Capitolo ventinove

Quando si svegliò, l’altro lato del letto era vuoto. Si rizzò a sedere. Dai bordi delle tende filtrava una fioca luce grigia, abbastanza per vedere che i suoi vestiti non erano più sulla sedia. Neanche le scarpe c’erano più. Accarezzò il lenzuolo e, sentendolo ancora tiepido, gettò indietro le coperte e si alzò con tale fretta che sentì girare la testa. Quando le passò, si vestì e uscì sul pianerottolo. All’inizio fu accolta dal silenzio ma poi, come musica, dal rumore di tazze tolte dalla lavastoviglie. Provò un tale sollievo che, quando accese la luce del bagno e vide il proprio riflesso nello specchio, stava sorridendo. Si spazzolò in fretta, tolse il mascara da sotto gli occhi e lavò i denti. La stanza era calda e un po’ umida; si era fatto la doccia.

Quando scese in cucina, il bollitore stava fischiando. «Pensavo te ne fossi andato».

«Sul serio?». Parve sorpreso. «No, non me ne andrei senza salutarti». La raggiunse e le diede un bacio.

«Che ora è?». Lanciò un’occhiata all’orologio del fornello.

«Le sette e mezza. Mi piacerebbe poter restare, non che voglia distrarti», inclinò la testa verso i libri intonsi, «ma ho una lezione alle due e Dio solo sa quanto mi ci vorrà per tornare. Sarei dovuto venire in treno. È una rottura dover andare e tornare da Londra, ma il tragitto in macchina è così noioso, con tutte quelle rotonde del cavolo. Sembra che ci fosse una strada diretta, anni fa».

Riempì la caffettiera e prese il latte dal frigo. Rowan lo osservò con la coda dell’occhio. Nonostante avesse dormito poco e i postumi della lieve sbronza, aveva la stessa eleganza che lei aveva già notato da Gee’s: le mani si muovevano leggere sulle tazze e sui cucchiai, come se, più che fare il caffè, stesse dirigendo l’intero processo. Chissà quale remoto antenato gli aveva trasmesso quel gene; di certo non era stata la madre.

«Devi smetterla di avvelenarmi con tutto quell’alcol», le disse, passandole una tazza.

«Quindi sarei io ad avvelenarti?».

Sorrise. «Lo rifacciamo domani? Ho un incontro in università nel primo pomeriggio, ma potrei tornare la sera».

Il tono incerto alla fine della domanda la sorprese, ma la rese felice. Quello che c’era tra loro era importante per lui; non lo dava per scontato. Si sentì riscaldare, come se si fosse alzato il sole e i suoi raggi entrassero dalla finestra. «Comprerò dell’aspirina», rispose.

Prima di uscire dalla doccia, girò il rubinetto e rimase sotto al getto di acqua fredda fino ad avere la schiena e le spalle intorpidite. Quel giorno, forse come non mai, le serviva una mente lucida.

Il cuscino di Adam aveva ancora la forma della sua testa e, quando scese di nuovo in cucina, il suo sguardo si posò subito sulla sua tazza sul tavolo. Aveva una drammaticità elegiaca, come se ormai appartenesse a un passato che lei non avrebbe mai riavuto. Si riscosse mentalmente, doveva piantarla di fare la sentimentale. Se non avesse fatto casini, lui era il futuro, non il passato.

Sul tavolo c’era anche lo schizzo di Cory, dove Adam l’aveva lasciato la sera prima. Lo prese e si guardò negli occhi. Quando l’aveva chiamata il giorno precedente, Cory aveva detto che sarebbe passato a prenderla alle due e mezza. Premette un tasto sul telefono per controllare l’ora. Le nove.