni cosa Marianne fosse disposta a raccontargli della sua vita sentimentale e avrebbe fatto in modo di sapere tutto su Greenwood.
Rowan alzò di nuovo la temperatura dell’acqua e si avvicinò al soffione della doccia. Il box era pieno di vapore, ma lei sentiva ancora freddo fin nelle ossa. Durante la notte la temperatura era calata drasticamente e sul prato c’era uno strato di brina tanto spesso che, quando aveva aperto le tende, l’aveva scambiato per neve.
Ora che ci pensava, che cosa sapeva davvero della vita di Marianne negli ultimi dieci anni? A parte il poco che aveva scoperto al funerale e dalle informazioni sui giornali, quasi nulla. Era straordinario conoscere così bene una persona, in modo così intimo, e poi non saperne più niente. Stava ricominciando quasi da zero.
Si asciugò, si avvolse in un asciugamano e percorse in tutta fretta il corridoio glaciale fino alla stanza degli ospiti che aveva scelto. L’arredamento era minimale, giusto un letto matrimoniale con una trapunta patchwork e un comodino con una lampada e una pila di libri: Katherine Mansfield, John Le Carré, Lettere di compleanno di Ted Hughes e una copia dal dorso rovinato di Declino e caduta dell’impero romano di Gibbon. C’erano poi una poltrona bassa e, sopra al letto, una stampa incorniciata di Edward Lear con un uomo in frac che ballava con una mosca gigante ma, oltre a ciò, c’era solo l’armadio, un’enorme bestia con uno specchio ingiallito e macchiato dal tempo. Quando l’aveva aperto il giorno prima, nel suo interno cavernoso era risuonato il tintinnio degli ometti vuoti, ma la sera aveva disfatto la valigia, appeso i suoi vestiti e sistemato sul profondo ripiano più alto le poche cose preziose che non aveva voluto lasciare a Londra.
Si infilò dei jeans e un pesante maglione e scese in cucina, dove mangiò del pane tostato e bevve un caffè a tavola, immersa nei ricordi di altre colazioni. All’epoca però, non avrebbe mai passato la notte nella stanza degli ospiti; avrebbe dormito su un materassino ad aria in camera di Marianne, per poter parlare al buio. Nelle notti limpide, lasciavano aperte le tende, da cui filtrava la luce bianca ed eterea della luna che illuminava le sagome dei mobili, le loro mani e i loro volti. Ovviamente era stata un’idea di Marianne: aveva un dono per quel tipo di alchimia, per trasformare la quotidianità in qualcosa di memorabile, di ultraterreno.
Rowan prese il portatile, cercò un numero su Google e lo digitò sul telefono. Quando le risposero, spiegò chi era e chiese di Theo Marsh.
Le rispose dopo appena due squilli sul numero interno. «Rowan?», esordì. «Che tuffo nel passato. Come stai?»
«Bene. Sono tornata a Oxford per qualche giorno e mi chiedevo se potessi offrirti qualcosa da bere».
La sera prima, quando aveva spento la luce, Rowan era rimasta a letto sveglia a lungo. Al buio, il compito di capire che cosa fosse successo le era parso sempre più monumentale, impossibile. Aveva sentito serrarsi il petto ma poi, come si imponeva di fare ogni volta che si sentiva sopraffatta, aveva ripensato al consiglio di Seb quando avevano ceduto al panico ripassando la settimana prima della maturità: «Gradatim», aveva detto. «Vi ricordate un po’ di latino? Un passo alla volta».
La telefonata a Theo sarebbe stato il primo passo; il secondo, invece, spulciare i due grossi cesti che aveva visto il giorno prima sotto al tavolo da lavoro nello studio di Marianne. Si inginocchiò e tirò fuori il primo. Era di quarantacinque centimetri quadrati e, quando tolse il coperchio, vide che era pieno per tre quarti di fogli sparsi. Controllando in due punti a caso del mucchio, ebbe la conferma del fatto che lì dentro Marianne teneva gli schizzi, o che qualcun altro ve li aveva raccolti – Jacqueline o Adam, o forse Greenwood.
D’un tratto, udì la voce di Marianne, mezzo divertita e mezzo incredula. Vuoi farlo davvero? Vuoi frugare tra le mie cose?
Scusa, Mazz. Devo farlo.
In cima, sopra alcuni fogli di carta di alta qualità, c’era lo studio delle varie parti di un ippocastano: una foglia, la corteccia, diverse castagne matte in diverse fasi di maturazione e poi marce, chiazzate e raggrinzite. Rowan si soffermò su una non del tutto matura. Con qualche semplice tratto di inchiostro nero, Marianne era riuscita a ricreare il guscio acerbo ricoperto di aculei, il rivestimento spumoso e, simile a un occhio alzato al cielo, l’orbita bianca e cieca della castagna matta all’interno.
C’erano altri studi – un passero morto con le gambe squamate irrigidite; una pelliccia di volpe con due perle al posto degli occhi; un paio di guanti fatti a maglia – ma anche schizzi informali, che aveva fatto su due piedi ma che le erano piaciuti abbastanza da conservarli. Sul retro di una busta con la finestrella c’era una ghianda disegnata a matita e Rowan si immaginò Marianne in piedi al tavolo nell’ingresso, con il telefono incastrato sotto l’orecchio, mentre la abbozzava. Magari l’aveva raccolta durante una passeggiata e l’aveva messa lì al suo rientro. Lo faceva spesso, raccogliere piccoli oggetti e metterseli in tasca per studiarli in seguito.
Quasi tutti gli schizzi, più o meno i quattro quinti, erano lavori preparatori per i ritratti sull’anoressia. A carboncino, gesso e matita rossa, Marianne aveva ritratto un corpo dopo l’altro: mani, piedi, spalle e clavicole, schiene, minuscoli seni, avambracci con radio e ulna simili a un archetto e a una corda. Ragazze che guardavano in avanti, di lato, in piedi o sdraiate di fronte, di schiena e sul fianco, allungate, accucciate. Alcuni disegni erano belli, quelli che ancora mostravano una certa morbidezza, ma quelli con i fisici emaciati erano potenti. Con un ginocchio o un avambraccio senza corpo, era riuscita a comunicare l’idea della sofferenza e della pietà, della particolarità – si trattava di quel ginocchio, con quel neo e quella piccola cicatrice bianca – e dell’universalità.
«Incredibile, Mazz», commentò Rowan a voce alta.
Dopo averli guardati tutti, li rimise a posto nello stesso ordine e passò al secondo cesto, che conteneva scartoffie burocratiche e corrispondenza. Ci sarebbe voluto molto più tempo per esaminarlo. Il mucchio di documenti era alto una trentina di centimetri e, a giudicare dai primi, erano stati impilati senza alcun ordine. Marianne li aveva semplicemente buttati lì dentro a mano a mano che se ne era occupata o, magari, che erano arrivati.
In cima c’era una lettera della Yale University Press che chiedeva il permesso di riprodurre Sport cruenti II, uno dei dipinti della mostra con cui si era laureata. Sotto c’era la lettera di una scuola d’arte di Glasgow che invitava Marianne a tenere un discorso agli studenti. Entrambe portavano la data di metà dicembre. Chissà se aveva risposto. Non c’era modo di saperlo.
Gran parte del peso del cesto era dovuta a due cataloghi grandi come guide del telefono, di una mostra al Met di New York e di una alla Tate Britain, poi c’erano dépliant patinati di numerosi eventi privati e aperture, oltre a venti o trenta inviti.
Quattro lettere erano di gallerie che speravano di soffiare Marianne a James Greenwood. I mittenti dovevano aver faticato su ogni frase, pensò Rowan, perché con parole scelte scrupolosamente si vantavano delle carriere che avevano costruito e la informavano che, se mai avesse pensato di cambiare rappresentante, «per qualsiasi motivo», diceva una, sarebbero stati lieti di parlarle. Due le proponevano addirittura un incontro. Erano solo a caccia di artisti o forse girava voce che Marianne potesse cambiare? E in quel caso, che cosa significava per la relazione con Greenwood?
Un’altra richiesta di fare visita a un’università; un invito di un giornale letterario a inviare un contributo sul tema del corpo nell’arte contemporanea; diverse email stampate riguardo a un’intervista per una rivista tedesca e poi una busta verde acqua con due G intrecciate in rilievo, lo stemma della Greenwood Gallery. Era già stata aperta, ma il documento che conteneva era stato rimesso all’interno. Rowan lo tirò fuori e vide una distinta di pagamento risalente a novembre per un lavoro dal titolo Spettrale. La cifra in fondo al foglio, trasferita tramite BACS sul conto di Marianne, era di 227.500 sterline più IVA. Il pagamento era già al netto della commissione della galleria, pari al trentacinque percento: il prezzo di vendita del quadro era stato di 350.000 sterline. Rowan fissò i numeri per qualche secondo. Certo, sapeva che i lavori di Marianne si vendevano a caro prezzo, aveva anche immaginato cifre simili, ma vederle scritte era un’altra cosa. Un terzo di milione per un solo quadro.
Le ci vollero due ore per controllare tutto il cesto, ma non trovò nulla che indicasse una discordia nella vita di Marianne, nulla di sospetto. L’unico appunto che Rowan prese nella mente erano tutti i soldi che James Greenwood stava facendo con i suoi lavori. La sua parte solo per Spettrale era stata di 122.500 sterline e, arrivata alle ultime carte, Rowan aveva ormai contato altre cinque distinte con una somma simile e, in un caso, più alta. Se Marianne guadagnava un sacco di soldi, lo stesso valeva per lui.