Capitolo ventitré

Rowan non conosceva Lorna, però l’aveva incontrata. Era stato a metà giugno, una settimana dopo aver deposto per l’ultima volta la penna ed essere uscita dalle Examination Schools sbattendo le palpebre per il sole di mezzogiorno, con la toga svolazzante alle sue spalle simile a un ultimo sbuffo di fumo infernale. Nell’attraversare Radcliffe Square il giorno della festa, aveva visto i ciottoli luccicare per i brillantini lanciati dalla gente come coriandoli mentre gli amici si trascinavano esausti verso il pub. Il cielo era terso, come quello sopra le colline ricoperte di pini sulle isole dell’Egeo bruciate dal sole, avvisaglia, avrebbero poi scoperto, del caldo che sarebbe arrivato a fine luglio e in agosto.

Era il cinquantesimo compleanno di Seb. Felice come un soldato in licenza dopo la mostra con cui si era laureata e ancora incredula per i quadri venduti a Dorotea Perling, Marianne era tornata a casa da Londra per il fine settimana. Quella mattina alle nove aveva chiamato Rowan per chiederle di arrivare prima per dare una mano. «Doveva essere un pranzo a tavola per sedici persone», aveva detto, «ma come al solito la mamma ha invitato chiunque abbia incrociato nelle ultime due settimane. Ieri sera l’abbiamo messa alle strette e, a quanto sembra, saremo in novanta».

«Cavolo».

«Forse di più, dice lei, se tutti vengono accompagnati. Pete ha chiesto in prestito al padre il barbecue del Rotary Club e abbiamo chiamato il macellaio per un ordine di emergenza».

«Emergenza», aveva sbuffato Jacqueline in sottofondo. «Andrà tutto bene. Come sei drammatica, Marianne».

Il camioncino del negozio di liquori era arrivato insieme a Rowan, che aveva mostrato all’autista il cancelletto sul retro perché scaricasse il vino direttamente in giardino. In cucina, Marianne rimestava un’enorme ciotola di pasta al pesto, con i capelli bagnati di sudore appiccicati alla nuca, mentre Jacqueline sedeva al tavolo a bere un caffè e scrivere una lettera. All’ombra nel patio c’era una vecchia vasca da bagno con i piedini e macchie color rame sotto i rubinetti. «Ce l’hanno prestata i Dawson per le bevande», aveva spiegato Mazz. «Adam è andato in macchina a comprare il ghiaccio». Aveva indicato un sacco di maleodoranti patate piene di fango e aveva storto il naso. «Scusa. Le abbiamo prese online. Ovviamente dovevano arrivare tutte sporche proprio oggi».

Il telefono squillava in continuazione per via degli invitati che chiedevano a che ora venire, fino a quando Seb, che doveva scrivere un articolo per l’«Observer» del giorno dopo, era sceso dalle scale come una furia, l’aveva staccato dalla parete e l’aveva portato con sé nello studio. «Lo riavrete quando avrò finito. È come cercare di lavorare in un manicomio, che cavolo». Aveva richiuso la porta con un gran colpo.

Rowan aveva lanciato un’occhiata a Marianne, che si era stretta nelle spalle. «È così da quando sono arrivata».

Con alcune assi prese dal capanno avevano costruito un tavolo di fortuna per il buffet, coperto con le tovaglie di pizzo greche ereditate da una zia di Jacqueline. Avevano riempito un’infinità di ciotole di insalata ed erano corsi in giro per sistemare bicchieri, posate d’argento e taglieri per la frutta secca e il formaggio. Rowan aveva tagliato baguette fino a quando le era sembrato di avere il gomito del tennista. «È un grosso problema di salute tra i borghesi», aveva commentato Adam, impegnato a lavare gli attrezzi per il barbecue. «Insieme al tunnel carpale per le troppe aragoste aperte e al soffocamento da oliva al terzo martini».

Alle due, Seb era sceso, aveva riattaccato il telefono ed era uscito, diretto alla vasca. Si era preso una birra, l’aveva stappata contro il muro del patio e aveva bevuto una lunga sorsata. Nel mettere giù la bottiglia, aveva notato i due studenti universitari assoldati su insistenza di Marianne per gestire il barbecue.

«Dio, Jacks», aveva detto, «si sposa qualcuno?».

I primi ospiti erano arrivati proprio mentre Rowan tornava di sotto dopo essersi cambiata. Al lavello, intenta a risciacquare la lattuga per l’ultima insalata, aveva osservato Seb dalla finestra. Il redattore dell’«Observer» gli aveva già mandato un’email entusiasta, ma lui non si era rilassato come al solito dopo una scadenza. In giardino c’era la sua versione da festa, ciarliera e carismatica, eppure quel giorno aveva addosso una strana energia che lei non riusciva a isolare, un certo potenziale, come uno scintillio.

Le porte del patio erano spalancate e la sua risata arrivava spesso fino in cucina. Indossava dei jeans e una camicia azzurra di cotone, ormai morbido e sbiadito come dopo innumerevoli estati su uno yacht a Capri, con le maniche arrotolate. Chi non lo conosceva, gli avrebbe dato trent’anni. Jacqueline aveva scelto un prendisole verde che aveva comprato durante la luna di miele a Istanbul venticinque anni prima e un paio di sandali con la zeppa di sughero che la sua vecchia amica del Sussex Miriam Jacobs l’aveva convinta a prendere dopo un pranzo alcolico a Spitalfields la settimana precedente. Cercava di non dare a vedere quanto ci tenesse, ma per ben due volte Rowan l’aveva beccata a girare di nascosto la caviglia per ammirarli.

«Miriam è una buona influenza», aveva commentato Seb un paio d’anni prima, quando Jacqueline era tornata da Londra con dei pantaloni neri a sigaretta e una giacca da motociclista. «Senza il suo intervento periodico, ti metteresti ancora i vestiti che usavi all’università».

«Guarda che alcuni me li metto davvero ancora», aveva ribattuto Jacqueline. «E se ci entrassi, ne userei molti di più».

Il prato si era riempito in fretta di ospiti. Alle tre e mezza, il barbecue andava a pieno regime e gli studenti di Jacqueline erano rossi in viso per il calore e l’ansia di fornire un approvvigionamento costante di agnello e pollo. Nel portare fuori gli ultimi due vassoi di carne cruda, Rowan si era sentita come un domatore di leoni o un guardiano della città incaricato di tenere a bada un mostro famelico, fuori dai cancelli. «La mamma ha minimizzato apposta», aveva sussurrato Marianne. «Di nuovo. Solo con le famiglie, ho già contato settantaquattro persone».

A furia di cucinare ormai avevano la nausea e faceva troppo caldo, quindi non avevano mangiato nulla e si erano buttati direttamente nella mischia. Nei sette anni precedenti, Rowan aveva conosciuto molti amici dei Glass, che ora si erano informati sugli esami e sui suoi progetti futuri. Era rimasta commossa nello scoprire che Seb aveva raccontato a diverse persone del lavoro con Robin Poretta alla BBC. «Certo», aveva commentato lui quando glielo aveva fatto notare. «Mi sto dando delle arie, per crogiolarmi nella tua gloria». Nel dirglielo però, aveva guardato dietro di lei, come se stesse cercando qualcuno.

In seguito, Rowan aveva ricordato quell’ora come euforica, surreale: il caldo, il vino, il senso di appartenenza, di far parte della squadra che in qualche modo era riuscita a mettere in piedi la festa, con la promessa del futuro che si dispiegava davanti a lei come uno striscione nell’inebriante cielo azzurro. L’aveva sentita nel petto gonfio: una gioiosa pressione sempre più forte.

Avrebbe dovuto capirlo.

Per puro caso, era stata lei ad aprire la porta. Aveva chiacchierato con Nina Dowling, una ex studentessa di Jacqueline che insegnava al Trinity, ed era rientrata per andare in bagno. Mentre saliva le scale della cucina, aveva sentito suonare il campanello. Dal baccano in giardino, chi conosceva bene i Glass sarebbe entrato da solo dal cancelletto sul retro, perciò, chiunque fosse stato, non faceva parte della loro cerchia più stretta.

La prima impressione di Rowan era stata la luce, che splendeva sui lunghi capelli lisci e faceva luccicare un braccialetto d’argento. La donna aveva il sole alle spalle, che le metteva in risalto la forma della testa e una corona di capelli corti sulle tempie. Indossava un semplice chemisier di cotone azzurro e bianco con una cintura di pelle intrecciata e un paio di sandali romani dorati che Rowan aveva riconosciuto perché li aveva visti da Accessorize in uno dei suoi oziosi pomeriggi dopo gli esami. Non costavano molto, come tutto da Accessorize, ma addosso a quella donna pareva che venissero da Bond Street. Forse per via della sua postura, del modo in cui stava dritta con naturalezza, con le spalle all’indietro e il mento sollevato?

Con un sorriso, aveva sistemato la bottiglia di vino e la pochette di paglia che teneva infilate sotto al braccio. «Salve», aveva detto. «È qui la festa di Seb? Sono Lorna».

La mente di Rowan, che galleggiava in un mare di endorfine, si era illuminata come un vecchio centralino. L’ultima volta che aveva visto Seb a pranzo era stato a fine aprile. “Prima che tu sparisca nel buco nero degli esami”, le aveva scritto lui sul biglietto che aveva trovato nella cassetta della posta. Si erano visti allo University Parks e avevano camminato una mezz’ora in riva al fiume e sotto i ciliegi, all’epoca in fiore. «Come frivole mutandine rosa alle Folies Bergère», aveva detto lui, facendola scoppiare a ridere. Avevano pranzato al Rose and Crown in North Parade e faceva abbastanza caldo per sedere comodamente all’aperto per la prima volta dell’anno, con le foglioline verdi dei rampicanti sui graticci che cercavano il sole.

Quel giorno, lei aveva capito quasi all’istante che era entrata in scena una nuova donna. Lui aveva la sua tipica leggerezza esagerata nei movimenti e nel tocco, la maggiore prontezza di spirito. Ormai aveva imparato a riconoscere i segnali quanto Marianne e le era parso che, nelle prime settimane di una nuova avventura, Seb ricordasse un ragazzino insolente, come se, risvegliandosi, alzasse la testa e vedesse di nuovo il mondo per la prima volta, con le sue facoltà ipersensibili. Forse era la consapevolezza di comportarsi in modo scorretto a fargli incanalare tanta energia verso gli altri e il loro benessere, o forse voleva semplicemente che tutti si sentissero bene e vivi quanto lui. Quel giorno era stato particolarmente brillante, l’aveva distratta con un pettegolezzo scandaloso su uno scrittore che lei aveva incontrato a cena in Fyfield Road e l’aveva rassicurata che era impossibile che qualcuno riuscisse a leggere per intero la dettagliata lista di letture che il suo tutor consegnava un paio di volte a settimana. «Ti conosco», le aveva detto, «quindi so che se dici che non ti sei impegnata abbastanza, hai fatto il doppio degli altri. Andrai alla grande, davvero. Facciamo tutti il tifo per te perciò, quando ti vengono i dubbi, pensa a noi in Fyfield Road e al nostro sostegno».

Non era mai riuscito a trattenersi dal parlare di chiunque frequentasse, o almeno alludervi. «Soffre di menzionite», aveva commentato Marianne un paio di anni prima, quando era presissimo da una studentessa di letteratura inglese di Somerville che aveva incontrato a un caffè concerto allo Sheldonian. «Acuta. Patetico».

Mentre scendeva le scale con Lorna, Rowan si era ricordata che Seb le aveva parlato di una donna incredibile che aveva incontrato al laboratorio, degli esperimenti che lei stava conducendo per un dottorato sullo sviluppo del linguaggio. Non aveva ancora finito di scrivere la tesi, ma aveva già firmato degli articoli in diverse pubblicazioni prestigiose ed era stata invitata il mese successivo a parlare alla conferenza a Sydney in cui lui era l’oratore di punta. Il Natale precedente, in maniera del tutto casuale, Rowan l’aveva sentito parlare con un collega di un progetto di ricerca innovativo alla UCL. Tutto eccitato, le aveva spiegato che la donna del laboratorio, che si chiamava Lorna, era stata contattata per lavorare proprio in quell’università. Avrebbe cominciato una volta finito il dottorato.

«L’unica cosa che salva papà vista la sua incapacità di tenerselo nei pantaloni», le aveva confidato Marianne il primo pomeriggio in cui avevano parlato delle storie di Seb, «è che non si mette con delle oche giulive. Tutte le sue donne hanno un cervello, se non altro».

«Come fai a saperlo?»

«Faccio le mie ricerche», aveva spiegato l’amica, cercando di sminuire la cosa. «Controllo su Google».

Rowan non aveva mai cercato una donna di Seb prima. Non voleva che le restasse in mente l’immagine delle ragazze con l’uomo che per lei era diventato un surrogato di padre, ma di quella lui aveva parlato in modo diverso. Di solito lo faceva con affetto, con il sorriso sulle labbra, ma quel pomeriggio al pub nella sua voce aveva percepito il rispetto, un’ammirazione che andava oltre l’attrazione fisica. Le era quasi parso che volesse convincerla della superiorità di quella donna, che volesse conquistarsi la sua fiducia. Tornata in università, era andata online. Quel che aveva letto non aveva affatto sopito il campanello d’allarme, ma poi aveva dovuto scrivere un saggio, ripassare e, poco per volta, non aveva più prestato attenzione alla nuova storia di Seb.

Non sapeva se Marianne avesse fatto ricerche su quella donna, non avevano parlato di lei. Forse era stata così presa dai quadri per la mostra con cui si era laureata che non vi aveva badato abbastanza. O forse, dopo così tanti anni di storie di Seb, alla fine si era abituata, aveva represso la rabbia e il disgusto e si era detta che gli sarebbe passata nel giro di un mese o due e che sarebbe andato avanti.

Adesso invece vi avrebbe badato eccome, sarebbe stata costretta a farlo perché, invitando Lorna alla festa, Seb aveva fatto un annuncio. A quanto ne sapeva Rowan, per quanto fosse stata lampante la sua infedeltà, veniva comunque perpetrata in base a certe regole inviolabili, la più importante delle quali era che lui non doveva mai portare a casa le sue donne. Sacrosanto era anche il tacito accordo per cui non doveva mai intenzionalmente fare in modo che Jacqueline incontrasse una di loro in pubblico. Avere delle storie era un conto, umiliarla era un altro. E lui la amava. Regole o non regole, non avrebbe mai voluto causare un danno simile al loro matrimonio.

Arrivate alla porta della cucina, Rowan si era attardata e aveva lasciato che Lorna andasse in giardino da sola. Non voleva avere nulla a che fare con lei; si rifiutava di far vedere che la appoggiava anche solo minimamente.

Se era consapevole di salire i gradini da sola, però, Lorna non l’aveva dato a vedere. Padrona di sé, aveva scrutato il giardino fino a individuare la testa castana di Seb. Nell’istante in cui i suoi occhi si erano posati su di lui, Seb si era voltato, come se avesse avvertito la sua presenza, e Rowan aveva visto il suo viso mutare. Nel giro di un secondo, l’intensa energia ansiosa si era trasformata in un’espressione di pura felicità. Di amore. Irradiava da lui come un raggio, così privato eppure orribilmente e oscenamente pubblico. Avrebbe voluto coprirlo, lanciare una coperta su quella luce prima che tutti la vedessero.

Seb si era scusato con Roger Stevas con un semplice tocco sulla spalla e si era fatto largo tra la folla verso Lorna. Rowan aveva salito a razzo i gradini dietro di lei e aveva aggirato il capannello al tavolo del buffet. Dov’era Jacqueline? L’ultima volta che l’aveva vista, appena prima di entrare in casa, stava parlando con Andrew Farrell, un professore di psicologia del St John’s, con un bicchiere in una mano e un piatto di cibo intatto nell’altra. Sì, eccola ancora con lui – Grazie a Dio, grazie a Dio – girata quasi completamente verso il giardino e la porzione di casa dei Dawson.

Dov’erano Marianne e Adam? Disperata, Rowan aveva scandagliato il prato. Se uno dei due avesse potuto bloccare Seb e intimargli di cacciare Lorna, forse avrebbero potuto ancora salvare la giornata. E il loro matrimonio, aveva aggiunto una vocina.

Oltre due ospiti che non conosceva, Rowan aveva visto Marianne ma, proprio quando aveva fatto per raggiungerla, Vita Singh, una vecchia amica di famiglia, aveva messo una mano sulla spalla di Jacqueline, che si era voltata per salutarla e, nel farlo, il suo sguardo si era posato su Seb e Lorna ai margini della folla.

Di solito, bastavano due sorsi di vino per farla arrossire ma, sotto le guance colorite, Rowan l’aveva vista sbiancare completamente. Jacqueline sapeva chi era Lorna; l’aveva riconosciuta. Si era sempre mostrata del tutto disinteressata alle donne di Seb, sminuendo il loro potere con la forza della sua apparente indifferenza. Se però in passato non si era mai informata su nessuna, era palese che questa volta avesse fatto le sue ricerche. Come se avesse percepito il peso del suo sguardo, Seb si era voltato e l’aveva fissata dritto in faccia. In quello scambio di occhiate, Rowan aveva colto una tacita ammissione. Jacqueline aveva lasciato andare il piatto che era caduto sul prato, facendo schizzare la pasta fredda tutt’intorno alle sue scarpe nuove.

Marianne si era ubriacata. In modo stupido e pericoloso. Adam aveva portato il padre in casa per quella che era parsa un’eternità e, quando era ricomparso, con espressione impassibile, Seb aveva cercato di nuovo Lorna, l’aveva sottratta alla conversazione con il filosofo Ben Milford e l’aveva portata via. Aveva abbandonato la festa per un’ora. Jacqueline era sparita al piano di sopra per una ventina di minuti ed era ridiscesa con il pallore sofferente di chi ha appena subìto un intervento chirurgico. Aveva preso in prestito gli enormi occhiali da sole vintage comprati l’estate precedente da Marianne a Portobello Market e li aveva tenuti sul viso per il resto del pomeriggio.

Non era stato facile capire quanti invitati avessero percepito che era successo qualcosa. A ogni modo, tra loro avevano preso la tacita decisione di fingere che fosse tutto normale, forse per l’impulso inglese di nascondere il marcio sotto al tappeto e andare avanti o, forse, aveva pensato Rowan intenerita, per il bisogno collettivo di rassicurare e sostenere Jacqueline, palesemente scossa. Di certo l’alcol aveva avuto un ruolo importante e la conversazione si era fatta sempre più rumorosa, seguita a ruota, pochi minuti dopo il ritorno della padrona di casa, dalle risate, come se fosse bastato impegnarsi a fondo in quella sceneggiata perché diventasse vera.

Rowan aveva tenuto d’occhio Marianne che, per tutto il pomeriggio, non si era mai staccata dal suo bicchiere. Per due volte l’aveva implorata di rallentare, di bere dell’acqua, ma l’amica aveva alzato gli occhi al cielo e si era allontanata. All’inizio della serata, quando la luce cominciava ad affievolirsi, mentre parlava con Angela Dawson della figlia che aveva appena finito l’università a Durham ed era stata ammessa al programma di formazione manageriale alla BP, Rowan si era resa conto che Marianne era sparita.

Si era scusata ed era corsa in casa, aprendo ogni porta fino a quando l’aveva trovata distesa sul pavimento del bagno all’ultimo piano, con la fronte bianca imperlata di sudore premuta contro le piastrelle fredde. Il bagno era pieno di schizzi di vomito e l’odore di etanolo nella stanza senza finestre faceva quasi girare la testa. Marianne aveva conati a distanza di pochi secondi, tanto forti che tremava tutta, come se dovesse rimettere non soltanto dei liquidi ma qualcosa di grosso, enorme. Era troppo debole per reggersi in piedi e persino per inginocchiarsi, quindi Rowan l’aveva fatta appoggiare alla parete con il secchio per lavare il pavimento tra le gambe.

Dopo alcuni conati molto violenti, si era messa a piangere sommessamente, con le lacrime che le rigavano le guance. Avevano sentito dei passi sulle scale e, alzato lo sguardo, Rowan aveva visto Adam sulla porta. Si era inginocchiato e aveva abbracciato la sorella, che piangeva contro il suo collo. Suo malgrado, Rowan si era sentita invidiosa che Marianne potesse stringerlo senza nemmeno pensarci, che potesse stargli così vicino.

«Lo odio, Ad», aveva detto lei. «Lo odio».

«No, non è vero».

«Sì invece». Era diventata feroce. «Come ha potuto farlo?». I singhiozzi si erano trasformati di nuovo in conati, lei si era staccata dal fratello e aveva vomitato dell’altro vino bianco. Aveva preso un fazzoletto di carta e cercato invano di pulirsi la bocca. «Non sa fare niente senza la mamma. Cazzo, non sa nemmeno lasciarla senza prima avere la sua approvazione di quella puttana. Perché è per questo che l’ha portata qui, no? Non è per questo?».