Capitolo undici
Fuori dal finestrino, il paesaggio invernale scorreva rapido. I campi le ricordavano il velluto a coste color fango e i cavalli se ne stavano sconsolati nei recinti pieni di cardi verde spento. Sul fiume a Reading, le imbarcazioni da diporto erano raggruppate sotto la tela cerata.
Nonostante la brina scintillante intorno ai binari, sul treno faceva caldo. Era metà mattina, aveva evitato apposta l’ora di punta, e il sedile accanto al suo era vuoto fin da Oxford. Rowan chiuse gli occhi e si accoccolò contro il soffice poggiatesta irsuto, intontita dal caldo come da un sonnifero.
Sabato notte aveva spento il computer poco dopo l’una ma era rimasta a letto sveglia a lungo, con il cervello in moto. Quando il campanile di St Giles aveva suonato le tre, aveva scostato le coperte, si era infilata la vestaglia di Marianne che era in bagno ed era andata di sopra. Marianne era ovunque in quella casa; ogni stanza, ogni foto e ogni mobile le facevano tornare in mente un ricordo, ma nello studio la sentiva più vicino.
Rowan aveva guardato le ragazze anoressiche, con l’ultima, minuscola, così prossima alla morte, e aveva pensato ai ritratti della madre di Cory. Chissà se Marianne gli aveva parlato del suo lavoro. Magari era stato proprio lui a darle l’ispirazione di seguire l’avanzare di una malattia in quel modo. O magari lui non vi aveva nulla a che fare: Specchio, specchio, il libro più famoso di Jacqueline, parlava di disordini alimentari e Marianne era diventata una femminista prima ancora di riuscire a sillabare quella parola. D’altro canto però, sia lei sia Cory erano stati attratti da donne allo stremo.
Chissà se erano stati attratti anche l’uno dall’altra. Non doveva escludere la possibilità.
Si era voltata per andarsene e aveva spento la luce, ma ci aveva ripensato ed era andata alla finestra. Con il suo chiaro lattiginoso, la luna quasi piena illuminava abbastanza bene il giardino. Regnavano un’immobilità e un silenzio totali, come se lei fosse l’unica persona sveglia in tutta la città. I condomini in Benson Place erano bui.
Si era sporta fino a vedere l’erba calpestata. Cos’è successo, Mazz?
Qualche secondo dopo però, si era ritratta. Nell’appartamento di fronte, all’ultimo piano, la luce si era accesa e, alla finestra, era comparsa la stessa sagoma dell’uomo della volta prima. Dopo un attimo, si era resa conto che lui non poteva vederla perché lo studio era al buio, ma da quanto era là? Aveva spento da poco la luce; forse lui l’aveva vista e si era affacciato alla finestra? Erano le tre di notte.
Di sotto, si era seduta sul bordo del letto. Chi era quell’uomo? Che cosa faceva? E come aveva fatto ad accendere la luce pur restando là immobile?
Passato lo shock, si era vergognata di sé stessa. Quella era una città, una città piena di gente molto intelligente e non convenzionale. Di svitati, a essere sinceri, aveva commentato Marianne in tono secco. Magari quel tizio soffriva di insonnia; magari gli piaceva lavorare di notte, con il silenzio.
Ma, aveva pensato di colpo, se stava sveglio di notte e guardava dalla finestra, forse aveva visto Marianne cadere dal tetto. Forse aveva visto quello che era successo. Così com’era arrivata però, l’eccitazione era svanita in fretta. No, non era possibile: come aveva detto Turk, i poliziotti non erano degli idioti. Proprio come lei, dovevano aver notato che i condomini si affacciavano sul retro della casa e di certo avevano interrogato tutti gli inquilini.
Aveva bisogno di dormire, si era detta, ma era ancora sveglia quando fuori i primi uccellini si erano messi a cantare. La sua mente continuava a tornare a Michael Cory e, più ci pensava, più si convinceva che lui fosse in qualche modo coinvolto. Il suicidio della sua ragazza; il crollo nervoso di Hanna Ferrara. Continuava a ripetersi le parole della pianista: Voleva conoscermi, conoscermi per davvero, come se dentro di me ci fosse qualcosa, un’essenza, una verità, che lui potesse tirare fuori.
E se avesse fatto lo stesso con Marianne? Se fosse arrivato nel profondo di lei? Se avesse scoperto quello che aveva fatto?
Rowan si addormentò del tutto alla periferia di Londra e, quando si incamminò lungo il binario verso i tornelli, si sentiva ancora narcotizzata. Marianne descriveva Paddington come una balena, con l’elaborata struttura in ferro simile a una gigantesca cassa toracica, mentre per Rowan la stazione era un grosso e famelico motore dickensiano alimentato a persone. Quel giorno, era bastata l’idea di dover trovare parcheggio a Mayfair a spingerla a prendere il treno ma, all’ultimo anno di liceo, loro due adoravano venire a Londra per vedere mostre e band o anche solo per gironzolare. All’epoca non c’erano i tornelli e di rado si erano preoccupate di comprare il biglietto.
Prese un espresso e si incamminò verso le fauci della metropolitana. In cima alle scale, sentì il telefono vibrarle in tasca. Un numero che non conosceva. Si scansò dal fiume di gente e rispose.
«Rowan?».
Con il rumore di fondo, le ci vollero un paio di secondi per riconoscere la voce. «Adam».
«Come stai? Come vanno le cose a casa?»
«Bene. Sì, tutto a posto. Io…». La sua voce fu sovrastata dall’annuncio che il treno delle undici per Bristol Temple Meads era in partenza dal binario sei.
«Non sei a Oxford?»
«Come?»
«Il binario sei. La stazione di Oxford ne ha solo due».
«Oh, ma certo. No, sono a Londra. A Paddington. Sono dovuta venire per incontrare il mio supervisore».
«Ah. Ti chiamavo perché devo prendere delle carte dalla scrivania di papà e volevo avvisarti invece di irrompere in casa senza preavviso e farti venire un infarto».
«Oggi?»
«Stasera. Sono a una conferenza a Birmingham e posso fare un salto mentre torno a Cambridge stasera».
«Ma certo. Cioè, è casa tua». Nel dirlo, si chiese se fosse davvero così. Di chi era la casa? «Scusa, sono stata scortese, vero? Intendevo che per allora sarò rientrata e grazie per avermi avvisata. Sarà un piacere rivederti».
Le parve di sentirlo ridere. «Ci vediamo stasera», le disse. «Probabilmente intorno alle sette».
Queensway, Lancaster Gate… La Central Line procedeva rapida di fermata in fermata mentre lei cercava di concentrarsi. Adam l’aveva distratta. Le dispiaceva avergli dovuto dire che doveva incontrare il suo supervisore, ma la verità non sarebbe servita a molto.
Una volta, anni prima, si erano baciati. L’estate in cui lei aveva finito il liceo, lui era tornato da Cambridge per le vacanze. Un fine settimana Seb aveva portato Jacqueline a Barcellona e così avevano dato una festa a casa, con gli amici di Adam e i loro. Solo posti in piedi in salotto e in cucina mentre in giardino la gente si divertiva in piscina o seduta intorno al braciere che Turk si era fatto prestare dai suoi genitori. Il giorno prima aveva visto la macchia di vino che aveva fatto sul tappeto in sala da pranzo, sbiadita ma ancora visibile a distanza di quasi quindici anni.
A mezzanotte passata, aveva incrociato Adam sul pianerottolo. Lei aveva trascorso gran parte della giornata a preparare la casa, ma lui l’aveva salutata come se non l’avesse vista per mesi. Portava una pila di CD. Si erano guardati, poi lui l’aveva presa per mano e si erano fatti largo tra la gente seduta sulle scale fino in camera sua. Lui aveva richiuso la porta, attutendo appena Atomic dei Blondie che proveniva dallo stereo di Jacqueline al piano di sotto. I fogli sulla scrivania svolazzavano per la lieve brezza.
Senza dire una parola, l’aveva tirata a sé. All’epoca fumavano tutti e la mattina dopo la casa puzzava come un pub di lavoratori, ma lei aveva sentito l’odore di crema solare e di detersivo in polvere sulla sua camicia. All’inizio le aveva dato un bacio leggero, sfiorandole appena le labbra, ma poi l’aveva afferrata alla vita e aveva cominciato a fare sul serio.
Aveva abbassato le mani sui suoi fianchi e l’aveva sollevata sulla scrivania. Lei l’aveva tirato a sé e, in quel momento, si era aperta la porta. Marianne.
Lui si era subito staccato.
«Merda». Li aveva guardati entrambi. «Scusate, non avevo idea che… Sono venuta a prendere altra musica». Aveva lanciato un’occhiata ai CD che il fratello aveva buttato sul letto.
«Mazz?». Sulle scale si erano sentiti dei passi pesanti e sulla soglia era comparso anche Turk.
Adam aveva allungato una mano e aiutato Rowan a scendere, poi aveva accennato alla sua collezione di CD. «Da’ pure un’occhiata, Pete. Prendi quello che vuoi».
Rowan aveva pensato che prima o poi si sarebbero ritrovati, invece non era successo. Non era più riuscita a trovare Adam e lui era venuto a cercarla proprio quando era arrivata la polizia per porre fine alla festa. Alle cinque si era addormentata sul divano su cui leggeva Jacqueline e, il giorno seguente, lui le aveva rivolto un semplice sorriso imbarazzato. Non ne avevano mai parlato e non era più successo, anche se poi lei ci aveva pensato per anni.
Ormai aveva cominciato a guardare Seb con gli occhi di un’adulta. A incuriosirla erano state le differenze tra padre e figlio, soprattutto da quando, per certi versi, Adam le pareva più maturo. Lui era tranquillo e calmo mentre il padre era estroverso, volubile. Non c’era da stupirsi che Adam fosse diventato un accademico, ma Seb doveva mal sopportare il silenzio tassativo delle biblioteche. Rowan se lo immaginava in quella Bodleiana, con le parole che si accumulavano dentro di lui, sempre di più fino a quando, consapevole di non poterle trattenere ancora a lungo, usciva sul marciapiede e le riversava nel cellulare in un grosso fiume gorgogliante. Era sempre al telefono, non lo perdeva mai di vista, e la scioltezza con cui parlava gli conferiva un talento naturale per intervenire in radio e in televisione, per le interviste, i servizi e i documentari che girava ogni tanto.
Quando Rowan era all’università, era stato intervistato per la trasmissione Parkinson. Lui era il primo ospite, l’apripista per la band e la stella di Hollywood che sarebbero seguite, ma dalla sala comune del Brasenose l’aveva visto sfoderare il suo fascino come centinaia di altre volte in Fyfield Road. Quando ascoltava, si chinava in avanti come se prestasse attenzione con tutto il corpo; all’inizio le sue risposte erano pacate e sincere, rispettose delle domande, ma poi si alleggerivano sfociando nell’autocritica e in un pizzico di umorismo. Andava avanti e indietro, toccava vari argomenti, improvvisava a partire da certe idee, come un jazzista della conversazione.
La metropolitana arrivò a Marble Arch e un gruppo di ragazzini italiani invase la carrozza sgomitando. Quando Rowan aveva capito che Seb non era fedele a Jacqueline? Non molto dopo il bacio a Adam: era ancora giovane. Naïf, la corresse la voce di Marianne e, in effetti, era vero, perché aveva stentato a capire. All’epoca ragionava in termini assoluti: una cosa l’avevi fatta oppure no, una persona la amavi oppure no. Solo più tardi era arrivata la scala dei grigi.
Aveva sentito per caso Seb al telefono. Erano sdraiate sul prato con dei libri, ma Marianne si era addormentata, con la guancia premuta contro le pagine. Forse lui era convinto che dormissero entrambe o forse si era semplicemente dimenticato che la finestra dello studio era aperta, comunque lei aveva sentito il telefono e poi l’inconfondibile tono basso, seducente e confidenziale di un uomo, un donnaiolo, che parlava con qualcuno con cui era stato a letto o con cui aveva intenzione di andarci a breve. All’inizio aveva pensato che si trattasse di Jacqueline, perché un pomeriggio l’aveva sentito parlare così con lei mentre uscivano dalla loro stanza, ma poi lui aveva proposto di andare a cena quella sera a Faringford. Jacqueline era a un seminario a New York.
Nonostante il giardino fosse inondato dal sole, Rowan si era sentita rabbrividire. Di primo acchito aveva ringraziato il cielo che Marianne dormisse ma poi, mettendosi a sedere, aveva guardato il collo scoperto dell’amica, i capelli sottili sfuggiti alla coda ed era stata travolta da una rabbia incredula: come poteva quell’uomo fare una cosa simile? Si stava giocando la loro felicità, stava mettendo a rischio tutto. Era furiosa con lui, furiosa come se si fosse trattato di suo padre. Aveva deciso di dirlo a Marianne. Dovevano fermarlo prima che Jacqueline lo scoprisse.
Qualche ora più tardi, quando Seb era uscito fresco di doccia e sbarbato, non riuscendo a trovare un modo delicato per dirlo, Rowan era sbottata: «Ho sentito tuo padre al telefono. Penso che abbia una relazione». Le era venuta la bocca asciutta. Si era aspettata che Marianne si mettesse a piangere o a urlarle contro, insomma, ambasciator porta pena, invece era andata al frigorifero a prendersi una Coca-Cola.
«Lo so».
Per un momento, Rowan era rimasta senza parole.
«È difficile non capirlo, vivo con lui». Marianne aveva aperto la lattina e bevuto un sorso. «Non è per niente discreto. Cioè, se ne va in giro con quell’aria compiaciuta, soddisfatta e cospiratoria, come se stesse succedendo qualcosa di eccitante e volesse raccontarci tutto ma purtroppo…».
Rowan si era sentita invadere dal dolore, da una sensazione di tradimento puro: perché Marianne non gliel’aveva detto? Se suo padre fosse stato infedele, lei l’avrebbe confidato all’amica all’istante.
Marianne aveva visto la sua espressione. «Vieni». Aveva scostato una sedia per Rowan e si era seduta accanto a lei. «Lui fa così», aveva spiegato. «Non è la prima volta».
«Non me l’hai mai detto». Come se fosse stato quello il punto.
«Non volevo che lo sapessi. Mi vergogno».
«Con me?». Un’altra stilettata di dolore. «Non devi mai vergognarti con me».
Marianne si era nascosta il viso tra le mani. «Lo so. Mi dispiace». L’unico rumore nel silenzio era il ronzio del frigorifero.
«Da quanto va avanti?»
«Questa volta? Da poco, qualche settimana. In generale, da anni. Non in modo continuativo, però…».
«Dobbiamo fermarlo, Mazz, prima che tua madre lo scopra».
Marianne aveva rialzato la testa. «Lei lo sa».
«Che cosa?»
«Lo sa sempre. Lo conosce meglio di chiunque altro».
«Ma…».
«Dice che è una questione di vanità. Lui ne ha bisogno, ha bisogno di loro, per il suo ego».
Rowan non era riuscita a trattenere un urlo di incredulità. «E tua madre non gli basta? Lei è fantastica. Tuo padre dovrebbe ringraziare la sua buona stella che lei si degni anche solo di…».
«Lo fa, lo fa. È… diverso».
«In che senso?». Il suo tono si era fatto ostile, come se fosse stata colpa di Marianne.
«Dai, Ro, conosci i miei genitori. Te li immagini divisi? Hanno bisogno l’uno dell’altra. Si amano».
«E allora perché lui…».
«Come ho detto, è una questione di ego. È il più grande cliché della storia: un uomo di mezza età che corre dietro a donne più giovani per assicurarsi di saperci ancora fare, di poter ancora conquistare una donna». Aveva sbuffato. «Secondo te come mai ha dedicato tutta la sua vita professionale a studiare il sesso? Ovviamente è un esperto, ha fatto molte ricerche. Ma quelle donne passano. Qualche settimana, qualche mese e poi si stufa. Con la mamma, invece, non gli passa mai. Di lei non si stufa mai».
«E lei lo accetta». Tradita, Rowan aveva parlato in tono piatto, ma ora la traditrice era Jacqueline. Con tutto quello che scriveva e sosteneva e in cui credeva, proprio lei permetteva al marito di tradirla.
Marianne era andata al comò dove la madre, che cercava di smettere da quando Rowan la conosceva, teneva le sigarette. Aveva preso un piattino dall’armadio, acceso due sigarette e gliene aveva passata una.
«Io ci ho messo anni a capire», aveva spiegato, «ma adesso penso di esserci arrivata. La maggior parte delle volte, lei fa finta di niente, aspetta che lui si stufi, ma… Non è certo una cosa a cui ti va pensare quando si tratta dei tuoi genitori, ma non ho avuto scelta». Aveva alzato le spalle e fatto un tiro. «Credo che a una parte di lei la cosa non dispiaccia. Anzi, forse le piace pure».
Rowan l’aveva fissata.
«Ogni volta che pone fine a una delle sue… avventure, è come se avallasse la loro relazione, non ti pare? Sceglie lei invece dell’altra donna. Continua a scegliere lei».