Capitolo trentuno
La donna in miniatura se ne stava rannicchiata in posizione fetale, con gli avambracci ricoperti di peluria stretti intorno alle ginocchia scheletriche e lo scalpo bianco lucido visibile attraverso i capelli privi di vita. Seduta sotto la finestra, Rowan vedeva anche le tre che la precedevano, ognuna più piccola della precedente, e, per la prima volta, le venne in mente che quelle donne non si stessero ritraendo solo dal mondo, dagli anonimi osservatori che per anni, senza dubbio, avrebbero avuto davanti in gallerie e musei, ma specificamente da lei. Osservò bene l’ultima, raggomitolata su sé stessa, con il viso rivolto verso le assi impietosamente laccate, e all’improvviso quella posizione le parve difensiva, timorosa. Pavida. Perché?, gemeva la bocca devastata a forma di O. Perché, Rowan?
All’epoca, aveva aspettato Marianne a Vicarage Road tutto il giorno, ascoltando il ticchettio ficcanaso del pacchiano orologio da carrozza del padre e i notiziari su Fox FM. Aveva anche guardato il telegiornale locale, pur non avendone bisogno per sapere che cosa era successo. La sera prima, appena dopo le undici, nella buia macchia oltre gli orti, aveva sentito anche lei l’esplosione. Pochi minuti dopo, mentre rientrava in casa, da Abingdon Road era giunto il rumore di sirene spiegate, seguito dal monotono rombo di un elicottero in volo. Dalla finestre della camera del padre, aveva visto i fari puntati su Donnington Bridge.
Rowan si era aspettata che venisse prima, invece Marianne si era presentata alle cinque. Aveva bussato alla porta come se fosse fuori di testa, battendo con i pugni e aggrappandosi al campanello. Nei pochi secondi che Rowan ci aveva messo ad arrivare, Marianne aveva iniziato a urlare il suo nome. Le aveva aperto la porta e l’aveva trascinata dentro il più in fretta possibile. «Per l’amor del cielo, ma sei matta? Che cosa stai facendo?».
Notando l’espressione di Marianne però, le parole le si erano bloccate in bocca. Non l’aveva mai vista così prima, nemmeno quando aveva avuto una brutta influenza all’ultimo anno del liceo o il pomeriggio della festa per Seb. Era febbricitante, con gli occhi sgranati. Bianca.
«Che cosa hai fatto, Rowan?», aveva chiesto. «Che cosa hai fatto?». Tremava. Era tutta scossa.
«Mazz, siediti. Ti farai venire un infarto».
«Toglimi le mani di dosso!».
Sul vetro modellato alle sue spalle era comparsa un’ombra tremolante: qualcuno sul marciapiede, a pochi metri di distanza. Doveva averla vista bussare come una forsennata… ma che cosa aveva sentito?
«Dimmi che non sei stata tu, Rowan. Ti prego», l’aveva implorata. «Dimmi che è stato un incidente, che è stata solo una strana coincidenza. Dimmi che non sei stata tu».
Rowan l’aveva fissata, confusa. Glielo stava chiedendo davvero. «Non capisco», aveva risposto piano.
«Dimmi», aveva alzato la voce, «che non sei andata su quella barca e…».
«Zitta! I vicini». Si era guardata a destra e a sinistra, come se fossero in ascolto. «Pensavo fosse quello che volevi».
Marianne aveva spalancato gli occhi ed era indietreggiata, fino ad avere la schiena contro la parete. «No». Scuoteva la testa. «No».
«Sì, invece. Ero con te. Ci siamo andate insieme, ricordi? Mi hai fatto venire con te». Aveva riabbassato la voce. «La bombola del gas, il fornello. Il tuo disegno. Io…».
«Era una fantasia, Rowan. Un modo per… per esprimere la rabbia, per scaricarla. Una valvola di sfogo, non un… un piano».
«Certo che era un piano. E pure buono: ha funzionato. È ancora presto, s’intende, non siamo ancora fuori pericolo, ma a quanto hanno detto alla radio sembra che si pensi che sia stato un incidente, proprio come avevi immaginato tu».
Marianne la fissava, incredula.
«Mazz, senti: non ho fatto altro che accendere il gas e il fornello. Uno solo. È stato così semplice… ecco perché ha funzionato. Lei è rientrata, ha acceso la luce… L’ho fatto al posto tuo perché era meglio così, più sicuro: io non ho un movente. Chi sospetterebbe di me? È perfetto».
Marianne si era messa a piangere e Rowan aveva sentito crescere l’impazienza. «Su, lo so che al momento stai male, ma passerà. Lorna non c’è più e tutto sarà più facile. Tuo padre si riprenderà e si dimenticherà di lei come fa sempre e tutto tornerà a posto. Lui e tua madre saranno felici e…».
«Tu sei pazza».
«Che cosa?»
«Sei impazzita», aveva detto Marianne. «Hai perso la testa».
«Oh, ma piantala. Torna in te». Aveva parlato in tono severo e risoluto, calmo davanti all’inaspettata incapacità di Marianne di affrontare la situazione. Rowan era convinta che fosse più forte di così. «Non puoi far finta di non avere niente a che fare con tutto questo».
«Ma è così. Io non c’entro», aveva singhiozzato.
Per la prima volta in vita sua, Rowan aveva provato disprezzo. Disprezzo per Marianne. Nonostante il momento, era stato uno shock. «Non fare la codarda», le aveva detto. «Quella donna avrebbe distrutto la tua famiglia quindi tu hai organizzato un piano per sbarazzarti di lei e ha funzionato. Dovresti essere contenta».
Quando Mazz aveva parlato, la sua voce era diversa. Il panico e l’incredulità avevano lasciato spazio alla paura. Ridicolo. «Sei un mostro», aveva detto.
«L’ho fatto solo per te».
Marianne aveva scosso la testa. «Questa storia non ha niente a che fare con me. Niente. Dipende tutto da te. Che cosa faresti senza la mia famiglia, Rowan? Senza mia madre e mio padre che ti assecondano, che ritagliano articoli dai giornali per te, che ti portano fuori, che ti danno da mangiare? È per questo che sei rimasta a Oxford per l’università? Perché non mi viene in mente nessun altro motivo. Non c’era nient’altro a tenerti qui».
Quelle parole l’avevano ferita. «Io voglio bene a loro».
«No, invece, non ne sei capace», aveva ribattuto Marianne. «Tu sei… guasta. Fuori di testa. Sei un’assassina, Rowan». Aveva alzato di nuovo la voce. «Lo capisci almeno quello che hai fatto? Hai ucciso una persona. L’hai uccisa».
«Tieni bassa la voce, cazzo», aveva sibilato. Aveva fatto un respiro profondo, cercando di riflettere. Se volevano che funzionasse, una di loro doveva mantenere la mente lucida.
«Pensi che la mia famiglia vorrebbe avere a che fare con te se sapesse quello che hai fatto? Eh? Eh?».
Rowan aveva sentito il primo spiffero di aria fredda, la folata prima che la porta si chiudesse. D’un tratto, si era resa conto che c’era un altro modo per cui poteva andare tutto storto.
«Quello che dovresti chiederti, Mazz», aveva detto, cauta, «è come la vedrebbe la polizia. O una giuria, se è per questo. A parte te, qualcuno penserà davvero che io avessi un motivo per togliere di mezzo Lorna? Ne dubito. Tu, invece… Vedere la fine del matrimonio dei tuoi, tua madre a pezzi… E poi il disegno è palesemente tuo. Nessun altro sa disegnare così. Nessuno ne sarebbe in grado».
Marianne pareva sul punto di vomitare. «Dov’è? Il disegno, dov’è?»
«L’ho preso io. Lo conserverò fino a quando sarò certa che terrai la bocca chiusa. Lo terrò al sicuro».
Solo che alla fine, dieci anni dopo, non l’aveva fatto. Tra tutti gli stupidi errori che poteva commettere. Se fosse andato tutto a rotoli ora, la colpa sarebbe stata soltanto sua.
E se Adam non fosse stato al volante quando Cory l’aveva chiamato il giorno prima? E se Cory gli avesse parlato del disegno, del piano di Marianne per la morte di Lorna? Avrebbe cambiato per sempre la sua opinione della sorella, sconvolto il suo mondo.
E se Cory gli avesse rivelato dell’altro? Avvertì il cuore fare uno strano doppio battito, come due pugni contro la cassa toracica. La bugia di Cory sulla telefonata le aveva dato la conferma: stava ancora scavando. Per quanto compromettente e dannosa potesse essere per lei la sua storia, lui non ci aveva creduto. Aveva comunque pensato che ci fosse dell’altro. Chissà quanto aveva scoperto.
Aveva fatto bene a fare quel che aveva fatto; la prova era arrivata quasi subito. Prima di spingere il corpo lontano dalla riva, gli aveva frugato nelle tasche. Il telefono era bloccato e ovviamente lei non conosceva il codice ma, mentre l’aveva in mano, l’aveva sentito vibrare come un topo spaventato. Sullo schermo era comparso un messaggio:
J Spelman:
Ehi Mickey. Non vedo l’ora che arrivi martedì. Solito posto? Cmq, ho chiesto informazioni sulla tua amica Rowan ma Jon P non la conosce. Sicuro che sia alla Queen Mary? Magari un’altra uni? xJ
Quando spense le luci dello studio, per un attimo Rowan ebbe l’impressione di essere madre; Marianne era la figlia che stava lasciando raggomitolata a letto. Buonanotte, dormi bene.
Niente più errori. Ora dipendeva tutto dalla meticolosa attenzione ai dettagli. Quando aveva raccolto la pietra, aveva sentito il proprio cervello ingranare la marcia. Le era tornato in mente quel che diceva Marianne su quando capiva di lavorare al meglio, su come il mondo paresse più luminoso; ogni cosa era rilevante. Era come se i suoi sensi si fossero acuiti. Aveva avuto la tentazione di portare via con sé il telefono, di distruggerlo, ma no, aveva subito calcolato che sarebbe stato sospetto se fosse stato ritrovato altrove. L’acqua l’avrebbe danneggiato facendole guadagnare tempo ma, con o senza di quello, la polizia sarebbe risalita ai dati di Cory. L’aveva gettato nel fiume. La pietra era molto più pesante, aveva volato per appena tre metri, ma aveva lanciato in acqua anche quella.
Nell’avanzare a fatica tra la vegetazione bassa lungo la riva ai margini del parco, al di sotto della visuale per chiunque potesse portare fuori il cane o guardare dalla finestra di casa verso i campi, si era sentita come una volpe, con gli occhi attenti, le orecchie tese e il naso consapevole di qualsiasi nuovo odore nell’aria.
Era sbucata in Bedford Street e aveva risalito Iffley Road verso la città. Aveva dovuto camminare per diversi chilometri fino a casa, ma era più sicuro che prendere un taxi con un autista che avrebbe potuto ricordarsi di lei o un autobus con le telecamere di sicurezza e un biglietto timbrato. Aveva dovuto lasciare dov’era la macchina di Cory. Una Mercedes abbandonata in un parcheggio vuoto avrebbe attirato l’attenzione, ma era comunque preferibile al rischio di farsi vedere mentre la guidava. E poi, dove avrebbe dovuto portarla? In più, se la sua morte doveva sembrare un incidente, era meglio che le chiavi le avesse in tasca lui. Al ritrovamento del corpo, la polizia si sarebbe rivolta a qualcuno che conosceva il fiume per capire dove fosse più probabile che fosse finito in acqua e la posizione dell’auto l’avrebbe confermato. Ogni cosa doveva combaciare.
In cucina, la lavatrice andava ancora con i suoi jeans, la maglietta e le calze. Le scarpe da ginnastica, sul calorifero ad asciugare, emanavano un odore di acqua di stagno e gomma calda. Erano scure, quindi il fatto che fossero bagnate non aveva attirato l’attenzione mentre rientrava ma, quando le aveva tolte, aveva i piedi umidicci e bianchissimi, sbucciati sul calcagno. Mentre camminava, non aveva sentito nulla.
Nel girarle, sentì vibrare il telefono per un messaggio di Adam: “Quanto vorrei teletrasportarmi a Oxford stasera. Domani…”. Ora, il familiare sfarfallio fu mitigato dalla nuova consapevolezza di quanto avesse da perdere.
Si preparò una tazza di tè e, in attesa del bollitore, si attardò alla finestra per far piacere a Martin, poi salì nello studio di Seb. Dopo che Cory se n’era andato il giorno dell’effrazione, lei aveva risigillato con cura il disegno di Marianne e aveva portato la scatola in quella stanza. Non poteva rischiare di rimetterla nell’armadio dove lui sarebbe andato dritto a cercarla di nuovo, mentre lì nello studio, insieme a una pila di altre scatole e risme di fogli per la stampante accanto alla scrivania, sarebbe stata nascosta in bella vista. Avrebbe dovuto tenerla lì fin dall’inizio. La prese e la appoggiò sul piano. Tirò fuori il disegno e il biglietto di Marianne e li portò in bagno.
Lasciò cadere il biglietto nel lavabo e recuperò i fiammiferi dalla tasca. La scrittura di Marianne pulsava come il tracciato cardiaco su un monitor. “Devo parlarti”. Rowan provò una vampata di rabbia. Era tutta colpa sua. Se non avesse sentito il bisogno di parlare, di sfogarsi con Cory e scavare in un passato che avevano lasciato in pace per dieci anni, nulla di quanto era accaduto sarebbe stato necessario. Era stata Marianne a costringerla a fare quello che aveva fatto quel giorno; non le aveva lasciato scelta. In preda alla furia, ricordò anche che anni prima le aveva impedito di uscire con Adam. Be’, non questa volta, non due volte. Aprì la scatola dei fiammiferi, ne accese uno e lo osservò bruciare nello specchio. Quando la fiamma le raggiunse quasi le dita, lo lasciò cadere sul biglietto. Le parole di Marianne vennero inghiottite da un cerchio nero, avvolte dalle fiamme, che si spensero nel giro di pochi secondi. Rowan aprì il rubinetto e lavò via la cenere.
Prese il disegno e lo mise nel lavabo. Si fermò a guardarlo un’ultima volta. Migliaia di persone, anzi, probabilmente centinaia di migliaia, avrebbero ammirato i quadri e i disegni di Marianne negli anni a venire, ma solo lei e Michael Cory avrebbero mai visto quello: la chiatta, le fiamme che spuntavano dai vetri in frantumi, la finestra a prua con il minuscolo viso agonizzante.
Lo scricchiolio quando la pietra aveva colpito il cranio… Mentre gli frugava nelle tasche, Rowan era stata colpita dall’enormità della cosa. Due minuti prima Cory era vivo, stava parlando con lei, le stava mentendo, e un attimo dopo era morto, a faccia in giù nell’acqua gelida. L’altra volta era stato più facile, meno personale: non c’era stato contatto fisico, non aveva nemmeno dovuto vedere Lorna, solo controllare che le finestre fossero chiuse e accendere il gas. E questa volta aveva dovuto fare tutto da sola; qualunque cosa avesse sostenuto poi Marianne, l’altra volta l’avevano fatto insieme.
Alzando lo sguardo, vide il proprio riflesso nello specchio e provò un fortissimo desiderio. Sono io che devo parlarti, Mazz, pensò. Nonostante tutto – Cory, questo casino – vorrei davvero poterti parlare.
Nel corso degli anni le era mancata molto; ogni volta che era successo qualcosa – quando incontrava qualcuno o aveva una promozione, quando aveva dovuto lasciare la BBC – avrebbe voluto raccontarlo a Marianne. Si era accontentata di parlarle nella mente, immaginando che cosa avrebbe detto lei. E, una volta l’anno a Natale, quando le spediva un biglietto, aveva sempre sperato che finalmente quella sarebbe stata la volta in cui ne avrebbe ricevuto uno lei.
Si era sforzata di mantenere aperte le linee di comunicazione. Nonostante lo stato di Marianne quel pomeriggio in Vicarage Road, alla fine era riuscita a farla ragionare. «Che cosa penserà la gente?», le aveva chiesto. «Che cosa sembrerà se, d’un tratto, dopo tutti questi anni, io e te non siamo più amiche proprio dal giorno in cui è morta la ragazza di tuo padre? Pensaci, Marianne, cerca di essere logica. La polizia scoprirà che avevano una relazione, è impossibile che rimanga segreta. Deve sembrare tutto il più normale e tranquillo possibile».
Era stata a sentirla, se non altro, ma il fardello di metterlo in pratica era ricaduto quasi interamente su Rowan. Nelle due orrende settimane successive, quando i poliziotti volteggiavano in Fyfield Road come avvoltoi, Marianne si era rinchiusa nella sua stanza e aveva lasciato Rowan a salvare le apparenze, bevendo il tè e chiacchierando con Jacqueline sotto shock in cucina o guardando film in bianco e nero al piano di sopra con Seb che si scolava una bottiglia dietro l’altra. La reazione di Jacqueline l’aveva sorpresa; avrebbe dovuto essere sollevata, sarebbe stato il minimo.
All’inizio, Rowan aveva provato compassione per Seb. Dopotutto, lui era stato innamorato di Lorna; gli ci sarebbe voluto un po’ per accettare il fatto che lei non ci fosse più. Ma, con il passare dei giorni, invece di stare meglio, lui era stato sempre peggio. Nelle prime due settimane, era stata a casa loro cinque volte e, anche se Jacqueline ci aveva provato, spostando di nascosto la bottiglia o mettendo il suo bicchiere in lavastoviglie, lui aveva evitato di bere solo durante le visite della polizia.
E poi, un mese dopo la morte di Lorna, Rowan l’aveva incontrato per caso in città. Era un sabato pomeriggio, ricordava, e aveva mandato un messaggio a Marianne per sapere se potesse andare da lei ma, non avendo ricevuto risposta, aveva deciso di fare un giro da Waterstones. Aveva bisogno di uscire di casa: c’erano delle visite in programma. Suo padre aveva fatto una sceneggiata dicendo che non avrebbe venduto la casa in Vicarage Road fino a quando lei non si fosse laureata – la sua “casa base” a Oxford, era riuscito a dire con espressione seria – ma, quindici giorni esatti dopo il suo ultimo esame, l’aveva chiamata per dirle che l’avrebbe messa sul mercato.
Comprati dei libri, Rowan stava pensando di fare comunque un salto in Fyfield Road quando aveva visto Seb svoltare l’angolo di St Michael’s Street. Era in grado di sembrare sobrio anche quando chiunque altro non sarebbe più riuscito a reggersi sulle proprie gambe, ma lei si accorse subito che era ubriaco fradicio. Ondeggiava sul marciapiede, sbandando a destra e a sinistra in modo esagerato per evitare i passanti che venivano in direzione opposta. A mano a mano che le si era avvicinato, aveva sentito che parlava da solo, non con parole distinguibili ma in una specie di mormorio cadenzato zeppo di pause enfatiche. Aveva i capelli sporchi e un lato della camicia di jeans bagnato. Quando le era arrivato davanti, aveva subito sentito la puzza di alcol.
«Seb». Aveva allungato una mano e gli aveva sfiorato un braccio.
Gli ci era voluto un momento per riconoscerla ma poi le aveva gettato le braccia al collo. «Rowan!». Con la scusa dell’abbraccio, aveva poggiato tutto il suo peso su di lei, che aveva vacillato per lo sforzo di sostenerlo. «Sono appena stato al pub. Vieni a bere qualcosa con me». Si era voltato per guardarsi intorno. «Da questa parte. Al Three Goats’ Heads. È proprio dietro l’angolo».
«Perché non ti lasci accompagnare a casa?», aveva ribattuto lei. «Sembri un po’…».
«No, no, no, non ci provare anche tu. Voglio solo un po’ di compagnia. Tutto qui. Un po’ di compagnia e qualcosa da bere. È chiedere troppo?». L’aveva afferrata per un braccio e aveva iniziato a trascinarla verso il pub. Mentre rifletteva, lei l’aveva seguito. Che cosa doveva fare? Chiamare un taxi e portarlo a casa? O chiamare a casa e avvisare Jacqueline? Chiamare Marianne sul cellulare sarebbe stato inutile; non avrebbe risposto.
Tuttavia, arrivati davanti al pub, un omone che stava sul marciapiede a fumarsi una sigaretta li aveva visti e aveva scosso la testa. «Mi dispiace», si era rivolto a lei, «gliel’ho già detto: non può entrare. È ubriaco fradicio, giusto? Non possiamo dare da bere a chi è in quello stato».
«Fascista», aveva mormorato Seb.
«Cos’hai detto, amico?». Il barista aveva fatto un lungo tiro alla sigaretta e l’aveva guardato con espressione impassibile.
«Sei un fascista. Come fai ad avere il potere di decidere se…».
Alle sue spalle, Rowan si era scusata senza farsi sentire da lui. «Ti porto a casa, Seb. Andiamo, prendiamo un taxi».
Ma, con un improvviso impeto di energia, lui aveva ritratto il braccio. «No. Non voglio andare a casa. Voglio Lorna. Voglio Lorna». Come un bambino imbronciato che piangeva perché voleva la mamma, era scoppiato in lacrime. Sbigottita, Rowan l’aveva visto incespicare all’indietro verso Cornmarket. Tra i singhiozzi ben udibili, era caduto contro il muro di Austin Reed ed era scivolato sul marciapiede.
Anche il barista aveva assistito alla scena. «Ti serve una mano?», le aveva chiesto. «Posso chiamarti un taxi e aiutarti a farlo salire».
«Grazie», aveva risposto, «ma non si preoccupi. Ci penso io».
Aveva aspettato che l’uomo riscendesse nel pub, poi era andata da Seb, che si era messo seduto con le gambe allungate davanti a sé come una bambola di pezza, e si era accovacciata. «Forza, Seb», aveva detto. «Datti un po’ di contegno. Per Jacqueline. Per Adam e Mazz».
Lui l’aveva guardata, con gli occhi annebbiati. «Non ce la faccio», aveva risposto. «Non ce la faccio».
«Patetico», aveva commentato Rowan e, a giudicare dall’occhiata che le aveva rivolto, Seb era d’accordo con lei. L’aveva lasciato dov’era.
Quando poi lui aveva avuto l’incidente, Marianne aveva dato la colpa a lei. Non l’aveva mai detto in modo esplicito – ormai non parlava a Rowan da un mese se non per dirle di togliersi di torno ogni volta che si presentava in Fyfield Road per appianare le cose – ma non ce n’era stato bisogno. Il pomeriggio in cui Rowan era andata a casa loro e aveva trovato l’auto della polizia nel vialetto e la porta aperta, l’aveva percepito nell’aria prima ancora di vedere il viso di Marianne. Non è stata colpa mia, avrebbe voluto dirle, non sono stata io a farlo bere, non sono stata io a farlo salire in macchina, era un debole, non si meritava tutto questo, tutti voi, se l’è andata a cercare. Ma sapeva che sarebbe stato inutile. Ormai Marianne aveva smesso di starla a sentire. Ci aveva provato un’ultima volta, il giorno in cui Mazz aveva costretto Turk a scegliere tra loro due, quando si era allontanata da Rowan come se fosse un mostro, ed era finita così, dopodiché non si erano più viste.
La nostalgia e il doloroso desiderio di riaverla erano spariti adesso, nuovamente sostituiti dalla frustrazione e dalla rabbia: era stato tutto così inutile, un tale spreco. Con attenzione, Rowan allungò una mano nel lavabo e prese il disegno per i bordi. Era bagnato in alcuni punti e l’acqua aveva sbavato le fiamme arancioni e gialle qua e là, ma distruggerlo sarebbe stato un errore. Se l’incubo si fosse avverato e tutta la storia che Cory aveva ricostruito da Marianne fino a Lorna fosse saltata fuori, ne avrebbe avuto bisogno. Qualsiasi cosa avesse detto Mazz, uccidere l’amante del padre era stata una sua idea; quella ne era la prova.
Prese l’ultimo sonnifero di Marianne ma, come temeva, rimase a letto sveglia a lungo. Riusciva quasi a sentirla, la deriva ipnotica della pillola che combatteva contro la frenetica attività della sua mente. In movimento e vestita, impegnata a fare il possibile per rendere tutto a prova di bomba, era riuscita a tenere sotto controllo l’ansia ma, sdraiata al buio, pensò a tutte le cose che non poteva influenzare, ognuna delle quali poteva rivelarsi la pista che avrebbe portato la polizia alla sua porta. Al fiume, con tutto quello a cui aveva dovuto pensare, era riuscita a contenere la preoccupazione per il messaggio di J Spelman, ma adesso il solo pensiero le metteva una paura folle. Non aveva potuto cercare chi fosse – se i poliziotti avessero sospettato di lei, di certo le avrebbero preso il computer – ma si era ricordata dell’amica americana all’Imperial menzionata da Cory. Che fosse lei J Spelman e, in quel caso, che altro le aveva rivelato Cory? Quando la polizia avrebbe controllato i tabulati, il messaggio li avrebbe di certo incuriositi.
Ma J Spelman era solo una persona: con chi altro poteva aver parlato? Con rinnovata preoccupazione, Rowan ripensò alle ricerche che Cory aveva fatto in biblioteca, della donna che gli aveva mostrato come usare le microfiches. Si sarebbe ricordata di lui, l’americano sofisticato, con tutte le ore che aveva passato là dentro. E se avesse preso appunti? Perquisendo la sua stanza all’Old Parsonage, magari la polizia avrebbe trovato un taccuino con le sue idee e i sospetti. Con sé non l’aveva; quando gli aveva frugato nelle tasche, aveva trovato solo il telefono, il portafoglio e le chiavi della macchina.
Con gli occhi ben aperti al buio, ripensò allo schizzo che aveva fatto dei suoi libri. Quello non glielo aveva dato e non era nemmeno in casa; mentre lei si preparava per andare in Benson Place, lui doveva averlo piegato e messo in tasca. Dov’era? Aveva forse nutrito dei sospetti sui suoi studi? Forse per quello aveva chiesto di lei a J Spelman? Non era del tutto una bugia, il dottorato: aveva fatto domanda, persino alla Queen Mary. Comunque, non doveva preoccuparsi per quello: se e quando Jacqueline o Adam l’avessero scoperto, avrebbe detto la verità, e cioè che si era sentita troppo in imbarazzo ad ammettere che era in cerca di lavoro.
Così tante piccole piste, ma ce n’erano anche di più grandi. Era credibile che Cory si fosse procurato quella ferita alla testa scivolando e cadendo? Era poco probabile che i sommozzatori ritrovassero la pietra, ma d’altra parte lei non sapeva com’era il letto del fiume in quel punto. Se fosse stato fangoso, un’unica grossa pietra dai bordi frastagliati sarebbe subito saltata all’occhio. Forse avrebbe dovuto lasciarla sulla riva; gettandola in acqua, probabilmente l’aveva fatta sembrare inutilmente sospetta.
L’incidente di Lorna era stato curato, riservato, questo invece era disordinato, incasinato. Rowan allontanò l’idea che, con Marianne, aveva lavorato meglio; che, senza di lei, proprio come Seb senza Jacqueline, non era altrettanto brava. E l’altra volta i poliziotti non si erano arresi facilmente, avevano avuto dei sospetti. Come aveva detto Turk nella sua cucina, non erano degli idioti.
Per giunta, pensò, con il lenzuolo stretto intorno al petto mentre si rigirava nel letto, l’interrogativo su come e perché fosse morta Marianne era ancora senza risposta. Con la morte di Cory, l’urgenza era svanita, ma senza di lui le sue probabilità di scoprire che cosa fosse accaduto rasentavano lo zero. Non aveva più idee. Con la compagnia del ticchettio della sveglia accanto al letto, si concentrò sull’idea che Mazz si fosse buttata perché, avendoci ripensato sul parlare di Lorna a Cory, si era resa conto di avergli rivelato troppo per poter fare marcia indietro. Tuttavia, per quanto avrebbe voluto che fosse vero, Rowan sapeva che era una flebile speranza a cui aggrapparsi. Di tanto in tanto, mentre si rigirava sotto le coperte, fu costretta a zittire la vocina che le sussurrava all’orecchio che, tra tutto quello che le aveva detto Cory, non c’era nulla che le desse ragione di crederlo.