Capitolo ventidue
«Bryony?».
La ragazza slanciata al centro del terzetto si bloccò e, dopo un attimo di pausa, si voltò. Rowan rivide gli occhi e la fronte alta di James Greenwood e fu invasa dal panico: era un errore; non sarebbe dovuta venire. Bryony l’avrebbe detto al padre e lui avrebbe avuto la certezza che ci fosse sotto qualcosa, che Rowan stesse ancora curiosando a distanza di diversi giorni, che gli aveva mentito quando era andata alla galleria. Con la stessa rapidità con cui le era venuto, però, quel dubbio lasciò spazio alla convinzione che, pur rischiando, stava facendo la cosa giusta. Si era lasciata fuorviare da Adam e Turk, ma la telefonata di Cory l’aveva rimessa in carreggiata e le aveva ricordato la posta in gioco.
«Sono Rowan Winter», si presentò, staccandosi dal muro. «Una vecchia amica di Marianne. Ci siamo incontrate brevemente alla veglia, non so se ti ricordi di me».
Il viso di Bryony cambiò espressione per un istante. Era forse sorpresa?
«Mi dispiace avvicinarti così. Al momento vivo a casa sua, la tengo d’occhio per Jacqueline. Mi chiedevo se potessimo parlare».
La ragazza castana alla sinistra di Bryony inarcò le sopracciglia, quasi a dire, come una guardia del corpo: «Questa donna ti sta dando fastidio, Bry?»
«Parlare?». Bryony scosse la testa. «No. Cioè, non lo so. Non sono sicura».
«Un paio di minuti», disse Rowan.
«Io non… non dovrei parlarne con nessuno».
«Perché?»
«Per i media, i giornalisti. Tutta questa storia è fuori cont…».
«Ma io non sono una giornalista. Ti prego».
Bryony le lanciò un’occhiata e cedette. «Va bene, ma solo se facciamo davvero in fretta. Devo finire un saggio per un corso del pomeriggio e ho tempo solo adesso. Stavo andando di corsa a comprarmi il pranzo e…».
«Vuoi che ti aspettiamo?», chiese l’altra ragazza, uno scricciolo dai capelli biondo ramato, ma Bryony scosse la testa. Aprì il borsellino che teneva in mano e ne estrasse una banconota piegata. «Mi prendete un sandwich al pollo? E del succo d’arancia».
Rowan aspettò che le due si allontanassero. Mentre attraversavano la strada, la brunetta voltò la testa e le rivolse un’occhiata di ammonimento: È in lutto, ok, quindi non farla innervosire.
Il tempo era migliore rispetto all’altra volta, perlomeno non nevicava, ma c’era un vento pungente e Bryony si strinse nel blazer e incrociò le braccia. Le sue amiche indossavano entrambe enormi scaldacollo fatti a maglia, come il novanta percento delle allieve dell’ultimo anno, mentre lei portava una sciarpa in cotone fine, forse indiano, costellata di fili argentati. Aveva gli angoli degli occhi truccati con l’eye-liner, a dispetto delle regole della scuola, sempre che fossero ancora le stesse.
«Mi dispiace molto», attaccò Rowan. «So che voi due eravate molto legate».
«Le volevo bene», si limitò a dire Bryony.
«Anch’io».
Bryony annuì e Rowan vide che aveva gli occhi pieni di lacrime. Si ricordò di stare attenta e andarci piano. «Il mio più grande rimpianto», proseguì, «è che non abbiamo avuto modo di risolvere le cose prima che…».
Non ancora abbastanza sicura di sé per parlare, Bryony annuì di nuovo.
«Mi dispiace, so che ti sembrerà insensibile, e lo è, ma volevo chiederti se secondo te Marianne fosse infastidita da qualcosa prima che succedesse. Per caso ti aveva accennato qualcosa? Peter Turk mi ha detto che voi due parlavate molto e quindi mi chiedevo…».
«Non è stato un incidente?». Bryony la guardò in viso, sorpresa. «Perché me lo chiede? Lei è andata anche da mio padre, a Londra, vero?».
Merda.
«Pensa che le sia successo qualcosa?»
«No, no. Non è quello…». Nel panico, Rowan si sforzò di riflettere. «Cioè, la polizia è certa che si sia trattato di un incidente, giusto?». Alle loro spalle, il cancello si aprì e uscirono altre due ragazze, accompagnate dal suono delle loro risate sinistramente fuori luogo. Solo in quel momento Rowan si rese conto che, se un membro del personale l’avesse vista con Bryony, sarebbe stata lei a dover rispondere a qualche domanda. «Non ti ha mai parlato della morte?», le chiese in tutta fretta.
Bryony fece un passo indietro, come se Rowan si fosse rivelata una pazza pericolosa. «No. Perché avrebbe dovuto?».
Le parve di risalire il fianco di una pietraia che si sgretolava sotto i suoi piedi alla stessa velocità con cui lei cercava un appiglio. «Non c’era un motivo», rispose, sforzandosi di apparire rassicurante. «Volevo solo esserne sicura. Farmene una ragione. È stato così… improvviso. Quando una persona se ne va in quel modo, senza preavviso…».
«Già». Finalmente, pareva suggerire il tono della ragazza, un commento quasi normale.
«Comunque, scusa ancora se sono venuta a cercarti così. Non volevo turbarti».
«È tutto a posto». L’occhiata tollerante di Bryony lasciava intendere che fosse lei l’adulta della situazione. Aggrottò la fronte pallida, al cui centro si formò una ruga, e Rowan rivide di nuovo James Greenwood, come se il viso della ragazza fosse uno specchio d’acqua, un fiume, e il volto del padre fosse risalito un istante in superficie per poi tornare a inabissarsi scomparendo alla vista.
«Ti lascio al tuo saggio». Rowan accennò alla scuola. «Anche io ci sono andata, al St Helena’s. È qui che ci siamo incontrate io e Mazz».
«Davvero?».
Annuì, sorpresa: Marianne non glielo aveva detto? «Sai che Michael Cory le stava facendo un ritratto? Cioè, glielo sta ancora facendo. Eravamo all’ultimo anno quando lui ha dipinto Hanna Ferrara, con la tempesta mediatica che ne è scaturita». Nel dirlo, tuttavia, si rese conto che all’epoca Bryony doveva avere tre o quattro anni. «L’ho detto anche a tuo padre, è strano pensare che parlavamo tanto di lui, io e Marianne, e adesso lui è qui».
Bryony non disse nulla. Forza, pensò Rowan, disperata, dammi una mano. «Lo conosci?», chiese, con una smorfia nella mente davanti a tanta schiettezza. «Tramite tuo padre, o Marianne?».
Bryony si strinse nelle spalle. «Certo, l’ho incontrato tramite mio padre, e due o tre volte a casa di Marianne, quando andavo a trovarla».
«Com’era?»
«Lei l’ha conosciuto?».
Rowan rifletté. «Sì».
«Allora lo sa. È un tipo a posto, un po’ profondo, ma non quanto la stampa vorrebbe far pensare».
«Che rapporto c’era tra loro?».
Bryony le rivolse un’occhiata dura. «Che cosa sta insinuando? Lei stava con mio padre».
«No, no, no. Scusami. Intendevo se andavano d’accordo. Se erano sulla stessa lunghezza d’onda. Se erano amici».
L’ostilità diminuì, ma di poco. «Non li ho mai sentiti parlare di nulla di personale, perlopiù di arte, di quello che avevano visto e che cosa gli piaceva. Stili, tecniche, cose del genere. A essere sinceri, non ci capivo granché. Però sì, si piacevano. Andavano d’accordo».
Evitando Banbury Road per non incappare nelle amiche di Bryony, Rowan andò nel quartiere di Summertown e si sedette in fondo a un cupo Costa Coffee. Quando Cory l’aveva chiamata quella mattina, le aveva annunciato che sarebbe venuto a casa alle tre, ma lei temeva che potesse arrivare quando gli pareva e prima aveva bisogno di fare il punto della situazione. Si sentiva intrappolata in un mulinello fuori controllo. Andare a cercare Bryony era stato un grosso azzardo e non aveva scoperto nulla che non sapesse già. Senza dubbio, il loro incontro sarebbe stato riportato a Greenwood parola per parola.
Ma che altra scelta aveva? Nel tentativo di restare un passo avanti a Cory, stava esaurendo le linee investigative. Lui faceva un’associazione dopo l’altra, avanzava a passo deciso verso quanto era veramente successo anni prima, mentre lei faticava a scoprire anche solo la più piccola informazione su quanto era accaduto un mese prima. Si ritrovava in un vicolo cieco dopo l’altro e, le poche volte in cui le era parso di arrivare, di avvicinarsi a qualcosa, poi c’era stato come un sisma e si era ritrovata fuori strada. Ogni volta che si rialzava, piena di lividi, il paesaggio era cambiato, lasciandola non soltanto senza risposte, ma davanti a una nuova domanda. A una nuova serie di domande.
Da giovane, adorava i puzzle. Da bambina era una fanatica e, in seguito, una delle sue tradizioni preferite della famiglia Glass era l’acquisto di un puzzle enorme prima di Natale, da tremila o cinquemila pezzi, che veniva piazzato in sala da pranzo a Santo Stefano per lavorarci nelle cupe giornate fino all’ultimo dell’anno. Si sedevano, chiacchierando o in silenzio, con una tazza di caffè o un bicchiere di vino a portata di mano e, poco per volta, ricoprivano l’intero tavolo, prendendosi in giro da soli per quel passatempo da sfigati, anche se a tutti piaceva da matti. Adoravano anche i cruciverba criptici e chiunque al mattino mettesse per primo le mani sul «Times» doveva fare delle fotocopie per gli altri con la piccola stampante Xerox nell’ufficio di Seb. Quando Rowan era da loro, facevano una copia anche per lei, che così partecipava alla sfida giornaliera a chi lo finiva per primo. Adam era molto bravo, ma Seb vinceva quasi ogni giorno; l’unica volta in cui lei l’aveva battuto era ancora il traguardo intellettuale di cui andava più fiera.
Ora, invece, aveva l’impressione di lavorare a un gigantesco rompicapo senza indizi sufficienti. I pochi che aveva indicavano che cosa non fosse successo e chi non fosse stato, ma non le davano neanche lontanamente abbastanza informazioni per dedurre che cosa fosse successo o chi fosse stato. Turk rubava gli schizzi, ma non aveva mai commesso un’effrazione. Ma ce n’era davvero stata una? Probabilmente no, se la polizia non aveva trovato nessuna prova. Ma se l’uomo in giardino non era in ricognizione, allora che cosa faceva? Ed era lo stesso uomo che la osservava dalla finestra in Benson Place? Sabato aveva tirato le tende dopo mezzanotte e l’aveva visto di nuovo, una sagoma immobile in controluce, e le era venuto un dubbio inquietante: l’aveva vista con Adam? L’aveva guardata? Non riusciva a ricordare se avesse tirato le tende, ma era certa che la luce fosse stata accesa.
Adam. Il giorno prima, al risveglio, la foschia paranoica dettata dall’alcol si era quasi dissipata e si era vergognata di sé stessa. Come aveva fatto ad agitarsi tanto perché non l’aveva chiamata? Se n’era andato in quattro e quattr’otto per via di Turk e probabilmente aveva pensato che chiamandola il giorno stesso sarebbe sembrato impaziente. Quasi di certo le avrebbe telefonato quel giorno, dopo un intervallo di tempo decente. Quel pensiero l’aveva rallegrata mentre andava a piedi in North Parade per comprare il latte e il giornale ma, con il trascorrere della giornata, il telefono era rimasto muto e le sensazioni negative avevano ricominciato ad assalirla. Perché non la chiamava? Forse Turk gli aveva parlato? Oppure c’era sotto qualcos’altro?
Aveva a malapena aperto la porta che Cory la superò fiondandosi nell’ingresso. Vedendolo fremere per l’impazienza, Rowan fece con calma, richiuse delicatamente la porta e si chinò per raccogliere una foglia che lui aveva portato dentro con gli stivali. Si raddrizzò e gli rivolse un sorriso pacato.
Se lui aveva capito che lo stava facendo apposta, decise di fare finta di niente. «Credo di aver trovato qualcosa».
Il cuore le partì in quarta. «Che cosa?»
«Sono stato ore in biblioteca, sabato e anche questa mattina. Dio, quanto odio le microfiches. Siccome è successo tempo fa, non tutto era online». Strinse il dorso del naso tra pollice e indice e chiuse gli occhi. «I giornali nazionali sì, ovviamente, ma gli archivi online di quelli locali non arrivano così indietro e quindi ho dovuto parlare con la bibliotecaria, dirle quello che volevo e farmi spiegare come usare quella macchina… Quel posto pare rimasto agli anni Settanta».
«In quale è andato?»
«Nella biblioteca pubblica in città. Orrenda, sopra al centro commerciale… Com’è che si chiama, Watergate Centre?»
«Westgate. La prego», disse lei, «mi dica che non ha fatto il nome di Marianne o di Seb».
La raggelò con lo sguardo. «All’inizio era come cercare un ago in un pagliaio. Volevo trovare una donna con un legame con Seb che fosse morta appena prima di lui, entro un lasso di tempo per cui lui soffrisse ancora quando si è ubriacato e ha avuto l’incidente con la macchina».
Rowan scosse la testa per mostrarsi incredula che lui si tormentasse ancora con quella folle teoria.
«Ho controllato di settimana in settimana, all’indietro, prima i giornali nazionali, per sicurezza, poi le microfiches, con le notizie e i necrologi. Non sapevo se fosse successo qui o a Londra. Lui viaggiava molto, tra i seminari e le tournée promozionali per i libri, quindi c’era anche la possibilità che…».
«Come le ho detto sabato, per l’ennesima volta, sta prendendo un granchio. Non è possibile che Marianne abbia ucciso qualcuno, accidentalmente o no, punto. Inclusa qualsiasi donna che suo padre avesse o non avesse frequentato. Era solo…».
«Era una dottoranda».
«Chi?»
«La donna che ho trovato».
Rowan lo fissò.
«Lorna Morris. È morta sei settimane prima di lui, quasi precise. C’era una sua foto sull’“Oxford Times” e, appena l’ho vista, ho avuto una sensazione. Aveva ventisei anni, era bella. Mi sono concentrato su di lei, ho incrociato i dati e ho scoperto, primo, che era una psicologa sperimentale e, secondo, che lavorava nei laboratori in cui Seb svolgeva gran parte delle sue ricerche».
Resta calma, si ordinò Rowan. «Ci sono un sacco di psicologi a Oxford e non so quanti lavorassero in quei laboratori. Tutti quelli che facevano ricerche sperimentali, immagino, quindi la maggior parte. Non so quanti altri laboratori ci fossero dove fare ricerche».
«È morta in un incendio», disse Cory, come se Rowan non avesse parlato. «Anzi, in un’esplosione. Viveva in una casa galleggiante sul fiume, c’è stata una fuga di gas e…».
«Lo so». Lo interruppe. «Me lo ricordo. È stata una storia grossa qui, a Oxford. Orribile. Ma è stato un incidente. C’è stata un’indagine della polizia, com’è ovvio. Un’inchiesta».
«Ho letto i rapporti. A quanto pare, aveva lasciato il fornello a gas acceso, senza fiamma. È uscita, è rientrata che era già buio, ha acceso la luce…».
«È stato orrendo. Un modo terribile di morire».
«E se non fosse stato un incidente, Rowan?». La guardò con gli occhi sgranati, per farsi prendere sul serio. «E se fosse stata Marianne? Se avesse armeggiato con il fornello e l’avesse fatto sembrare un incidente?».
Lei scosse la testa e fece per andare alle scale della cucina. «Non ce la faccio più a sentire questa storia».
Come un fulmine, Cory allungò una mano e le afferrò l’avambraccio. «Si è buttata per un motivo».
«Se si è buttata», ribatté Rowan, liberandosi con uno strattone. «Seb aveva un sacco di avventure, ok? Un sacco. Era un puttaniere, un collezionista di farfalle: non poteva farne a meno. Certo, è possibile che sia andato a letto con Lorna, ma non giravano pettegolezzi a riguardo. E di solito ne giravano, mi creda, perché lui non era bravo a tenere un segreto in quel campo. Ma se è successo, se, allora lei sarebbe stata una delle tre o quattro di quell’anno».
«Chi potrebbe saperlo?»
«E come diavolo faccio a dirglielo? Non vedevo i Glass da anni e non ho mai conosciuto Lorna».
«Ha parlato con Peter Turk di questa storia?»
«Certo che no. Pensa che voglia diffondere queste folli teorie tra i suoi amici ancora in lutto?»
«Io sì». Fece un passo verso la porta, come se volesse uscire e cominciare subito.
«Si fermi», disse lei, troppo forte. «La prego. Si fermi».
«Perché?». Si voltò, con rinnovato interesse dipinto in viso.
«Lui è stato qui», spiegò piano. «Turk. Sabato. Mi ha raccontato una storia sul fatto che voleva un paio di gemelli che aveva prestato a Marianne per una festa, invece era venuto per rubare degli schizzi». Nonostante tutte le cose brutte che le aveva detto, Rowan era dispiaciuta di tradirlo con Cory. «Li vende», aggiunse. «È al verde».
Cory andò ai piedi delle scale e si sedette. Con i gomiti ben piantati sulle ginocchia, avvicinò un pugno alla bocca, Il pensatore in jeans e soprabito. Passarono diversi secondi. «Me l’avrebbe detto?», le chiese.
«Non l’ho appena fatto?»
«Sotto costrizione».
Alzò gli occhi al cielo. «Se lei non fosse entrato qui ad armi spianate, forse l’avrei fatto prima».
Si fissarono con aria di sfida e, con grande soddisfazione di Rowan, Cory fu il primo a distogliere lo sguardo. «Pensa che la ricattasse? Se è al verde, e sa qualcosa, magari estorceva del denaro a Marianne».
«Ci ho pensato anch’io», ribatté lei. «Ieri ho spulciato i suoi documenti e i resoconti bancari, ma non ci sono strani pagamenti, né bonifici o grossi prelievi. Direi che possiamo escludere la possibilità che lui la ricattasse cinquanta sterline alla volta».
«Voglio comunque parlargli».
«Allora lo faccia, ma aspetti un giorno o due. Si sente… umiliato. Era così arrabbiato quando l’ho sorpreso. Non avevo mai visto quel lato di lui prima. Lo lasci calmare e poi potrà parlargli. Così caverà di più da lui».
Cory appoggiò di nuovo il mento al pugno e la osservò. «Va bene», disse infine. «Ma gli parlerò. Non ho intenzione di lasciar perdere. Comincio ad avvicinarmi, Rowan, lo sento».