Capitolo ventiquattro

La telefonata non l’aveva sorpresa. Si aspettava che Greenwood la chiamasse fin da quando Bryony era rincasata il giorno precedente, se non prima ancora, e la sera, mentre cercava di leggere, era pronta a veder comparire da un momento all’altro il suo nome sul telefono. Tuttavia, quando alla fine l’aveva chiamata quella mattina, non aveva parlato della visita al St Helena’s e le aveva chiesto invece se potesse passare a vedere i nuovi quadri.

«Scusi ancora per lo scarso preavviso», le disse quando gli aprì la porta. «Come le ho spiegato al telefono, pensavo di dover andare a Birmingham questa mattina per visitare uno studio, ma l’artista ha avuto un’emergenza di famiglia e mi ha chiamato per rimandare».

«Non c’è problema. Sul serio».

«Mi è sembrato un segno che dovessi smetterla di tergiversare e togliermi il pensiero».

Nonostante le sue capacità relazionali e la familiarità con la casa, Greenwood pareva a disagio. Rowan si aspettava che si sedesse sul divano di Jacqueline o al tavolo mentre lei preparava il caffè, invece l’uomo gironzolò per la cucina, andò alla finestra e guardò in giardino, per poi voltarsi in tutta fretta come se si fosse appena ricordato di quel che era successo laggiù. Era arrivato con un portfolio in pelle bordeaux che stringeva tra le mani, come se fosse quello a tenerlo ancorato alla realtà. Rowan ripensò alla sicurezza di Cory la prima volta che era venuto da lei, al fare indifferente con cui aveva preso in mano il suo libro e appeso la giacca sullo schienale della sedia.

«Riesce a lavorare un po’?», s’informò Greenwood con un’occhiata al suo portatile, ma non proseguì con le solite domande sulla tesi o su quando pensava di finirla. Per risparmiare a entrambi l’imbarazzo della conversazione, lei si tenne occupata riempiendo una lattiera e la zuccheriera che i Glass non avevano mai usato. Era possibile che Bryony non gli avesse raccontato che era andata a trovarla a scuola e che il tempismo di quella visita fosse soltanto una coincidenza? Si voltò per controllare che cosa stesse facendo l’uomo e, sorpresa, lo trovò a fissarla. Nell’istante in cui fu colto con la guardia abbassata, prima di ricomporsi, in viso aveva un’espressione dura. Rowan si voltò, a disagio.

Finalmente il bollitore fischiò. Senza lasciare il caffè in infusione il tempo necessario, schiacciò il filtro e gli versò una tazza. Di nuovo assente, Greenwood si riscosse soltanto quando gliela allungò, sollevando a malapena gli angoli della bocca in un sorriso. «Grazie. Le dispiace se salgo subito?»

«No, certo che no». Prego.

Aveva detto di dover rivedere i quadri per scrivere il testo per il catalogo, ma Rowan si chiese quanto li conoscesse già. Li aveva osservati a mano a mano che prendevano forma e ne aveva discusso con Marianne, oppure lei aveva aspettato e glieli aveva mostrati solo una volta finiti? Quando si trattava di lavoro, lui era il suo compagno o il suo gallerista? Rowan pensò alle distinte di pagamento trovate tra le scartoffie dell’amica, alle cifre a cinque zeri.

Sembra che lui abbia dovuto concederle un rene su un vassoio d’argento. Si guardò intorno in cerca del portfolio di pelle e constatò che Greenwood l’aveva portato di sopra con sé. Chissà se era al verde dopo il divorzio. Considerando le commissioni elevate della galleria, era poco probabile, ma d’altra parte anche i costi di gestione del locale a Mayfair dovevano essere elevati, e poi chi poteva sapere come fosse davvero la vita della gente. Forse Sophie Lawrence gli estorceva degli alimenti punitivi; forse lui pagava l’ospizio ai genitori anziani; forse aveva debiti ingenti, un problema con il gioco d’azzardo. Chissà chi avrebbe tratto vantaggio sul piano finanziario dalla morte di Marianne, si chiese di nuovo. Ormai si doveva sapere; il testamento doveva già essere stato aperto.

Aspettò mezz’ora e poi salì, facendo silenziosamente l’ultima rampa di scale, per sicurezza. Quando però arrivò nello studio, Greenwood era seduto sulla vecchia sedia all’ingresso dello spazio di Adam, circondato dai quadri su tre lati. Sulle ginocchia teneva il portfolio aperto, con un blocco di fogli gialli con il margine infilato nei bordi in pelle. Tra le dita aveva una penna a sfera, inutilizzata. Non si era accorto di lei e, a mano a mano che si avvicinava, Rowan notò che aveva le guance bagnate.

«James?».

Lui si voltò di scatto, con gli occhi sgranati.

«Mi dispiace, non volevo spaventarla».

«No, no, non mi ha spaventato». Si portò le mani al viso, come a dire “Oddio, mi guardi”, poi si asciugò le guance con le dita. «Sapevo che sarebbe stata dura, per questo continuavo a rimandare, però…». Scosse la testa. «Queste ragazze, sempre più magre… È come guardarla scomparire davanti a me». Aggrottò la fronte e, tra le sopracciglia, gli si formò una ruga. Rowan rivide Bryony, con lo stesso segno frutto della genetica.

«Sa che Michael Cory è stato qui?», gli chiese.

Lui la fissò. «Sì».

Rowan si girò verso la tela alla sua destra, con l’ultima donna, la più scavata. «Ha detto che secondo lui i quadri erano un autoritratto».

«Che cosa?»

«Non presi singolarmente, è ovvio. Nell’insieme, come un tutt’uno».

«Gliel’aveva detto Marianne?».

Rowan scosse la testa. «No, ha detto di no».

«Be’, non so da dove gli sia venuta quell’idea», Greenwood richiuse il portfolio con uno scatto e tirò su la cerniera, «ma è decisamente fuori strada. Sono una dichiarazione contro la pressione subita dalle giovani donne perché si conformino a un’immagine del corpo generalmente approvata, perché siano abbastanza. Qui dentro c’è il lavoro di sua madre, che ovviamente ha avuto un’enorme influenza su di lei; ma ci sono anche Susie Orbach e Naomi Wolf». Si alzò, si infilò il portfolio sotto al braccio e sollevò la sedia.

«Secondo lei quanto ha disegnato da sola…».

«Sono anche ritratti delle singole ragazze, come dovrebbe essere ovvio». Persino per lei. La fissò, con lo sguardo di nuovo indurito e la sedia tra loro come una barriera o, pensò Rowan d’un tratto, una potenziale arma. «Marianne ha passato mesi e mesi in clinica, a conoscere le ragazze e parlare con loro della malattia. Prima di poter anche solo affrontare l’argomento di ritrarle, si è dovuta conquistare la loro fiducia. Si vedevano così brutte, così… indegne. È stato un grosso traguardo e insinuare qualsiasi altra cosa è davvero scortese. Scortese e offensivo».

«Mi dispiace, non intendevo…».

«E che cosa intendeva allora?». Rimise la sedia nell’angolo e si voltò. «Ha idea di quanti danni possa fare andandosene in giro a raccontare ai quattro venti una simile idiozia? Che cosa sta cercando di fare? Di trasformarla in Sylvia Plath? Di lasciare che il suo talento venga eclissato da enormi cazzate», lo disse con sdegno, «sulla tragica povera donna afflitta da una malattia mentale solo perché era caduta in depressione dopo la morte del padre?»

«No, certo che no. Le ripeto, mi dispiace, non…».

«Pensa che sia questo che vuole la sua famiglia? Jacqueline? Adam?»

«Sono sicura di no».

«Be’, allora forse dovrebbe tenere chiusa la sua bocca del… cavolo».

Lo seguì giù per le scale, con il sangue che le pulsava nelle orecchie. Gli aveva sentito tremare la voce, come se fosse a malapena riuscito a non scoperchiare una tinozza gorgogliante di rabbia. Ed era ancora peggio considerando il contrasto con la sua abituale gentilezza, con i suoi modi sofisticati e cortesi, come se un elegante sipario fosse stato scostato per rivelare qualcosa di malevolo. Avrebbe voluto imprecare contro di lei, dirgliene quattro, Rowan ne era certa; ancora adesso, mentre scendevano in silenzio, l’aria vibrava per la forza di quello che si era tenuto dentro.

Giunti alla porta, Greenwood fece un respiro profondo e si voltò verso di lei. «Mi dispiace», disse. «Mi scusi. È stato… fuori luogo. Temo che lei abbia pagato le spese della mia ansia. Anche se non c’è più, è ancora compito mio proteggere Marianne e la sua reputazione. Non posso lasciare che diventi una tragica nota a piè di pagina. Non lo permetterò».

«Non avrei dovuto dire quelle cose».

«No, sono contento che l’abbia fatto. Dovevo saperlo. Dovrò parlare con Michael prima che diffonda ulteriormente quell’idea. Detta da lui, verrebbe subito presa per oro colato».

«Be’, se le sono stata d’aiuto, seppur per vie traverse, allora sono contenta anch’io».

Lui le fece un cenno del capo, come a dire “Bene, lasciamo le cose come stanno”. Abbassò lo sguardo, controllò la cerniera del portfolio e afferrò la maniglia della porta. Proprio quando Rowan si era concessa di abbassare le spalle di mezzo centimetro, però, lui si voltò di nuovo.

«Bryony ha detto che è andata a cercarla a scuola ieri».

Cazzo.

«Non lo faccia più, per favore».

La rabbia di Greenwood aveva guastato l’aria in casa e, con gioia, Rowan si richiuse la porta alle spalle. Il sollievo fu breve però e, mentre attraversava la strada diretta alla macchina, l’agitazione tornò a farsi sentire. Con i sensi acuiti, avvertì un formicolio alla nuca, come se qualcuno la stesse osservando. Si voltò per controllare, ma ovviamente non c’era nessuno.

Avviò il motore senza una destinazione precisa in mente, con il semplice desiderio di mettere della distanza tra sé e la casa, ma si ritrovò diretta verso il centro, oltre il Randolph Hotel e il Worcester College. In fondo a Hythe Bridge Street, con sua sorpresa, svoltò in automatico a sinistra.

Da anni, se doveva venire a Oxford, evitava quella parte della città. Lì serbava alcuni ricordi felici – qualche bella serata con Marianne e Turk al pub Head of the River e, all’università, per un mesetto era uscita con un tizio di Pembroke che abitava appena oltre il ponte – ma perlopiù la associava alla solitudine e all’abbandono e, più avanti, a una soverchiante sensazione di claustrofobia. Quel giorno invece, nel superare Vicarage Road, si costrinse a guardare. Ecco, all’angolo il Crooked Pot, un brutto edificio dalle finestre trasandate che non era stato concepito come un pub e, appena oltre, in due file di villette a schiera, la baraonda di case, alcune ancora con la facciata di mattoni mentre altre erano state intonacate e pitturate, tra cui quella che era stata di suo padre. Sua. Loro.

Accelerò e smise di trattenere il fiato solo dopo aver superato Norreys Avenue, come se anche solo respirare l’aria di Vicarage Road potesse bastare a riportarcela. Sulla sinistra aveva i campi da gioco dello University College, gli orti, e poi la matassa disordinata di negozi e case che costeggiavano la brutta strada che usciva dalla città.

All’incrocio con Weirs Lane, distolse lo sguardo.

Boar’s Hill era un altro mondo: villette indipendenti nascoste dalla strada da grandi alberi e cancelli di sicurezza, una Jaguar in un vialetto, una Range Rover in quello accanto. Non aveva mai saputo chi ci vivesse. Le case di Oxford che lei capiva erano discrete e piene di libri, un po’ trasandate ma comunque vendute per milioni di sterline, mentre quelle erano appariscenti, in molti casi moderne, di quelle che compravano i giocatori della Premier League.

In cima alla collina le cose cambiavano di nuovo. Lassù, gli alberi finivano e il panorama era sgombro: distese di campi di erba scialba e siepi ricoperte di arbusti. La campagna inglese immutata da un secolo. Sul ciglio della strada c’era una sola macchina, una Nissan Micra rossa, ma del proprietario non c’era traccia. Rowan parcheggiò subito dietro, chiuse l’auto e superò la scaletta per entrare nel campo.

A duecento metri dalla strada, arrivò in cima alla collina e si appoggiò allo steccato di legno. Le estremità della sciarpa svolazzavano alle sue spalle, come due bandiere gemelle sferzate dal vento che muoveva le nubi in cielo, in un groviglio bianco e grigio talmente basso che pareva bastasse alzare una mano per toccarlo.

Davanti a lei c’era una trapunta patchwork verde, con i campi antichi e irregolari, cuciti insieme alla bell’e meglio, rammendati qua e là da boschetti e minuscole case ammucchiate. A una decina di chilometri di distanza, nell’avvallamento poco profondo scavato dai fiumi, i tetti e le guglie ritratti sulle cartoline di Oxford galleggiavano su una foschia di alberi lontani come una visione, un miraggio. Un appezzamento di terra così piccolo, pochi chilometri quadrati, eppure così ricco, di sacrifici e lotte, Sturm und Drang.

Inspirò a fondo più volte, riempiendo il petto di aria fresca. La conversazione con Greenwood l’aveva turbata, si sentiva ancora scossa. La sua rabbia improvvisa e possente, a malapena contenuta, l’aveva spaventata. Chissà se Marianne aveva conosciuto quel lato del suo compagno, se si era scatenato anche con lei. Che fosse per quello che si era buttata, o almeno in parte? Rowan rifletté sull’idea, la esaminò da ogni angolazione, ma non le quadrava. Con l’educazione che aveva ricevuto e la convinzione ben radicata in lei che una donna avesse il diritto di sentirsi al sicuro e decidere per sé, Marianne non sarebbe mai rimasta con un uomo che la intimidiva. Non era sola né priva di risorse; non aveva figli a cui pensare: se avesse avuto una relazione difficile, vi avrebbe posto fine.

Certo, la persona che avrebbe potuto saperlo era Bryony ma, anche se avesse ignorato la richiesta di Greenwood, se così si poteva definire, e fosse andata di nuovo a scuola, Rowan dubitava che la ragazza avrebbe parlato con lei. Aveva messo in chiaro la sua lealtà verso il padre.

Un’altra pista investigativa che si chiudeva; un’altra persona, anzi due, incavolate. Rowan si concentrò sul panorama scintillante della città. Chi poteva sapere qualcosa sulla relazione di Marianne era Adam, ma ormai erano passati tre giorni senza una parola da parte sua. Sdraiata a letto la sera prima, con la casa avvolta in un pesante silenzio, si era chiesta se non gli fosse accaduto qualcosa. Magari aveva avuto un incidente. Esausto e con i postumi della sbronza, si era forse schiantato con la macchina? No, si era imposta di smetterla. L’avrebbe saputo, qualcuno l’avrebbe chiamata. Non era successo niente; semplicemente, lui non voleva parlarle.