Capitolo dodici

In fondo alla stanza, una donna vestita di nero sedeva a un lungo tavolo. Alzò lo sguardo, la salutò con fare brusco e tornò a concentrarsi sul computer. Giudicata e scartata in un secondo, pensò Rowan.

Non conosceva il nome dell’artista impresso sulla vetrina, ma i quadri in mostra erano nature morte, in apparenza tradizionali: il punto focale della prima erano una ciotola di limoni e una melagrana da cui fuoriuscivano i semi rosso sangue. Da lontano, le tele tutt’intorno parevano bianche ma, avvicinandosi, vide una rete di sottili linee grigie simili a quelle delle cartine che delineavano un bicchiere di vino, il corpo floscio di un coniglio e, accanto, un cellulare e delle chiavi con un telecomando, come se non fosse una natura morta attentamente studiata ma una fotografia a olio del tavolo nell’ingresso di qualcuno. Cosa c’entrava il coniglio? Era stato investito dalla BMW? Si avvicinò ancora di più e notò che ogni minuscola zona della tela era numerata e che, in basso a destra, c’era la legenda: “2: Giallo brillante; 3: Terra d’ombra chiaro”. Un’opera d’arte da colorare con i numeri.

La galleria consisteva in una lunga stanza dalle pareti bianche e dal pavimento lucido in legno scuro. Dalla facciata di vetro filtrava quasi tutta la luce naturale; l’unica altra finestra, in alto sulla parete in fondo, era protetta da sbarre verticali. Tuttavia, lo spazio era luminoso, grazie a decine di lampadine incassate nell’alto soffitto che creavano una luce priva di ombre.

Osservò i quadri uno dopo l’altro, avvicinandosi man mano al tavolo. Dopo un po’, si sentì addosso lo sguardo della donna, come se tutto il tempo che ci stava mettendo la rendesse degna della sua attenzione o, più probabilmente, sospettosa.

«Posso aiutarla?», le chiese con voce fredda.

Rowan la raggiunse. «Spero di sì. C’è per caso James Greenwood?».

La donna si alzò, rivelando una camicetta plissettata e un paio di pantaloni neri immacolati e fatti su misura. «La sta aspettando?»

«No».

«Lei è un’artista? Purtroppo non incontriamo nessuno senza accordi preventivi. Abbiamo moltissime richieste e…».

«No, non sono un’artista. Sono una vecchia amica di Marianne Glass».

La donna la fissò. «Ora lo chiamo», disse dopo un attimo. «Oggi c’è, è qui al lavoro, ma ha fatto un salto fuori. Può dirmi il suo nome?».

Rowan si allontanò mentre la donna chiamava Greenwood sul cellulare e gli parlava a voce bassa. «Rowan Winter. Sì». Era impossibile capire che cosa dicesse lui.

«Rowan? Sta tornando. Arriverà tra cinque minuti».

«Grazie».

Si mise a bighellonare, fingendosi assorta nei quadri. Il primo l’aveva divertita ma, dopo tre o quattro, era chiaro che fossero un mero espediente per attirare l’attenzione. La porta si aprì ed entrò una coppia, lui sui sessant’anni e lei sui trenta, con jeans indaco attillati, un lungo cappotto di cammello e dei tacchi che le garantivano una bella visuale del luccicante cranio pelato del compagno. Era attaccata a un iPhone in una custodia tempestata di diamanti finti in cui parlava russo a raffica. «Niet, niet».

Quando la porta che dava sulla strada si aprì di nuovo, a entrare fu Greenwood. Rispetto al funerale aveva un aspetto migliore, ma non di molto. Aveva ancora gli occhi infossati e cerchiati di grigio e pareva dimagrito, con un cappotto di almeno una taglia in più.

La riconobbe subito e le venne incontro. «Rowan».

«Signor Greenwood, mi dis…».

«James, la prego».

«Mi dispiace di essermi presentata senza prima telefonare».

Lui scosse la testa d’istinto, per buona educazione.

«Mi chiedevo se potessimo parlare».

Lanciò un’occhiata alla scrivania e rifletté. «Le va un caffè?», le chiese. «C’è un bar proprio dietro l’angolo».

Lasciò un messaggio alla donna, Cara, poi accompagnò Rowan alla porta. Si vedeva che sapeva mettere a proprio agio la gente in qualsiasi situazione, ma quella attuale stava mettendo a dura prova i suoi limiti. Era rigido e teso, con la schiena dritta come un suricato. Si incamminarono fianco a fianco, entrambi alla ricerca di qualcosa da dire che non fosse eccessivamente banale. Il tempo, il freddo… argomenti così britannici.

Lui le tenne aperta la porta del bar e, salito un consunto gradino di pietra, Rowan si ritrovò in un locale caldo e umido intriso dall’odore di bacon fritto. Accalcata intorno ai tavolini c’era una trentina di persone.

Greenwood andò al bancone e tornò nel giro di un minuto, tolse dal vassoio un bricco di latte e le chiese se volesse dello zucchero. Ne prese una bustina per sé, poi ci ripensò e la lasciò sul tavolo.

«Grazie per aver accettato. E per il caffè».

Lui scosse di nuovo la testa: prevedibile.

«Mi sento davvero insensibile. Egoista. Mi dispiace molto… Avrei dovuto pensarci prima di venire. L’ultima cosa che voglio è renderle le cose ancora più difficili».

Lui sorrise mesto. «È dura immaginare che possa essere ancora più difficile».

Rowan abbassò lo sguardo e raddrizzò il cucchiaio sul piattino. «Non sapevo se sarebbe stato al lavoro».

«Devo, per la mia salute mentale. Lo faccio in automatico, ma l’idea di starmene seduto a casa…».

«Ovviamente non era nulla del genere, ma quando io e Marianne abbiamo litigato, io… Be’, adesso, date le circostanze, non mi sembra giusto dire che ero devastata», Rowan inclinò la testa, rimettendosi al dolore dell’uomo, «ma all’epoca è proprio così che mi sono sentita. Le sembrerà stupido ma, quando ha detto che parlava di me, mi ha reso felice».

«Non è affatto stupido». Nonostante il caldo, non si era tolto la giacca e i bottoni ai polsini sbatacchiarono contro il tavolo quando abbassò la tazza. Parve farsi forza. «Di che cosa voleva parlare?»

«Proprio di quello. Volevo chiederle che cosa le ha detto». Sul volto dell’uomo passò una strana espressione. Che cos’era? Sorpresa? Rowan sentì un campanello d’allarme: che cosa gli aveva raccontato Marianne?

Greenwood prese la bustina di zucchero e l’aprì. Il cucchiaino tremò contro il piattino in ceramica vetrificata. «Sono distrutto», disse, guardandosi le mani, «quindi mi perdoni, ma non mi ricordo di preciso».

«Ma certo».

«Comunque, non parlava spesso di lei, purtroppo. Avevo l’impressione, anzi, ne ero certo, che fosse troppo doloroso per Marianne pensare a lei. Che cosa è successo?»

«Non gliel’ha detto?». Rowan tenne lo sguardo fisso sulla tazza che stringeva tra le mani.

«No».

«È stato un casino. Tutta la storia».

«So che è stato nel periodo in cui è morto suo padre».

Il cuore le fece un balzo esagerato nel petto. «Già. Perché è morto».

«Che cosa vuol dire?».

Rowan si costrinse a guardarlo negli occhi. «Mi vergogno tantissimo di come mi sono comportata. Capisco come mai non abbia più voluto che fossimo amiche poi». Greenwood la fissava e aspettava. Ma non doveva essere lei a fargli delle domande? «Quando Seb è morto», spiegò, «Marianne è scomparsa. Non nel senso che è scappata, ma è sparita. Si è isolata. Io volevo darle il mio sostegno, ma lei non voleva vedermi. All’inizio lo capivo, voleva stare da sola con la sua famiglia, ma dopo un paio di settimane ho cominciato a sentirmi rifiutata. Lo so», gli diede una rapida occhiata in viso e distolse subito lo sguardo. «Ancora adesso mi sento mortificata a dirlo. Sono stata così egocentrica».

«Non è…».

«Comunque, un giorno sono andata a casa loro, anche se lei mi aveva detto di non farlo, e Jacqueline mi ha fatto entrare. Sono salita nella stanza di Mazz come una furia e le ho detto che voleva aiutarla, che ero sua amica, ma in tono un po’… aggressivo. Lei mi ha urlato contro, a ragione, dicendomi che non sarei dovuta piombare con la forza in casa sua, che Jacqueline non avrebbe dovuto lasciarmi entrare». Rowan scosse la testa. «Ero così ferita che ho perso le staffe». Si interruppe per un attimo e si guardò le mani. Negli ultimi giorni aveva ricominciato a mangiarsi le unghie e la punta dell’indice le pulsava, rossa e gonfia. «Non so se Marianne gliel’aveva detto, ma mia madre ha avuto un attacco di cuore a ventotto anni».

Lui aggrottò la fronte. «No, non lo sapevo».

«Aveva un problema congenito, ma non lo sapeva nessuno fino a quando è stato troppo tardi».

«È morta? Quanti anni aveva lei?»

«Diciotto mesi. È stato mio padre a crescermi, ma era spesso via per lavoro e quindi ho avuto tante baby-sitter e “zie”. I Glass erano diventati una famiglia surrogata per me e, quando Seb è morto, anche io ho sofferto, ma tutt’a un tratto mi sono sentita esclusa. Mi pareva di vivere un doppio lutto: prima per Seb e poi per tutti gli altri».

Greenwood pareva addolorato.

«Ma non voglio accampare scuse. Ho detto delle cose imperdonabili e lei… non mi ha perdonato».

«La morte del padre l’ha toccata molto nel profondo. Molto più di quanto ci si potesse aspettare».

«Sì, me l’ha detto Peter. Turk».

«Già, si preoccupava per Marianne. Per quanto si spronava a lavorare». La sua attenzione fu attirata da un movimento sotto al tavolo accanto: un carlino accucciato ai piedi del padrone, nascosto rispetto al bancone da una borsa scozzese. «Marianne lo diceva sempre di lei», disse, riprendendo il discorso. «Che la spronava, la sfidava. Diceva che lei la costringeva a pensare».

Rowan era scettica. «Era circondata da gente abituata a pensare».

«Gente di un altro tipo. I genitori e il fratello si occupavano di politica, di attualità, ma diceva che voi due parlavate di romanzi e di film. E di arte. Diceva che lei ne sapeva molto, soprattutto per una ragazzina».

«No. Mi interessa, ma non ne so molto. Era stata ingannata dalla prima impressione. Il giorno in cui ci siamo conosciute davvero, al di fuori della scuola, abbiamo parlato di Andrew Wyeth e io avevo appena letto un libro su di lui. Pura fortuna. Dopodiché, lo ammetto, ho studiato un po’».

«Diceva che lei lavorava con le immagini e lei invece con le parole».

«Una sviolinata».

«Scrive?»

«No. Be’, comincio delle cose, dei racconti, ma poi… Mi sto concentrando sul dottorato. Mi sembra più realistico».

Greenwood agitò le mani sul tavolo, come a dire “Forse, ma è tutto qui?”. In quel momento, il carlino si alzò e barcollò per l’artrite verso di loro. Andò dritto da Greenwood e gli sfregò la testa contro il polpaccio e lui abbassò una mano con fare furtivo per fargli le feste. «A un certo punto», disse a Rowan, «dovrò venire a prendere le mie cose, ma non ce la faccio ancora».

«No, capisco».

«Presto però dovrò passare dallo studio, volevo giusto chiamarla. Saul, il gallerista di New York, sta andando avanti con la mostra e gli ho detto che avrei buttato giù il testo per il catalogo. Ero sempre io a scriverlo, quindi…». Abbassò di colpo lo sguardo e Rowan si rese conto che stava piangendo. Per non metterlo in imbarazzo, allungò una mano verso il carlino, che però si ritrasse. Con la coda dell’occhio, vide Greenwood asciugarsi gli occhi con un tovagliolo di carta.

«Ho la chiave, ma la chiamerò prima. Vivo a Oxford, quindi non è…».

«Ah, davvero?»

«Sì». Parve stupito che lei fosse sorpresa.

«Visto che la galleria è a Londra, avevo dato per scontato che vivesse qui». A spingerla a quella conclusione era stata la sua presenza sui media, con le foto nella rubrica Londoner’s Diary e su «Metro».

«Mi sono trasferito quando ho rotto con mia moglie. Marianne stava a Oxford, certo, ma indipendentemente da quello mia figlia doveva iniziare il liceo al St Helena’s. L’idea era sempre stata che andasse in collegio ma, dopo il divorzio, abbiamo pensato che vivere con uno di noi le avrebbe dato maggiore stabilità».

Era interessante che fosse stato lui, e non la madre, a doversi trasferire. Ma Sophie Lawrence lavorava a Londra, a Channel 4, e forse aveva preferito non stare nella stessa città della nuova fiamma del marito.

Greenwood finì il caffè e guardò l’orologio sopra al bancone, senza pensare che lei poteva vederlo nello specchio. Rowan fu presa dal panico: se ne sarebbe andato e non gli aveva ancora chiesto niente.

«Marianne ha parlato di me di recente?».

Lui aggrottò la fronte. «No, non mi pare. Avrebbe dovuto? Come mai me lo chiede?». La guardò con rinnovato interesse e lei scosse la testa come per accantonare la domanda, irritata con sé stessa.

«È solo che sto male sapendo che ormai non avremo più la possibilità di sistemare le cose».

«Se può esserle di conforto, so che Jacqueline è contenta che siate di nuovo in contatto», le disse. «Ha detto che le è dispiaciuto quando le vostre strade si sono divise». Scostò il polsino e, in modo piuttosto teatrale, si finse sorpreso. «Temo di dover andare. Ho una riunione alle dodici e trenta».

«Scusi ancora per questa imboscata».

«Se le è stata d’aiuto, ne sono felice».

Sforzandosi di pensare a qualcosa, Rowan si infilò la giacca. Greenwood la lasciò passare per prima e le aprì la porta. Con tutta l’indifferenza possibile, gli disse: «Lei rappresenta Michael Cory?»

«Io? No. Magari, ma lui sta con Saul Hander. Io e Saul siamo in buoni rapporti, ecco perché Marianne avrà una mostra da lui, e io ho ospitato una piccola mostra fotografica di Cory più o meno diciotto mesi fa. Ma no, non lo rappresento».

«Marianne lo conosceva». Sentì il sangue rimbombarle nelle orecchie. Così diretta, così poco discreta. «Lui era al funerale».

«Già». La porta si richiuse alle loro spalle, isolandoli dal calore e dal confortevole frastuono all’interno. Una folata di vento scompigliò i capelli di Greenwood che, con voce più fredda, le chiese: «Come mai?»

«Parlavamo un sacco di lui all’epoca del ritratto di Hanna Ferrara», spiegò. «Ci affascinava l’idea che un quadro potesse avere un effetto del genere nel mondo reale, che potesse far succedere delle cose. Il crollo nervoso e, in pratica, la fine della sua carriera».

«Non è mai stata quella l’intenzione di Michael».

«No, ne sono sicura».

«Quindi?»

«Mi è sembrato interessante che Marianne avesse incontrato e conosciuto qualcuno di cui parlavamo da perfette estranee. Chissà se gliel’ha mai detto».

Greenwood la fissò. «È possibile», rispose. «Passavano molto tempo insieme, a parlare. Michael le stava facendo un ritratto».