Capitolo trentanove
Si addormentò che cominciava ad albeggiare e le parvero trascorsi pochi minuti quando venne svegliata dal campanello. Si mise seduta e, ancora una volta, trovò il lato del letto di Adam vuoto. Quando si alzò, però, lo sentì sulle scale della cucina. Si infilò il maglione e uscì sul pianerottolo proprio mentre lui apriva la porta d’ingresso. Il suo primo pensiero fu la giornalista, una prospettiva già abbastanza brutta, ma scendendo le scale vide sulla soglia Theo e il sergente Grange. Dalle loro facce, capì che c’erano stati degli sviluppi.
In salotto, Theo si sedette mentre Grange rimase in piedi, con l’aria di chi aveva imparato a tenere a bada l’energia che lo manteneva così slanciato. La sua immobilità pareva controllata, ma i suoi occhi si muovevano di continuo, osservando ogni cosa con una concentrazione tale per cui era chiaro che stesse assimilando e registrando tutto.
«Stamattina abbiamo ricevuto i risultati dell’autopsia di Michael Cory», esordì Theo senza preamboli. «Adesso è un’indagine per omicidio».
Rowan si sentì raggelare. Per un attimo, per diversi secondi, ebbe l’impressione che la sua mente si staccasse dal corpo. Le parve di aleggiare sopra quella scena, presente ma separata dagli altri da uno schermo infinitesimale, da un vetro sottilissimo. La voce di Theo le giungeva come da lontano. «…la posizione della ferita troppo in alto sulla testa, vicino al cocuzzolo, che si può facilmente scambiare con una ferita dovuta a una caduta all’indietro; i minuscoli frammenti di ardesia nella ferita, che non si trova in natura in quel punto lungo la riva del fiume».
Cazzo.
«Significative», intervenne Grange, attirando l’attenzione di Rowan, «sono anche le tracce di sangue sul colletto e sulla schiena del cappotto. Sembra che il sangue sia colato verso il basso, il che indica che fosse in piedi quando è stato ferito. Se fosse caduto, si sarebbe raccolto intorno alla testa e, se fosse caduto direttamente in acqua, probabilmente non ci sarebbe stata nessuna macchia».
Adam sbiancò. Stava seduto sul bordo del divano, con i gomiti piantati sulle ginocchia e le dita premute sulla bocca.
«Adesso», aggiunse Theo, «abbiamo anche un orario approssimativo della morte. Il medico legale dice che è successo venerdì pomeriggio».
«Probabilmente a metà pomeriggio», specificò Grange.
«Quindi, temo di dover chiedere a entrambi dove eravate in quel lasso di tempo».
«Siamo sospettati?», s’informò Rowan. La sua voce parve distante, fragile, incorporea.
«No, non siete sospettati», spiegò Theo. «Nulla di simile».
«A Cambridge», rispose Adam. «Alle due ho incontrato per un’ora due miei studenti, che potranno confermarlo. E anche il tuttofare dell’università: una finestra a ghigliottina nel mio ufficio era incastrata, per colpa della vernice, e lui è venuto a sistemarla subito dopo. Ci ha messo una decina di minuti. Poi sono venuto via dall’università. Ci sono delle telecamere nell’ingresso e i portinai mi hanno visto. Sono andato a casa in bicicletta e ho preso la macchina per venire qui. Oh, e ho fatto benzina appena fuori St Neots. Dovrei avere la ricevuta nel portafoglio, ma altrimenti dovrei essere anche sulle loro telecamere di sicurezza. E ho pagato con la carta di credito. Saranno state le quattro, quattro e un quarto. Posso dirvi in quale stazione».
«Grazie, controlleremo», commentò Grange. «Ma è solo una formalità. Semplice diligenza».
«Rowan?». Sotto lo sguardo fisso di Theo, le frasi che aveva preparato mentre Adam parlava scomparvero dalla sua mente. La cosa più vicina a un alibi che aveva era che Martin Johnson l’aveva vista prima di uscire e una volta rientrata, ma si rese conto che, rivelandolo, avrebbe attirato l’attenzione sull’enorme vuoto nel mezzo. Theo inarcò un sopracciglio, per incalzarla.
«Scusatemi». Scosse la testa come se faticasse a concentrarsi dopo lo shock. Decise che era meglio dare una risposta in apparenza sincera, anche se non l’avrebbe tratta d’impaccio. «Stavo lavorando», rispose. «Studiavo».
«Dove?»
«Qui. A casa».
«Qualcuno può confermarlo?»
«No, non credo. Ero da sola. Oh», come se le fosse appena tornato in mente, «ho salutato Martin Johnson all’ora di pranzo, quando sono salita di sopra per mettermi un altro maglione».
«Nessun altro? Non sei mai uscita di casa? Per comprare il latte o per fare una passeggiata?»
«No».
«Ha chiamato qualcuno sul telefono fisso?», chiese Adam. «Hai fatto tu qualche telefonata?».
Merda. E se avesse davvero chiamato qualcuno? Sarebbe risultato dai tabulati? Concentrati, Rowan, te ne preoccuperai solo se sarà il caso; dirai che eri in bagno o qualcosa del genere. Strizzò gli occhi come se stesse riflettendo. «No… No, non mi pare». Con la coda dell’occhio, vide Grange scrivere qualcosa sul suo taccuino e sentì il sudore accumularsi sotto le ascelle. «Dio, non lo so. Mi dispiace. Controllerò le email, il cellulare, per vedere se c’è qualcosa possa aiutarmi a ricordare. Ma sono stata qui, tutto il pomeriggio, questo lo so».
«Se le viene in mente qualcosa», disse Grange, «ci chiami, va bene?»
«E Bryony?», s’informò Adam.
«Ha un alibi di ferro», disse Theo con un sorriso amaro.
«Davvero?»
«Era a scuola».
Quando i poliziotti se ne furono andati, Adam raggiunse i piedi delle scale e si sedette sull’ultimo gradino. Rowan lo guardò, incerta sul da farsi. Si era allontanato, si stava chiudendo in sé stesso: aveva gli occhi aperti, ma persi nel vuoto. Chissà se la vedeva: quando si sedette accanto a lui e gli poggiò un braccio sulla schiena, lui sobbalzò. Per un lungo istante, un minuto o forse due, restarono entrambi in silenzio.
«Ad, che cosa posso fare?».
Un ritardo, come se la sua voce le giungesse via satellite. «Niente», rispose, con espressione assente. «Mi serve un po’ di spazio. Per pensare. Ti dispiace?».
Aveva senso, era del tutto ragionevole, eppure quella richiesta le diede il voltastomaco. «Certo che no», disse. «Mi faccio una doccia e poi esco. Andrò in biblioteca. Forse lavorare è proprio quel che mi serve, per distrarmi».
Attese un commento, ma lui si limitò ad annuire. Quando si alzò per andare di sopra, il telefono fisso squillò, troppo forte in quel silenzio carico di tensione. Adam esitò, lo lasciò suonare a lungo ma poi, proprio quando Rowan era convinta che avrebbe smesso, si alzò e afferrò il cordless.
Lei era troppo lontana per sentire che cosa gli chiedesse la vocina all’altro capo, ma vide benissimo il modo in cui Adam stringeva il telefono, con i tendini in rilievo sul dorso della mano. «Non ho nessun commento al momento», disse, «e non ne avrò in futuro. Non chiami più questo numero».
In piedi in cucina, la osservò mentre metteva in borsa il portatile e i libri. Rowan sperò non si accorgesse di quanto le tremavano le mani.
Il disegno di Cory era sul tavolo, dove Adam l’aveva lasciato la sera prima. Quando gliel’aveva portato, lui l’aveva studiato con attenzione. Lei aveva avuto un tuffo al cuore e, nella mente, aveva risentito le sue parole la prima volta che l’aveva visto. Gli piaci? «Stavo pensando a quello che mi ha detto Mazz quando siamo usciti a bere dopo Natale», aveva aggiunto dopo un minuto, o forse di più, «sul fatto di riallacciare i rapporti con te e risolvere quello che era successo anni fa. Ha detto che Michael la stava aiutando a schiarirsi le idee».
Anche ora, fu Adam a rompere il silenzio. «Come mai tu e Mazz avete litigato?»
«Cosa?»
«All’epoca. Per che cosa avete discusso?».
Rowan scosse la testa. «Ad, lo sai. Hai già abbastanza cose di cui preoccuparti senza dover rivivere…».
«Non sono sicuro di saperlo. Non del tutto». La fissò, in attesa.
La vecchia storia; non aveva tempo di inventarsi qualcosa di meglio. «Perché io le sono stata troppo addosso dopo la morte di vostro padre», disse. «Marianne voleva un po’ di spazio, del tempo per stare sola, ma io avevo paura di perderla». Si interruppe, con l’attaccatura dei capelli imperlata di sudore.
«Perché avresti dovuto perderla?»
«Non lo so. Mi sembrava che stesse cambiando tutto. Lei aveva venduto dei quadri a Dorotea Perling per una grossa cifra e io temevo che avrebbe avuto così tanto successo, che sarebbe stata una stella, che l’avrei persa. E poi qui è andato tutto a rotoli. Vostro padre…».
L’auto nera di Georgina Parry era parcheggiata in bella vista accanto al marciapiede. Quando Rowan aprì la porta di casa, la vide alzare subito la testa. Si voltò per salutare Adam, sentendosi addosso lo sguardo di quella donna.
«Ci sentiamo dopo», disse. «Se hai bisogno di me, chiamami. Non farò niente che non possa interrompere».
Lui annuì ma, quando lei arrivò in fondo ai gradini, aveva già richiuso la porta. Mentre percorreva il vialetto però, la giornalista aprì la portiera.
«Buongiorno. Come sta?». La seguì a passo spedito sul marciapiede. «Prima è venuta la polizia, vero? Quindi sa che adesso la morte di Michael Cory è considerata a tutti gli effetti un omicidio».
Tremante per la rabbia, Rowan si girò di scatto. «Ho detto di no. No. Che cosa non capisce di questa parola? Che cazzo di problema ha?».
Più tardi, relativamente al riparo nel bar tra le volte della St Mary’s Church, Rowan era furente con sé stessa. Perché aveva perso il controllo? Perché si era lasciata andare? L’ultima cosa di cui aveva bisogno al momento era una giornalista convinta che avesse qualcosa da nascondere. Dopo averla vista con Adam il giorno prima, quella donna era andata a controllare tutte le foto scattate dal paparazzo al funerale, non solo quelle che erano finite sul giornale. Aveva visto quella che le aveva fatto dalla macchina. E se avesse parlato con lui e scoperto che Rowan aveva cercato di comprare quelle foto, per impedire che venissero pubblicate?
Ma, alla situazione attuale, quello era un problema secondario.
Un’inchiesta per omicidio. Troppo in alto sulla testa; che non si trova in natura in quel punto lungo la riva del fiume; sembra che il sangue sia colato verso il basso… Quelle frasi la tramortirono di nuovo come pugni, ognuno a testimoniare il casino che aveva combinato, quanto si era resa vulnerabile.
Chissà se c’era un modo per sistemare tutto adesso. I pezzi erano stati raccolti: tra Adam e i poliziotti, li avevano tutti ormai. Rowan li immaginò come un riflesso sull’acqua, come le foglie e il cielo sopra il fiume il giorno in cui era andata da sola alla casa galleggiante, un’immagine fluttuante, luccicante e frammentata. Bastava soltanto che la luce la colpisse in un certo modo.
E, se loro avevano tutto, lei non aveva più niente. Proprio come negli ultimi giorni con Cory, aveva usato tutte le sue risorse.
Il giornale che aveva comprato era aperto sul tavolo, ma non riusciva a leggerlo. Aveva scelto quel bar perché era vicino alla biblioteca e quindi era plausibile che avesse fatto una pausa lì ma, quando la cameriera portò via la seconda tazza di caffè freddo quasi intonsa, le sembrò di dare troppo nell’occhio. Si rimise la giacca, infilò il giornale in borsa e uscì.
Nel fare le scale che portavano al livello della strada, sentì vibrare più volte il telefono in tasca. Uscita in Radcliffe Square, controllò: sei chiamate perse, tutte dal cellulare di Adam.
Con la testa che le girava e una sensazione prima di caldo e poi di freddo, svoltò l’angolo in Brasenose Lane e si appoggiò alla cancellata in attesa che la nausea passasse. Il suo cuore non era ancora tornato a battere in modo regolare che il telefono che aveva in mano iniziò a vibrare. Adam. Con un respiro profondo, rispose.
«Dove sei?», la apostrofò. «Ti ho chiamata in continuazione; partiva direttamente la segreteria».
«Sono in Radcliffe Square. Sono appena uscita».
«In che università sei?», chiese lui.
«Come?». Per un istante, rimase confusa: eccola l’università, il Brasenose. Proprio dietro di lei.
«Ho chiesto in che università sei, a Londra?».
Rowan sentì risalire in gola quel che aveva nello stomaco e, con il corpo madido di sudore, deglutì a fatica. «Perché?», domandò.
«Ha chiamato Grange per chiederlo».
Il pomeriggio passò in un susseguirsi di immagini e luoghi di cui ebbe una percezione indistinta. I suoi vecchi rifugi: Blackwell’s, Waterstones, il Queen’s Lane Coffee House per una zuppa che toccò a malapena. Poco prima delle quattro, infreddolita ed esausta, andò all’Odeon in George Street, comprò un biglietto per il primo film in programma e si nascose al buio.
Doveva forse scappare, si chiese di nuovo, saltare in macchina? Ma se fosse scomparsa, la polizia avrebbe allertato i porti, l’avrebbe fatta fermare alla frontiera. E non poteva nemmeno provarci senza tornare a casa: il passaporto era là, sull’ultimo ripiano dell’armadio insieme alle perle della madre; quelli li aveva lasciati dov’erano quando aveva spostato la scatola.
Forse invece stava correndo troppo. La domanda di Grange poteva significare semplicemente che stava raccogliendo i fatti. Semplice diligenza. E poi la polizia non aveva chiamato lei. In effetti, dalla telefonata di Adam il suo cellulare era rimasto muto.
Il film le scorreva davanti, come una tappezzeria animata, mentre lei andava avanti e indietro, disperata e speranzosa, terrorizzata e risoluta. Alle sei e mezza però, i titoli di coda finirono e le luci si riaccesero. Prese una decisione: un ultimo tentativo.