Capitolo otto
Il Gloc non era il tipico locale in cui andava a bere un poliziotto in carriera, ma Rowan sapeva che Theo lo avrebbe suggerito. Quale altro posto avrebbe potuto scegliere? Non appena aprì la porta, si ritrovò immersa in un ambiente familiare, oltre che nell’odore di birra calda. Come un tempo, le pareti del minuscolo atrio erano zeppe di volantini di concerti metal e riparazioni per motociclette e dal jukebox usciva Back in Black degli AC/DC. Il barista aveva una massa di capelli da fare invidia a Ozzy Osbourne da giovane.
Era più buio dentro che fuori. Non appena i suoi occhi si adattarono alla luce, ordinò una pinta di birra IPA e si sistemò in una delle nicchie in penombra con le panche per sedersi.
Quando ancora dovevano affidarsi ai documenti a prova di bomba che Turk aveva fatto fare per loro, ci era venuta diverse volte con Marianne, ma in realtà il Gloc, o meglio, il Gloucester Arms, aveva fatto parte del periodo in cui frequentava l’università, quando ci veniva più o meno una volta a settimana con un gruppo di amici del Brasenose, tra cui c’era anche Theo. Nascosto in un vicolo che sbucava dalla vivibile Gloucester Green, quel vecchio pub con il soffitto basso, il pavimento in legno e una playlist di canzoni esclusivamente metal era stato il loro modo di tornare in contatto con il mondo reale. Dal punto privilegiato che aveva scelto, vedeva due tizi barbuti sui cinquant’anni che indossavano magliette e gilet di pelle e una coppia con giacche da motociclista coordinate che pareva rimasta là dall’ultima volta che era venuta. L’unico vero cambiamento era la mancanza di fumo: all’epoca, prima del divieto, a fine serata si formava una nube spessa una trentina di centimetri sospesa sopra le teste.
Dal jukebox partirono i Metallica. Le sette meno dieci. Era in anticipo ma, dopo essere stata in casa da sola tutto il giorno, uscire era stato un sollievo. Quel pomeriggio aveva ispezionato la nuova camera da letto di Marianne al primo piano, ma non le aveva rivelato molto. A quanto pareva, non ci passava molto tempo: non c’era una radio né un televisore e l’unico libro sul comodino era una copia consumata di Corpi di Susie Orbach. Nell’unica fotografia era ritratta con Adam e Jacqueline a tavola uno degli ultimi Natali, a giudicare dall’edera intrecciata intorno ai portacandele. Chissà chi l’aveva scattata. Fintan o James Greenwood? Forse Adam aveva una ragazza, anche se al funerale non l’aveva vista e non ne aveva sentito parlare.
«Rowan».
Alzò di scatto lo sguardo e vide Theo in piedi accanto al tavolo.
«Scusami». Le sorrise. «Non volevo spaventarti».
Scosse la testa.
«Non mi hai spaventata». Si alzò e gli diede un bacio sulla guancia. «Che bello vederti».
«Anche per me, anche se ti ho vista a malapena. È sempre stato così buio qui dentro?». Ce l’aveva ancora, pensò Rowan, quella lieve traccia nell’accento dell’infanzia trascorsa nella Black Country.
«Credo di sì, ma eravamo sempre troppo sbronzi per accorgercene».
Sorrise. «A tal proposito, vado al bar». Accennò al suo boccale, con le sopracciglia inarcate.
«No, sono a posto per ora. Grazie».
Lo osservò mentre ordinava a Ozzy, chinandosi appena per farsi vedere oltre la fila di bicchieri appesi. Era venuto direttamente dall’ufficio, cioè dalla stazione di polizia, e sotto il lungo cappotto nero portava una giacca scura e una camicia bianca che le ricordarono un’uniforme scolastica. Theo aveva sempre avuto un’aria infantile. Forse era per la sua espressione affabile, perché già a vent’anni gli si formavano delle rughe intorno agli occhi quando rideva, o forse era per i capelli, una folta zazzera biondo scuro. Come un lattante dai capelli color stoppa dopo una baruffa, pensò, descrivendolo a Marianne.
Messo via il resto, Theo tornò da lei, si sedette sulla panca ed estrasse un vasetto di pistacchi dalla profonda tasca del cappotto. «Ecco. Serviti pure». Fece cincin con la sua birra. «Allora, come mai sei tornata?».
Gli raccontò del dottorato e degli archivi alla Biblioteca Bodleiana. «Noto che tu te la passi alla grande», gli disse. «Ti ho visto in televisione appena prima di Natale per il caso della fattoria Marley. L’ispettore capo Theo Marsh al tribunale penale di Oxford. Per poco non sono caduta dal divano».
«L’hai visto? Dio, che vergogna».
«No, stavi bene. La televisione ti dona. Un brutto caso, però». Si era trattato di un processo per omicidio: due fratelli semianalfabeti al verde stavano aspirando del carburante da un trattore quando erano stati scoperti dal contadino, che aveva sparato loro nella schiena. Era diventato un caso a livello nazionale, che aveva generato un gran dibattito sui giornali e portato a un question time sulla povertà nelle zone rurali e sui controlli inadeguati delle forze dell’ordine.
«È stato un casino», commentò Theo. «Sono contento che sia finita».
«Però ti piace, in generale, la polizia?».
Annuì. «La adoro, ogni tanto. Anche se tutti preferirebbero che fossi diventato l’avvocato di una grossa azienda».
«Tutti?»
«Be’, i miei genitori. Con lo stipendio da poliziotto? Ciao ciao villa per la pensione in Spagna». Fece una smorfia. «Povera mamma. Sono uno stronzo ingrato. Ma volevo fare il detective da quando ho visto la Pantera Rosa. Il cartone animato». Bevve un sorso di birra. «Anch’io ho pensato a te ultimamente», le confidò. «Ecco perché ero così stupito quando mi hai chiamato. Quasi come se ti avessi convocata io».
«Sul serio?». Lo scrutò. «E perché hai pensato a me?». Prese un pistacchio.
«Per Marianne Glass, la tua amica».
Rowan rimise giù il pistacchio. «Mi chiedevo se ti ricordassi di lei».
«Ma certo».
Ci aveva pensato prima, Theo doveva aver incontrato Marianne due o tre volte quando era venuta da Londra per farle visita all’università. Marianne faceva sempre colpo sugli uomini; ogni volta che veniva, poi Rowan doveva passare un paio di irritanti giorni a schivare interrogatori non troppo velati da parte di tizi che non si sarebbero mai interessati a lei. Tuttavia, Theo non era mai stato tra quelli, e comunque nessuno aveva mai avuto fortuna perché Marianne aveva iniziato a uscire con qualcuno appena arrivata alla Slade.
«In parte è anche per questo che sono tornata», spiegò Rowan. «Che tempismo, comunque. Le sto tenendo d’occhio la casa, per aiutare sua madre».
«La casa di Park Town?»
«Mmm».
«È bella grossa. Ci stai da sola?»
«Allora la conosci?»
«Ho aiutato il detective incaricato delle indagini… per il poco che sono durate».
Inarcò un sopracciglio.
«Be’, era ovvio che non ci fosse nessun altro coinvolto, quindi…».
«Come facevate a saperlo?». Rowan lo fissò oltre il bordo del boccale.
«Era da sola quando è successo. È frustrante non poter dire di preciso perché o come sia caduta…». Si interruppe. «Scusami. Sei sicura di volerne parlare?»
«Sì, non c’è problema. Aveva bevuto?»
«Al massimo un bicchiere. Perché me lo chiedi?»
«Non c’è un motivo preciso. Per l’alcol, intendo. Non che avesse un problema. In generale, sull’incidente, se davvero lo è stato… È solo che ho così tante domande, perché non sentivo Mazz da anni, ma non posso farle alle persone che potrebbero conoscere le risposte. Non posso mica parlare con la sua famiglia del fatto che potrebbe essersi buttata».
Aggrottò la fronte. «Perché? Credi che si sia buttata?»
«Come ho detto, non le parlavo da tempo. Però… be’, in passato era stata depressa, dopo la morte del padre, quindi è possibile che ci sia ricascata. Anche se Jacqueline dice di no, almeno da quel poco che mi ha detto».
«A rigor di termini», proseguì Theo, «non dovrei parlarne, per questioni di riservatezza eccetera eccetera, ma noi, cioè la polizia, siamo sicuri che sia stato un incidente. Non c’erano indizi che fosse depressa, ma diversi motivi per cui non lo fosse: aveva una bella relazione, stava per fare una mostra…».
«A New York. Era uno dei suoi sogni». Rowan svuotò il proprio boccale. «Non lo so. Il fatto è che continuo a pensare a quanto avesse paura dell’altezza. Andavamo spesso sul tetto e non si è mai avvicinata al bordo».
«Quando ci sei stata l’ultima volta con lei?»
«Anni fa», ammise. «Prima che morisse suo padre».
«Le persone cambiano, sai».
«Sì, però…».
«È dura, lo so, ed è successo da pochissimo, ma penso che non dovresti tormentarti pensando al suicidio. Davvero».
Inspirò a fondo. «Ok. Grazie».
Lui prese i boccali e si alzò. «Facciamo un altro giro».
«Hai sentito di Clare Donaghue?», le chiese, aprendo un pistacchio con l’unghia del pollice. «Lei e il marito, Simon, un brav’uomo, hanno provato per anni ad avere un figlio ma non succedeva niente, poi ha fatto la fecondazione in vitro e ne hanno avuti tre». Sorrise. «Tre femmine».
«Oddio». Rowan scoppiò a ridere. «Erano contenti?»
«Entusiasti, credo. E poi, un mese dopo che sono nate, Si è stato trasferito a Kuala Lumpur e ha dovuto fare le valigie e partire, lasciandola con quelle tre creaturine. Non hanno avuto il permesso di prendere l’aereo per mesi perché erano troppo piccole. Lei mi mandava delle email alle tre di notte, poveretta».
«Non eri uscito con lei per un po’?»
«Quella era Claire con la i».
«Oh, già».
«E tu? Con chi sei in contatto?».
Rowan mise giù il boccale, rendendosi conto che era quasi di nuovo vuoto. «Vedevo spesso Alex Busby quando ero alla BBC. Non mi stupisco che se la passi così bene».
«Mi chiedevo se mi avrebbe intervistato per il caso Marley. Sarebbe stato davvero strano».
«E poi, un paio di settimane fa, ho incontrato per caso Sarah Gingell in Tottenham Court Road. Io stavo andando da Foyles e lei scendeva da un autobus».
Theo aggrottò la fronte. «Che aspetto aveva?»
«Devo essere sincera? Terribile».
«Era su di giri? Che ora era?»
«Le tre, forse le tre e mezza. Era ubriaca marcia. Non abbiamo detto niente di divertente, ma lei continuava a ridere. È stato strano. Deprimente».
«Pensi di essere immune, che le cose del genere non succedano a te e ai tuoi amici, ma poi…». Theo scosse la testa. «Puoi solo essere grato che non sia toccato a te e cogliere al volo le opportunità quando ti si presentano». Si allungò oltre lo spigolo del tavolo e le accarezzò il braccio. «È bello vederti».
Sul marciapiede deserto, con gli Iron Maiden attutiti dalla porta del pub, le loro voci si fecero all’istante più forti. Si era alzato il vento, che aveva spazzato via le nuvole che avevano coperto il sole durante il giorno e ora si vedevano due o tre stelle abbastanza luminose da sfidare il leggero velo di smog.
«Allora». Le sorrise, e il suo fiato creò una nuvola di vapore.
«Allora».
Le si avvicinò e la spinse delicatamente contro il muro, con le mani calde ai lati del suo viso. «Avevo voglia di farlo da quando sono entrato». Si chinò di pochi centimetri e le sfiorò le labbra con le sue. Rowan sentì il suo alito dolce di birra e provò un brivido che dalle spalle le scese lungo le braccia.
«Ti vedi con qualcuno?».
Scosse la testa. «Non proprio. Non al momento». Sollevò il viso, convinta che l’avrebbe baciata, invece lui si ritrasse.
«Andiamocene da qui». La prese a braccetto e si incamminarono verso Gloucester Green, oltre il teatro studentesco in Beaumont Street. La facciata del museo era illuminata come un antico tempio greco. All’ingresso del parcheggio del Randolph, lui la trascinò all’ombra e la baciò, con le mani infilate nella sua giacca e le dita fredde premute alla base della sua schiena. «Allora, resta una sola domanda», le disse.
«Quale?»
«Da te o da me?»
«Da te», rispose Rowan. «Non mi sembra giusto, andare in Fyfield Road».
«Già, capisco quello che intendi. Però io abito a Wytham adesso».
«Ah, sì?». Era sorpresa.
«Non possiamo guidare perché abbiamo bevuto troppo tutti e due e poi, sinceramente», la tirò a sé, «non ce la faccio ad aspettare così tanto».
«È buffo», le disse, allungando una ciocca dei capelli di Rowan sulla federa. «Ho il ricordo nitidissimo di averti guardato i capelli. È stato la mattina dopo il ballo del Worcester. Te lo ricordi?»
«Ricordo di essere entrata nel lago con un vestito che si poteva lavare solo a secco. Si è rovinato e ho dovuto buttarlo».
«Avevi ancora i capelli bagnati quando siamo rientrati. Ricordo di averli guardati sul cuscino come adesso, cercando di capire di che colore fossero. Non sono del tutto biondi, ma nemmeno castani. Hai delle sfumature ramate, ma si notano solo se li guardi da vicino. Forse la parola migliore per descriverli è fulvi».
«Fulvi? Mi piace».
Sistemò il gomito e si chinò per un lungo bacio. «Perché io e te non siamo mai usciti insieme?»
«Perché eravamo giovani e stupidi?».
La tirò a sé e lei si girò su un fianco. Con la guancia sulla sua spalla, gli accarezzò i peli sottili sul petto. Rimasero sdraiati in silenzio per un paio di minuti, godendosi il letto caldo nella stanza fredda.
«Sai quello che hai detto sul fatto che Marianne fosse da sola?», gli domandò.
«Mmm». Aveva chiuso gli occhi.
«Come mai ne eri così sicuro?».
Lui cambiò posizione, non perché si fosse addormentato, ma per concentrarsi sulla sensazione della sua mano sulla pelle. «Per la neve», rispose. «C’era una serie di orme che entravano in casa e una di orme che uscivano ed erano tutte sue».
«Oh».
«Aveva degli stivali di gomma, degli Hunters blu navy. Li indossava quando è morta e abbiamo dei filmati delle telecamere di sicurezza in cui la si vede con quelli che va a comprare le sigarette in North Parade qualche ora prima, dopo la nevicata, quindi…».
«C’erano delle impronte sul tetto?».
Emise un suono gutturale: no. «Quando i vicini l’hanno vista, ormai era già uscito il sole. Per fortuna il giardino è all’ombra».
«Se ci fossero state, avreste potuto capire esattamente quello che è successo».
«Forse». Si voltò di nuovo verso di lei e le si avvicinò, mettendole una mano su un fianco.
«Non è possibile che ci fosse qualcuno in casa, nascosto, e che se ne sia andato dopo di voi?».
Lui si ritrasse e la fissò. «No. La casa è stata perquisita da cima a fondo, Miss Marple. Qui non c’era nessuno e nessuno è uscito prima del nostro arrivo».
«Scusami, adesso sto zitta».
«Per caso sai qualcosa, Rowan?». La fissò con attenzione. «Pensi che qualcuno volesse farle del male?»
«No. Be’, cioè, non lo so… Come ho detto, non eravamo più in contatto… Ma ne dubito. Non era quel tipo di persona».
«Allora accettalo per quello che è stato: un incidente. Terribile, una vita e un talento orribilmente sprecati, ma comunque un incidente».
Si stava addormentando quando il materasso si curvò sotto di lei. Aprì gli occhi e vide Theo seduto sul bordo del letto. Un attimo dopo, si alzò e recuperò i boxer dal pavimento. Lo osservò mentre si infilava la camicia e i pantaloni.
«Non resti?».
Lui si voltò, sorpreso mentre si chiudeva la cerniera.
«Non posso. Devo andare al lavoro presto domani. Ho una riunione».
«Resta in città, allora. Farai più in fretta da qui».
«Devo cambiarmi, fare la doccia. Io…». Nel vedere la sua faccia, si sedette di nuovo e si allungò sul letto per accarezzarle la guancia. «Ro, vorrei restare, ma Emily andrebbe fuori di testa. Un conto è tornare tardi, posso sempre trovare una scusa, dire che è successo qualcosa al lavoro, ma stare fuori tutta la notte…».
«Chi è Emily?».
Lui scosse la testa. «Dai, non facciamo questo giochetto».
«Che cosa… Cristo». Rowan afferrò la trapunta patchwork, se la avvolse intorno al corpo e scattò in piedi, d’un tratto colta alla sprovvista. «Non ci credo».
«Oh, lo sapevi… Non ci credo che non lo sapevi. Sono tre anni che sono sposato, per l’amor del cielo. Ho anche un figlio. Vuoi dirmi che non te l’aveva detto nessuno dei nostri compagni dell’università?»
«Credi quello che ti pare. Pensi che l’avrei fatto», accennò al letto, «se l’avessi saputo?».
Lui si chinò per raccogliere il cappotto. «Be’, perdonami», le disse mentre se lo infilava, «se mi ero dimenticato quanto fossi integerrima».
Il rumore della porta d’ingresso che sbatteva risuonò per tutta la casa. Grazie al cielo i Dawson erano via. Furiosa e disgustata di sé stessa, si appoggiò alla parete e rimase ad ascoltare i passi pesanti che si allontanavano sulla ghiaia. Era ancora avvolta nella trapunta: non aveva nemmeno avuto il tempo di infilarsi i jeans. Bastardo di un Theo. Prese la vestaglia dal gancio e se la infilò, con la seta fredda a contatto con la pelle nuda.
I postumi della sbronza cominciavano a farsi sentire e aveva la bocca secca. Lanciò la trapunta sulla ringhiera e scese in cucina per bere un bicchiere d’acqua.
Sotto ai suoi piedi, il pavimento di ardesia era gelato. Davanti al lavello, con le luci accese sopra di lei la finestra era come uno specchio e rifletteva la sua immagine. Il giardino era invisibile e il punto in cui Marianne era morta inghiottito dall’oscurità. Rowan pensò all’aspetto del suo corpo al sorgere del sole, con la neve scarlatta intorno alla sua testa. Mi hanno detto che aveva le dita congelate. Che cosa indossava? Dei jeans? Un cappotto? Be’, sicuramente, visto che portava gli stivali di gomma. Stivali di gomma… Nella sua mente, la morte di Marianne era stata nobile, quasi eroica, invece…
Dall’altro lato del vetro, qualcosa si mosse. Sorpresa, lasciò cadere il bicchiere nel lavandino. L’aveva visto solo con la coda dell’occhio, ma non erano foglie mosse dal vento né un uccello o un animale. Era qualcosa di più grosso, come se qualcuno si fosse spostato, alterando la luce.
Chiuse l’acqua e si allontanò dal vetro. Il più tranquillamente possibile, uscì dalla cucina e salì al piano di sopra, piegandosi davanti alla finestra sul pianerottolo. Nascosta alla vista dal giardino, corse fino allo studio e si appostò alla finestra.
Non aveva acceso la luce e, non appena i suoi occhi si abituarono al buio, scrutò il giardino visibile al chiaro di luna. Vicino al capanno non c’era nessuno e neanche vicino al muro. Con le ombre, era difficile esserne sicuri, ma pareva che anche sotto alle betulle non ci fosse nessuno. Non si muoveva nulla.
Fece scattare lentamente la serratura e aprì la finestra. Attese un momento, poi si sporse all’esterno fino a vedere bene la zona illuminata davanti alla finestra della cucina, il piccolo patio e i gradini che portavano in giardino. Nessuno. L’unico rumore era quello del vento.
Andò nello spazio di Adam e guardò fuori dall’abbaino. Nessuno sul vialetto e il marciapiede era deserto. Le due auto parcheggiate sul ciglio della strada erano vuote.
Con la fronte premuta contro il vetro, attese che il cuore smettesse di martellarle nel petto. I quadri con le ragazze anoressiche alla sua sinistra erano mezzo nascosti nell’oscurità. Qualcuno si sarebbe davvero introdotto in casa per rubarli? Era più probabile che venisse uno sciacallo in cerca di qualche apparecchio elettronico decente.
Comunque, in giardino non c’era nessuno. O era stato il vento o se l’era immaginato, visto quanto era nervosa e mezzo ubriaca. E, la notte in cui era morta Marianne, in casa non c’era stato nessun altro, adesso lo sapeva per certo.
Nel chiudere la finestra sul retro della casa, lanciò un’occhiata verso i condomini in Benson Place e il suo cuore riprese a galoppare. All’ultimo piano, quasi alla sua stessa altezza, alla luce di una finestra si stagliava la sagoma di un uomo. Guardava verso di lei. Per un attimo rimase come paralizzata ma poi, con i nervi provati, pensò: Al diavolo! e gli fece un saluto spavaldo con la mano. Perché quell’uomo non avrebbe dovuto guardare fuori dalla finestra? Dopotutto, lo stava facendo anche lei.