Capitolo ventotto
Nel punto più a nord della stretta isola creata dalle due corsie di Magdalen Street c’era il Memoriale dei Martiri. Era un obbrobrio malignamente gotico, una guglia riccamente intagliata e annerita dalla fuliggine che, ogni volta che la vedeva, ricordava a Rowan l’ossuto dito carbonizzato puntato verso il cielo di uno degli uomini commemorati, bruciato sul rogo proprio dietro l’angolo, in Bond Street.
Intorno alla base c’erano dei bassi gradini, incoerentemente disadorni. Attraversò la strada e li salì. Era circa un metro e mezzo più in alto rispetto al marciapiede, abbastanza per permetterle di vedere oltre Magdalen Street e attraverso le finestre illuminate della sala da pranzo formale del Randolph Hotel.
Alla fine del primo anno di università, quando l’aveva chiamato per dirgli che aveva preso il massimo dei voti agli esami, il padre, appena rientrato da un lungo periodo in Sud America, aveva deciso di portarla a pranzo. Per festeggiare, aveva spiegato.
La puntualità era sempre stata fondamentale per lui e, quando era arrivata, sottraendosi al sole accecante del marciapiede che già cominciava a sprigionare calore, lui la aspettava al bancone nella reception piena di lampade, con le pesanti scale che salivano come in un’opera di Escher sopra la sua testa, illuminate, per quanto possibile, dalle finestre gotiche a punta. La moquette rosso sangue aveva acuito la sua sensazione di trovarsi d’un tratto, come Giona, nel ventre di un’enorme bestia.
«Hai una bella cera». Aveva premuto per un attimo la guancia contro la sua. «Mi aspettavo di trovarti bianca come un cadavere dopo tutto il tempo che hai passato a studiare».
«Ho finito tre settimane fa», aveva ribattuto lei e, rendendosi conto che lui avrebbe potuto leggervi una critica o del risentimento, si era affrettata ad aggiungere: «Il tempo è stato bellissimo da allora, quindi sono stata un sacco all’aperto».
«Bene. Non c’è niente di peggio che restare rinchiusi in biblioteca».
Si era trattenuta dal fargli notare che, in realtà, era proprio così che, se possibile, intendeva passare il resto della sua vita, invece aveva sorriso e si era lasciata condurre lungo il corridoio fino alla sala da pranzo. Questa occupava un angolo dell’edificio e aveva finestre su entrambi i lati; quelle su Beaumont Street davano sul magnifico Ashmolean Museum, mentre dall’altra parte si affacciavano sul Memoriale e sul Balliol College subito dietro. Rispetto alla reception, la sala era inondata di luce e i bicchieri e le posate scintillavano sulle tovaglie di lino bianco inamidate. Le pareti erano rivestite di legno, con dipinti a olio. Dal tavolo vicino alla finestra che il padre aveva richiesto, Rowan vedeva tutta la stanza e i tre gruppetti di avventori già seduti nonostante fosse presto, tre uomini d’affari tutti vestiti di grigio e due coppie sulla settantina. Quella più vicino a loro era intenta a bere sherry e scrutare il menu. Il pranzo in settimana, pensò lei, prerogativa di chi era in pensione o aveva il rimborso spese e di chi, volutamente o meno, voleva evitare l’intimità di una cena, con il lume di candela e la grande probabilità di bere troppo siero della verità.
Con sua grande sorpresa però, il padre aveva subito ordinato due bicchieri di champagne. «A te», aveva detto, facendo cincin con il suo bicchiere, «e agli ottimi voti che continuerai a prendere».
«Dio, niente pressioni».
«No», aveva ribattuto lui, «niente pressioni. Ma ce la farai». Aveva bevuto un sorso. «Tua madre sarebbe stata orgogliosa di te oggi, Rowan».
Era rimasta stupita: lui non parlava mai di sua madre. Quando era più piccola, la cosa l’aveva infastidita perché lei avrebbe voluto delle informazioni, ne aveva bisogno, ma crescendo aveva compreso quel silenzio ed era persino arrivata ad apprezzarlo. Era troppo doloroso: per lui, i ricordi, e per lei, la mancanza di ricordi. A parte il sangue, in comune loro due avevano quella perdita. In quel momento aveva provato un gran desiderio di avere accanto la madre, un vuoto che si era spalancato dentro di lei come un cratere. Sapendo quanto doveva essergli costato dire quelle parole, aveva represso le domande che le erano venute in mente: E tu, sei orgoglioso, papà? Non potresti dirmelo?
La coppia attempata al tavolo vicino aveva ordinato la mousse di salmone e, con un’occhiata, Rowan aveva beccato la donna a osservarli. Chissà se avevano l’abitudine di analizzare gli altri clienti, per capire i rapporti e la situazione tra loro e, in quel caso, che cosa ne pensasse la signora della ragazza e dell’uomo che la intratteneva. Dalla carnagione si capiva che erano parenti, i geni del padre erano prevalsi su quelli più timidi della madre, ma considerando la formalità tra loro, era comprensibile se avesse pensato che fossero nipote e zio non troppo intimi. Il padre aveva fatto uno sforzo però, doveva ammetterlo, e durante il pranzo avevano avuto un cortese scambio di informazioni. Lei gli aveva raccontato degli esami che aveva sostenuto e dell’estrazione a sorte per le stanze all’università in autunno; lui aveva parlato di Rio e Santiago e di un nuovo farmaco contro il cancro in cui la Stern Rizer stava investendo enormi fondi per la ricerca.
A metà della portata principale, tuttavia, lui aveva fatto segno al cameriere di portare altro champagne e Rowan aveva capito che c’era sotto qualcosa. Aveva attribuito la sua vivacità al primo bicchiere, all’effetto dell’alcol all’ora di pranzo su qualcuno che non ci era abituato, ma con quel secondo giro aveva capito che il padre era nervoso. Si stava facendo forza. Si accingeva alla battaglia.
Se non altro, aveva aspettato che lei finisse il risotto. Poi, svuotando metà bicchiere in un unico sorso, l’aveva guardata, quasi con ritrosia. «Oggi festeggiamo due cose», aveva annunciato. «Anzi, tre».
«Davvero?». Il suo cuore aveva cominciato a battere forte.
Le aveva sorriso. «So che sarà una sorpresa per te, ma non volevo turbarti prima degli esami e… Be’, non ha senso menare il can per l’aia: mi sposo».
Nel profondo di lei, era crollato qualcosa. L’aveva percepito dietro la cassa toracica: un castello di carte, una camicia scivolata dall’ometto e caduta a terra in una massa informe. Il locale si era fatto piccolo piccolo e lei aveva avuto l’impressione di guardarlo dalla fine di un tunnel, con il padre una sagoma minuscola e lontana oltre la bianca distesa della tovaglia. Nelle orecchie aveva sentito un rumore simile a un flusso d’acqua, al mare dentro una conchiglia, e il pavimento si era inclinato pericolosamente sotto la sua sedia. Si era aggrappata al tavolo.
Il padre non se n’era accorto. «…ancora aspettando le date, ma probabilmente sarà la seconda settimana di dicembre», stava dicendo. «Jessica, che non vede l’ora di conoscerti, vuole un matrimonio d’inverno. La chiesa del suo paese è molto carina e, ovviamente, è tradizione che si faccia in quello della sposa, quindi…».
«Qual è la terza cosa?», aveva chiesto Rowan. La sua voce pareva appartenere a qualcun altro.
«Come?»
«La terza cosa».
Il padre aveva fatto un sorriso lezioso, non c’era altro modo per descriverlo. «Be’, ho promesso a Jess di non dire niente perché siamo solo agli inizi e non bisognerebbe dirlo a nessuno prima dei tre mesi, ma…».
Si era alzata, rendendosi a malapena conto di trascinare con sé la tovaglia e, sulle gambe malferme, era uscita dalla stanza. «Rowan», aveva sibilato il padre, ma ormai il ristorante era quasi pieno e lui odiava le scenate. Via, lungo il corridoio fino alla tetra reception e poi fuori, prendendo velocità mentre scendeva i gradini fino al marciapiede e riemergeva sotto il sole alto.
Non aveva neanche dovuto pensare a dove andare. Sulle gambe che parevano di plastica ammorbidita dal calore, aveva imboccato St Giles’ a tutta velocità, con il risotto ammassato nello stomaco che oscillava come un doloroso pendolo. La gente la fissava; all’incrocio vicino alla chiesa, un uomo e una donna si erano voltati a guardarla mentre li superava, con il fiatone e la schiena madida di sudore. Le suole delle scarpe estive erano così leggere che si era spelata gli avampiedi. Aveva sofferto per giorni poi a camminare.
Aveva suonato il campanello e, nell’attesa, aveva implorato: Fa’ che siano in casa. Ti prego, fa’ che siano in casa. Con il passare dei secondi, la porta aveva assunto un valore simbolico: si sarebbe aperta o lei sarebbe stata lasciata fuori per sempre, perché non apparteneva a nessuno e nessuno la amava?
Ormai scossa dai tremiti, aveva visto una sagoma comparire dietro il vetro. Non appena aveva aperto la porta, Seb aveva capito subito che era successo qualcosa. L’aveva presa tra le braccia e l’aveva stretta forte. «È tutto a posto», aveva detto. «Ci pensiamo noi a te. Ci pensiamo noi». Quando lei aveva ripreso a respirare in modo normale, lui si era ritratto e l’aveva guardata in faccia. «Va così male?»
«Abbastanza».
Lui aveva aggrottato la fronte, con sguardo seriamente preoccupato. «Siamo tutti qui», aveva detto. «Tutti e quattro. Siamo in giardino, a fare il cruciverba. Vieni con me. Vieni a raccontarci che cosa succede. Sistemeremo noi tutto».
Quando le campane suonarono, si alzò e si incamminò lungo Broad Street. Aveva funzionato: le era bastato guardare attraverso quella finestra e rievocare quel ricordo. Da quando era tornata a Oxford, e soprattutto dalla notte con Adam, la vecchia sensazione aveva cercato di scoperchiare il vaso in cui l’aveva rinchiusa, l’insidiosa idea che non solo nessuno l’amasse ma che non potesse essere amata, che la sua vita prima di incontrare i Glass non fosse stata dovuta alla sfortuna, che non fosse stata il risultato di una madre morta troppo giovane e di un padre che non era riuscito a gestire la situazione, ma che fosse stata colpa sua, la conseguenza di un difetto insito in lei. Quella sera, prima di incontrare Adam, aveva avuto bisogno di un promemoria dell’amore che aveva davvero ricevuto; del fatto che, anche se la sua famiglia era stata un disastro, lei era stata accolta in quella di qualcun altro. E non era forse meglio, in un certo senso? Non era una conferma più importante? I Glass non erano stati costretti a stringersi intorno a lei come avevano fatto, non c’era stato nessun obbligo genetico. Avevano scelto di farlo.
Al telefono, Adam le aveva rivelato ben poco. Si era scusato per il silenzio radio spiegandole che aveva dovuto riflettere e poi le aveva chiesto se poteva venire a vederla. Lei aveva accettato, ovviamente, ma aveva proposto di incontrarsi al Turf, che distava da casa un quarto d’ora abbondante a piedi. Anche se lui ci sperava, e Rowan ormai ne dubitava, lei aveva voluto mettere in chiaro che, dopo aver fatto passare quattro giorni prima di chiamarla, non poteva semplicemente riprendere da dove si erano interrotti nel fine settimana. Oltre che come tentativo di difesa simbolica, quella distanza aveva anche un valore pratico: se fosse venuto in macchina, lui non avrebbe potuto bere troppo e, se fossero davvero tornati a casa, lei avrebbe potuto smaltire l’alcol camminando e farsi qualche domanda seria.
Chi non era di Oxford non sarebbe mai finito per caso in quel pub. Il Turf era completamente circondato da altri edifici, invisibile dalla strada e accessibile soltanto da due vicoli bui. Il palazzo in cui stava pareva uscito dal mondo delle fate: a graticcio, con le finestre sghembe di diversi stili e con il tetto spiovente come il cappello di un fungo velenoso.
All’interno, il soffitto era solcato da travi e sovrastava di appena una trentina di centimetri la testa di Rowan. Lei percorse lo stretto passaggio fino al bancone e trovò Adam ad aspettarla al tavolo vicino alla finestra. Non appena la vide, lui scattò in piedi.
«Ciao», le disse e le diede un bacio sulla guancia. «Grazie per essere venuta».
Rimase colpita da quella frase strana e formale e, per uno o due imbarazzanti secondi, si sforzò di trovare una buona risposta, ma non ci riuscì. Dopo aver insistito perché occupasse lei il posto migliore sulla vecchia panca da chiesa, lui andò al bar, dandole la possibilità di osservarlo. Era vestito quasi esattamente come venerdì: jeans e un maglione blu navy a girocollo ma, questa volta, il colletto della camicia era di jeans sbiadito. Aveva tagliato i capelli e sulla nuca spiccava mezzo centimetro di pelle pallida. Quando l’aveva baciata, aveva la guancia liscia, rasata anche più tardi che quella mattina.
Tornò con due bicchieri di vino rosso. «Com’è andata la settimana?», le chiese e lei si immaginò la sua reazione se gli avesse detto la verità.
«Bene. E a te?».
Si strinse nelle spalle. «Sono stato occupato, a scrivere e… Ro, mi dispiace tantissimo di non averti chiamato prima».
All’università, a vent’anni, gli avrebbe detto che non importava, avrebbe accantonato la questione come un nonnulla, adesso invece era più saggia e non disse niente.
«Come ho detto ieri sera, dovevo schiarirmi le idee prima di parlarti. Dovevo capire che cosa stavo facendo, se stavo…». Passò il pollice su una macchia di acqua alla base del bicchiere. «Mi dispiace. Adesso capisco che sono stato egoista. Non volevo lasciarti in sospeso».
«Ci sei riuscito?», disse lei. «Ti sei schiarito le idee?»
«Credo di sì. Sì. È…». La guardò in faccia. «Mi sentivo in colpa. Venerdì ero felice e mi sembrava sbagliato. Sleale, nei confronti di Marianne».
«Sleale?»
«Non mi sembrava giusto essere felice per qualcosa così a ridosso della sua morte, e che noi fossimo stati insieme là, in casa…». Scosse la testa. «Se non avessimo bevuto così tanto, non l’avrei fatto».
Per Rowan fu come essere stata presa a schiaffi. Arrossì all’istante e, malgrado la luce debole, Adam se ne accorse. «Dio, no, no, non è quello che intendevo! Volevo dire che non sarebbe dovuto succedere là, a casa, non che non avrei… Aaargh». Appoggiò i gomiti sul tavolo e nascose il viso tra le mani. Quando rialzò lo sguardo, aveva un’espressione composta. «Te lo dico al contrario. Tu mi piaci molto, Rowan, da sempre. Venerdì ero felice, ho finalmente avuto l’opportunità di fare una cosa che volevo fare, e che avrei dovuto fare, da molto tempo, ma poi ho pensato: sono un mostro, a pensare a me stesso, a una nuova relazione, quando mia sorella è morta da neanche un mese? Quando la donna che mi piace era la migliore amica di mia sorella».
«Lo so».
«E quello che ti ho detto sul fatto che Mazz mi aveva chiesto di non provarci con te all’epoca…».
Rowan pensò a suo padre, alla relazione che, aveva scoperto poi, lui aveva portato avanti con Jessica per quattro anni prima di quel pranzo al Rudolph; alle settimane in cui non era stato a Lima o a Buenos Aires, come aveva detto, ma in un paesino del Kent. «Adam, è tutto a posto», disse. «Non c’è bisogno che mi spieghi».
«Sì, invece».
«Il tempismo è stato pessimo, l’hai detto anche tu venerdì. È andata così; non devi…».
«Quello che sto cercando di dire», la interruppe, «è che penso che a Marianne non dispiacerebbe. Adesso. All’epoca, quando eravate così intime, quando eravamo giovani, capisco come mai l’idea non le piacesse, suo fratello e la sua migliore amica, ma adesso, soprattutto adesso, non c’è più nessun conflitto».
«Io…».
«Penso che ne sarebbe contenta. Se riusciamo a cavare qualcosa di buono da tutto questo… Cioè, sempre che tu lo voglia, s’intende; non so come la pensi…». Gli scappò un verso strozzato. «Sono una frana in queste cose».
Rowan scoppiò a ridere, con una sensazione di leggerezza nel petto. Calma, si mise in guardia, fingiti indifferente, ma quando lui allungò una mano per prendere la sua, si ritrovò suo malgrado a sorridere come una stupida.
«Con tutto quello che è successo venerdì», disse lui, «non te l’ho detto, ma un paio di settimane prima che succedesse, appena dopo Natale, io e Mazz siamo usciti per un drink e lei mi ha detto una cosa, en passant. L’ha detta e poi la conversazione ha preso un’altra piega o le è squillato il telefono, non ricordo, comunque mi ha detto che voleva riallacciare i contatti con te. Per superare quello che è successo anni fa».
Rowan si irrigidì. «Davvero?»
«Non so se lo sai, ma era diventata una buona amica di Michael Cory, l’artista. Si erano conosciuti tramite James, alla galleria».
«Sì», rispose lei. «Volevo dirtelo venerdì prima che… che ci distraessimo. Mi ha contattato ed è venuto a casa, per parlare di lei. Le sta facendo un ritratto, Adam».
Si aspettava un’espressione orripilata mentre poco per volta si rendeva conto delle ripercussioni, invece Adam annuì. «Lo so. Me l’aveva detto lei».
«Non eri preoccupato?»
«Per la sua reputazione? No. L’hai incontrato?»
«Sì».
«Allora sai che sono tutte stronzate, le storie sul fatto che vuole distruggere le persone. Che le vuole rovinare. Adoro l’idea però, è così vittoriana, non ti pare? Corsetti e repressione, come se lui fosse un demonio con i baffi impomatati che se ne va in giro a slacciare bustini. Non l’ho ancora incontrato però. Anzi, mi ha lasciato un messaggio in segreteria prima, mentre guidavo…».
«Ah, sì?»
«Mazz diceva che era un brav’uomo. Affidabile, aveva detto. Diceva di fidarsi di lui».
«Non lo so, Adam. Cioè…».
«A quanto pare però quel che si dice su di lui e sulla sua predisposizione alla psicologia è vero. Lei diceva che avrebbe potuto risparmiarsi di andare dallo psichiatra, quando ha avuto l’esaurimento; le sarebbe bastato chiamare lui».
Adam aveva trovato parcheggio in Broad Street dove, spiegò a Rowan, d’un tratto particolarmente interessato ai tavoli da picnic deserti fuori dalla finestra, poteva lasciare la macchina per tutta la notte.
«Quindi…», esordì lei con un sopracciglio inarcato.
«Quindi», le fece eco lui, «potremmo bere un altro bicchiere di vino se ti va». Rowan era scoppiata a ridere.
Avevano lasciato il pub al terzo, appena dopo le dieci. Alcuni fumatori incalliti sostavano intorno a un fungo riscaldante ma, a parte loro, il cortile era deserto e, nel vicolo buio per uscire da Bath Place, Adam la prese per mano, la tirò a sé e la baciò. «Avevo voglia di farlo da quando ti ho vista entrare dalla porta», le disse sottovoce, con la bocca ancora vicina al suo viso, tanto che lei sentì il suo fiato sulla guancia. «L’esame di coscienza che mi sono fatto questa settimana… non farti un’impressione sbagliata, ti prego». Rowan avvertì di nuovo il petto gonfiarsi di gioia, per un desiderio forte come quello di molti anni prima, nella sua stanza.
Parks Road era tranquilla e, nel tratto prima della zona dei dipartimenti scientifici, lui la fece scendere dal marciapiede. Si sentiva tornata all’università, quando rincasava ubriaca pomiciando in pubblico senza pudore. Il lungo muro perimetrale di Wadham era ricoperto di edera, come un enorme tappeto di pelle di pecora che pendeva dall’alto. Forse Adam aveva pensato che sarebbe stato più comodo rispetto alla pietra ma, quando ve la premette contro, le foglie erano fredde e li avvilupparono entrambi in uno strano aroma, di polvere e sostanze chimiche al tempo stesso, che riportò alla mente di Rowan il cimitero di St Sepulchre’s, l’odore della terra secca del viale di tassi con la panchina dove lei e Marianne si sedevano a parlare. Adam la baciò con più foga, spingendo il proprio corpo contro il suo.
Udirono delle voci maschili venire verso di loro, di ragazzi ubriachi e, quando lui le prese il viso tra le mani, uno urlò: «Trovatevi una stanza». Adam si ritrasse come se si fosse scottato e, quando lei lo scrutò al buio, aspettandosi di vederlo imbarazzato, di nuovo pieno di riserve, notò invece che sorrideva. «Non sarebbe una brutta idea».
Tra l’aria fredda e la velocità a cui camminarono, quando arrivarono in Fyfield Road Rowan aveva il respiro corto e, nel voltarsi verso Adam sull’ultimo gradino, il suo fiato creò una nuvola alla luce del lampioncino. Negli ultimi cinque minuti, la sua mente era stata un turbine di attività. Non poteva rivelargli la verità, era fuori discussione, ma doveva pur dirgli qualcosa. Soffriva al pensiero di mentirgli, soprattutto adesso che erano agli inizi di una storia, ma la verità gli avrebbe rovinato la vita.
«Adam», gli disse, «devo confessarti una cosa». Lo vide farsi serio in viso. «No, non è nulla di grave. È solo che… ieri, quando sono uscita, ho dimenticato le chiavi e sono rimasta chiusa fuori. So che lasciavate ai Dawson una chiave di riserva, ma loro sono ancora via, quindi alla fine ho dovuto forzare la porta della cucina».
«Forzare?»
«Non volevo rompere il vetro, allora ho dato un calcio alla porta, sperando che si aprisse, invece si è rotto il montante… e si è staccata tutta la serratura e il legno è andato in frantumi».
«Wow, sei Karate Kid».
«Mi dispiace davvero tanto».
«Non preoccuparti, la faremo riparare».
«Già fatto. Stamattina è venuto un falegname». Di parola, Cory l’aveva chiamata alle dieci e nel giro di mezz’ora era arrivato il falegname. «Ha sostituito tutto il montante. Ha detto che comunque era marcio. Per l’umidità. Probabilmente è per quello si incastrava sempre».
«L’hai pagato tu?».
Rowan ebbe un attimo di esitazione. «Sì».
«Ti ridarò i soldi».
«No. Figurati. È stata colpa mia. Se non avessi dimenticato le chiavi, non sarebbe successo».
«Sei una studentessa, Ro. E poi ci stai facendo un favore».
«Ho lavorato per anni; non sono mica sul lastrico».
«Possiamo discuterne dopo. Adesso hai le chiavi? Fa freddo, fammi entrare».
Aveva lasciato accesa la lampada con la base a forma di elefante, così da non trovare la casa buia al rientro; quasi di sicuro sarebbe stata da sola, aveva pensato.
«Quindi la porta sul retro è sicura adesso?». Adam appese la giacca. «Si chiude bene, intendo?»
«Sì. Vieni a vedere».
La seguì di sotto. «Non l’ho ancora verniciata», spiegò Rowan mentre entravano in cucina. «Ho comprato la vernice, ma speravo di cavarmela senza dirti niente fino a cose fatte».
Adam passò un pollice lungo tutto il nuovo montante e aprì la serratura, facendo entrare una folata di aria fredda. «Un lavoro davvero ben fatto», commentò mentre la richiudeva.
«Ne sono contenta». Non aveva idea di quanto avesse dovuto sborsare Cory perché il tizio se ne occupasse così in fretta, ma gli era molto più grata di quanto avesse dato a vedere. La notte precedente la casa le era parsa un’enorme gabbia per uccelli, e lei era il canarino all’interno mentre un gatto invisibile si aggirava furtivo nell’ombra. Era rimasta a letto sveglia fin dopo le tre, irrigidendosi a ogni scricchiolio e rumorino. Convinta di aver sentito qualcosa in giardino, si era alzata due volte per sbirciare da dietro le tende, ma non aveva visto nulla tranne il grosso rettangolo illuminato della finestra di Martin Johnson.
Adam chiuse la porta a chiave ma, nel voltarsi per andarle incontro, vide il disegno sul tavolo. «Quello è… Sembra lo stile di Michael Cory».
«Sì. L’ha fatto mentre parlavamo. Non è niente di che, solo uno schizzo».
«Posso?»
«Ma certo».
Adam lo fece scivolare con delicatezza fino al bordo del tavolo e lo sollevò con la punta delle dita. Rowan pensò ai tre milioni di dollari che Hanna Ferrara aveva pagato per il suo ritratto e si chiese quanto valesse quel disegno. Di certo qualcosa, anche se lei non era nessuno. Adam lo scrutò in silenzio per diversi secondi.
«Gli piaci?», chiese infine.
«Che cosa?»
«È ovvio che sei tu, ma non è così che ti avrei disegnato io. Hai un’aria… dura». Aggrottò la fronte. «Di una con cui è meglio non scherzare».
«Non è così che mi vedi?».
Era ironica, ma Adam prese la domanda sul serio. «No, non sei dura. Autosufficiente. Non te l’ho detto anche venerdì? È una delle cose che ho sempre ammirato di te». Mise giù il foglio, si voltò verso di lei e le cinse la vita. Si baciarono e Rowan lo strinse a sé, per immergersi in lui. Con sua sorpresa però, dopo un minuto, lui si ritrasse.
«Avresti potuto chiamarmi tu», le disse.
Lo guardò in viso, negli occhi seri, e si chiese se sarebbe mai riuscita a dirgli che no, non avrebbe potuto, non dopo che Turk l’aveva accusata di voler mettere le grinfie su di lui. Se tra loro fosse nata una relazione, doveva essere sicura che fosse stato lui a scegliere che accadesse. Se Turk gli avesse detto in faccia quelle cose, voleva che Adam potesse accantonare senza nemmeno pensarci l’idea che fosse stata lei a dargli la caccia.
Scosse la testa. «Dovevo sapere che ne eri certo. E che non fosse troppo presto».
«Non è troppo presto».
Adam si addormentò per primo e, dopo essersi allungata con cautela su di lui per spegnere la luce, Rowan rimase di nuovo sveglia. Era davvero una donna dura? Sì, quando era necessario. Se doveva combattere, era in grado di farlo.