Capitolo sei
Le avevano lasciato una chiave dai Dawson ma, suonando il loro campanello, Rowan notò una busta con il proprio nome appoggiata alla finestra del patio. La porta era aperta e, quando allungò una mano per prenderla, sentì che era pesante. Angela Dawson la informava con un biglietto che erano dovuti partire all’ultimo momento per qualche giorno per aiutare la figlia, che aveva appena avuto un bambino.
La strada era tranquilla e il rumore degli stivali di Rowan sulla ghiaia in giardino riecheggiò vistosamente. Salì i larghi gradini in pietra e si guardò alle spalle. Si sentiva un ladro. Con le finestre tutte buie, la casa incombeva minacciosa. Quel giorno non c’era bisogno della facciata pubblica.
Richiuse la porta e si ritrovò immersa nel silenzio, come sott’acqua. In quel luogo un tempo sempre pieno di rumore, era frastornante. Ferma con la borsa in mano, rimase in ascolto. All’inizio non udì nulla, ma poi le orecchie si abituarono e il silenzio prese vita. Sentì la voce di Adam che urlava: «Maz-zer, c’è Rowan!», seguita dal tonfo del passo sghembo e galoppante con cui lei scendeva. «Marianne, per l’amor del cielo, piantala di correre su quelle cavolo di scale!», giunse la voce di Jacqueline dalla cucina. Il telefono e poi il clic della porta di Seb che andava con il cordless nel suo ufficio. La nostalgia che provò Rowan era talmente intensa da causarle quasi un dolore fisico. Sono qui, avrebbe voluto dire. Sono tornata. Ricominciamo. E stavolta non mandiamo tutto a puttane.
Si lasciò travolgere dalle emozioni. Dopo dieci anni, era convinta che non sarebbe mai più tornata in quella casa. Tre giorni prima, piena di persone in lutto, le era sembrata diversa, ma adesso era come se avesse aperto la porta e fosse tornata indietro nel tempo. In autostrada, quella mattina, aveva avuto la sensazione di tornare alle origini. A Oxford, certo, dove era nata e cresciuta e aveva studiato all’università, ma in realtà aveva pensato a quella casa. Quando se n’era andata, aveva pianto. Se il principale motivo che aveva per badare alla casa era disinteressato, ora si rese conto della parte meno generosa di sé che aveva colto al volo l’opportunità di passare altro tempo dentro quelle mura.
Lasciò le chiavi nel piattino di porcellana e il tintinnio risuonò su per le scale come un allarme. Nell’aria c’era un forte odore di fumo ma, quando andò nel salotto, il camino era stato pulito e i mobili rimessi a posto. La stanza era quasi esattamente come una volta; Marianne non l’aveva cambiata. Davanti ai due divani bassi e al baule che fungeva da tavolino illuminati dalla pallida luce che entrava dalla finestra a golfo, Rowan ebbe l’impressione di guardare un palcoscenico allestito per uno spettacolo in cui due degli attori principali erano morti.
Tornò di corsa nell’ingresso e accese la lampada a forma di elefante. A parte una fattura della Thames Water e una lettera dell’HSBC, nella posta c’era solo pubblicità. Per strada passò una macchina ma, nel giro di pochi secondi, calò di nuovo il silenzio.
Scese in cucina con la borsa della spesa. L’epicentro della vita, che Jacqueline chiamava la sala macchine, occupava tutto il seminterrato. Sul davanti della casa c’erano due finestre a ghigliottina con, nel mezzo, un divano su cui leggere, ma sul retro c’erano delle porte scorrevoli a soffietto affacciate sul giardino che, anche in una giornata priva di sole come quella, rendevano la stanza luminosa. Il tavolo con il piano ricoperto di zinco poteva ospitare dieci persone. Rowan rivide Marianne con la salopette sporca di vernice accucciata con i piedi sulla sedia e Seb che glieli faceva abbassare mentre andava a prendere una bottiglia di vino. Il suo ufficio al piano di sopra era grande e con mobili costosi, ma Jacqueline diceva che lavorare in cucina le permetteva di restare nel mondo reale. Seduta a capotavola, sulla sua sedia in legno con i braccioli, era il navigatore della nave, colei che ne definiva la rotta.
Rowan aprì il frigorifero e vi trovò burro, uova e mezzo litro di latte. “R: qualcosina per cominciare”, diceva un Post-it sul contenitore del pane con la peculiare calligrafia squadrata di Jacqueline. All’interno c’era una pagnotta croccante avvolta nella carta assorbente. Tutti gli alimenti deperibili erano stati buttati, ma gli armadietti erano pieni di sacchetti di chicchi di caffè, riso e scatole di passata di pomodoro. Il cibo di Marianne, comprato ma mai mangiato.
Come primo passo per prendere possesso della casa come legittima inquilina, mise il bollitore sul fuoco. Di norma i ladri non si facevano mica il tè. In attesa che l’acqua bollisse, andò alla porta e guardò fuori. L’inverno teneva il giardino nella sua morsa. Il patio e le rose che si inerpicavano sul muro vicino al capanno erano ricoperti di brina. Stagliate contro il cielo privo di colore, le betulle ricordavano degli spettri.
La chiave della porta sul retro era dove era sempre stata, nella coccinella di argilla che Adam aveva fatto alle elementari. Sullo schienale di una sedia c’era il maglione che Jacqueline aveva usato per ripararsi la testa il giorno del funerale. Rowan se lo infilò e sentì un profumo di bergamotto.
Salì i gradini che portavano al prato e subito sentì i polmoni chiudersi per il freddo. Sotto ai piedi, il terreno era duro. Da venerdì, quando si era inzuppato di pioggia, la temperatura era rimasta sotto lo zero. Quando sarebbe risalita, si sarebbe allagato tutto.
Nell’avvicinarsi all’erba calpestata, provò la stessa strana attrazione di quel giorno, come se quel che era successo in quel punto avesse creato un campo di energia. La zona era larga poco più di un metro e lunga all’incirca due e mezzo, più o meno come un loculo al cimitero. Attenta a dove metteva i piedi, esaminò il terreno. La pioggia aveva appiattito la terra ma, all’estremità, si vedeva la brina sui cumuli di fango sollevato da scarpe o stivali con la suola spessa.
Con suo grande sollievo, non c’era altro da vedere. E comunque, che cosa si aspettava? Gli addetti a quelle cose ripulivano tutto una volta finito; non lasciavano nulla di importante o di angoscioso.
Ora che ci rifletteva, però, a sorprendere Rowan fu la distanza dalla casa: tre metri e mezzo o forse quattro, tutta la larghezza del patio e dell’aiuola. Guardò il tetto e provò a visualizzare la traiettoria. Certo, non ne sapeva molto delle leggi della fisica che riguardavano i corpi in caduta libera, ma pensava che, scivolando dal tetto, una persona sarebbe atterrata molto più vicino alla casa. Tuttavia, era ovvio che non ci fosse nulla di strano in tutto ciò: altrimenti, la polizia vi avrebbe fatto caso.
In passato, l’ultimo piano era riservato a Marianne e Adam. Per concederle lo spazio necessario per dipingere, Adam aveva lasciato alla sorella la stanza più grande sul retro della casa, con la luce naturale migliore. Già a quindici anni, lei la considerava più uno studio che una camera da letto.
Quando le tre porte, quelle delle loro stanze e quella del bagnetto che dividevano, erano chiuse, il pianerottolo era buio ma, in quel momento, nonostante la giornata volgesse al termine, era pieno di luce. Le porte però non erano aperte: non c’erano più.
A metà scala, Rowan esitò, in apprensione. Nell’aria c’era una tensione sempre maggiore, come se per tutto il tempo che era rimasta in cucina a bere il tè Marianne l’avesse aspettata nello studio. Forza, Rowan, che cosa stai facendo? Datti una mossa.
Arrivata in cima alla scala, notò che non erano sparite soltanto le porte, ma anche le stanze. Al loro posto c’era un unico, immenso spazio bianco interrotto solo da una piccola sezione della vecchia parete del bagno, probabilmente portante. Anche la moquette era sparita e i suoi stivali risuonarono in modo cupo sulle assi spoglie, come i passi di uno sconosciuto che entrava in un saloon. Era un cambiamento disorientante, violento, come se fosse esplosa una bomba. A parte la porzione di parete, del bagno restavano solo le tubature. La vasca e il vecchio lavabo erano stato tolti e sostituiti da un profondo abbeveratoio di porcellana sotto al quale erano ammucchiati barattoli di vetro sporchi pieni di pennelli. Ecco da cosa dipendeva l’odore di pittura a olio e trementina tipico di un cantiere navale.
Si trovava nel punto in cui Marianne aveva sistemato il cavalletto quando lei aveva posato nuda sullo sgabello, con la vecchia stufetta che sbuffava come uno sporcaccione al freddo. Chissà che cosa avrebbe pensato quel pomeriggio se avesse saputo che, nemmeno quindici anni più tardi, Marianne sarebbe morta. Che non le avrebbe parlato per un decennio. Era ridicolo, Marianne era un’artista professionista e ovviamente aveva bisogno di uno studio vero e proprio, eppure Rowan si sentiva ferita. La sua vecchia stanza era stata il fulcro della loro amicizia, il loro centro operativo, e quella trasformazione le pareva una cosa personale, come se Marianne avesse deciso di cancellare quel periodo e ricominciare con una grossa tela bianca. Quando l’aveva fatto? Rowan aveva passato anni a immaginarla in una stanza che non esisteva più?
Accompagnata dall’eco dei propri passi, si addentrò nello spazio. Oltre alle due grandi finestre a ghigliottina affacciate a nord da cui entrava la luce pura di cui parlava Marianne, ora c’erano delle aperture anche a est e a ovest. Con il passare delle ore, il sole girava lentamente intorno allo studio, fino a tramontare dietro l’abbaino di Adam.
Rowan scrutò un tavolo di pino ricoperto di bottiglie di plastica e bombolette spray, tubetti di tempera in alluminio accartocciati, un barattolo pieno di penne e matite, una pila di album da disegno e un panno ripiegato indurito dalla pittura. Sulla parete accanto era appeso un enorme pannello di sughero zeppo di schizzi e cartoline, appunti presi a mano, pagine di giornale, un campione di un prato in stile art déco liberty. Marianne aveva sempre avuto un pannello simile, un ricettacolo per qualsiasi cosa le facesse venire un’idea, una scintilla di ispirazione. Lei lo chiamava il suo cervello esterno.
Rowan andò nella zona di Adam e si bloccò subito.
Addossati ai tre muri c’erano dei quadri di ragazze, giovani. Erano dieci o dodici, in diverse pose, tutte nude o quasi. Trovò l’interruttore e la luce dolce e naturale lasciò spazio a quella inquisitoria e artificiale.
Le tele erano tutte della stessa misura, in cornici alte quasi due metri e larghe poco più di uno e tutte appoggiate alla parete con la stessa angolazione. A colpo d’occhio, le prime due parevano nudi tradizionali, ma non ci voleva molto per capire che l’intenzione di Marianne era più complicata e più angosciosa.
I quadri erano sistemati in sequenza, a cominciare dalla finestra di Adam. Il primo ritraeva una ragazza forse un tantino troppo magra, ma comunque in salute. Era seduta su una vecchia sedia di legno, di quelle che si usavano a scuola, con le gambe incrociate e le braccia conserte sul seno minuto. Nella mano pallida dalle unghie con lo smalto blu brillantinato aveva una mela lucida e rossa, come quella che Eva aveva offerto a Adamo. A stonare era il sorriso della giovane che, seppur carino a una prima occhiata, poco per volta si rivelava subdolo e dissimulatore.
Al terzo quadro, era ormai chiaro che il vero soggetto di Marianne fosse l’anoressia. Con il progredire della serie, le ragazze erano sempre più magre. La quinta era una rossa con uno chignon sfatto in piedi davanti a uno specchio, con il riflesso nascosto all’osservatore. Indossava delle mutandine bianche di cotone, di quelle in vendita a pacchi di cinque da Marks & Spencer, così comuni che davano al quadro una grande intensità. Aveva i fianchi larghi appena abbastanza perché non le cadessero; la colonna vertebrale sporgeva sotto la pelle come una fila di perle.
L’ultima ragazza era sdraiata su un fianco su un bel pavimento laccato e, con le braccia emaciate, cingeva le ginocchia addossate al petto. Sulle guance e sugli avambracci aveva una leggera peluria, tentativo da parte del corpo di tenersi al caldo. Con il proseguire della serie, la palette era cambiata e i gialli e i rosa dei primi quadri lasciavano spazio a una gamma sempre più tetra di blu, grigi e bianchi. Dove aveva perso i capelli, la testa della ragazza era di un macabro bianco avorio, ma per la bocca moscia priva di denti Marianne aveva usato il nero e un rosso impetuoso.
A diminuire non era solo il peso delle ragazze, ma anche le loro dimensioni. Le prime due erano a grandezza naturale, sul metro e sessantacinque, ma quella nel terzo quadro era più piccola, in altezza e nelle proporzioni in generale. La sesta era grande a malapena come tre quarti di un adulto o di un adolescente normale e Rowan si rese conto di aver fatto caso al pavimento nell’ultimo quadro perché occupava quasi tutta la tela: in piedi, la donna accucciata in posizione fetale sarebbe stata al massimo una settantina di centimetri.
Nei lavori di Marianne c’era spesso stata una componente politica, ma quei quadri pulsavano di una rabbia nuova. Che cosa sta accadendo a queste ragazze? Ecco che cosa volevano sapere. Perché? Perché si costringono a morire di fame?
Si stavano uccidendo, perché la morte era in ogni tela. La prima vi accennava soltanto, con la fine dell’Eden, ma si faceva sempre più incombente a mano a mano che si proseguiva nella serie, tanto che nell’ultimo quadro era impossibile non pensare a carestie e campi di concentramento. L’ultima donna era prossima alla morte, non c’era dubbio, ma per certi versi, pensò Rowan, la impersonava anche, era lei stessa la morte, con quell’orrenda bocca scorticata, quelle fauci. Ecco la sofferenza, diceva il quadro, ecco il dolore. Ecco la fine di ogni speranza.
Salire sul tetto era stata un’idea di Rowan. L’estate in cui avevano finito il liceo, c’era stata un’ondata di calore che era durata tre settimane, con temperature sempre intorno ai trenta gradi e il cielo limpido e terso. Loro passavano gran parte del tempo distese su un telo sul prato ma, alle quattro di pomeriggio, il sole spariva dietro il timpano della casa e il giardino sprofondava nell’ombra. Dopo una settimana, Rowan aveva cominciato a guardare la terrazza sul tetto sopra la stanza di Marianne, chiedendosi se lassù il sole restasse più a lungo. Alla fine, l’aveva convinta ad andare a scoprirlo.
La prima volta, avevano spostato un comò sotto il lucernario e si erano tirate su ma, non appena avevano visto il panorama, erano andate da Homebase e avevano comprato la scala doppia che adesso era appoggiata alla parete accanto al lavello.
Con le braccia tese sopra la testa, Rowan aprì il lucernario. Con la scala che ondeggiava mentre saliva cauta fino all’ultimo gradino, si issò con le mani ai lati dell’apertura. Nell’uscire, avvertì un’eco fisica: Marianne doveva aver fatto esattamente lo stesso la sera in cui era morta.
La luce del giorno stava svanendo in fretta e il sole era quasi del tutto tramontato. Si allontanò dal lucernario e aspettò che i suoi occhi si abituassero. Sul retro delle case, i giardini erano bui e i rami degli alberi si stagliavano contro il cielo come sagome di corallo nero. Nei condomini a tre piani in Benson Close, il vicolo cieco dietro la casa, le finestre erano arancioni come tuorli d’uovo.
Fyfield Road era l’ultima strada prima del fiume Cherwell e, d’estate, la vista dalla terrazza sul retro della casa spaziava, in un bagliore azzurro e verde, oltre il Lady Margaret Hall e i campi da gioco della Dragon School fino ai prati sull’altro lato del fiume e a Marston. Ora, nella densa luce del tramonto, Rowan scorse il John Radcliffe Hospital che luccicava in cima a Headington Hill.
L’estate in cui avevano finito il liceo, la band era venuta spesso da loro. Il primo giorno in cui si erano superati i trenta gradi, Turk si era presentato all’ora di pranzo con una piscina gonfiabile. Erano stati a mollo a turno per rinfrescarsi e poi, quando il sole in giardino era sparito, erano saliti sul tetto. Si erano sdraiati tutti sui teli mentre Marianne si era seduta contro il muretto vicino al lucernario, addossata al comignolo, a disegnare i tetti.
«Dai, Mazz», le aveva detto Turk, «non fare l’asociale». Si era sdraiato su un fianco, tenendo d’occhio l’apertura dei boxer. L’illuminazione della piscina gli era venuta per strada e non aveva avuto voglia di tornare a casa a prendersi un costume. «C’è spazio anche per te sul mio telo».
«Anche sul mio». Il nuovo ragazzo le aveva rivolto un sorriso sfavillante. Era uno dei cinque potenziali bassisti che avevano risposto all’annuncio del gruppo sul «Daily Information» e, stando a Josh, era promettente, ecco perché quel pomeriggio era con loro. Tuttavia, con gli occhi marroni e i capelli biondi, era anche carino e, a giudicare dall’occhiata letale di Turk, Rowan aveva capito che si era appena dato il benservito da solo.
«Ti sfido, Marianne», aveva aggiunto Turk, meno disinvolto. «Non c’è niente di cui aver paura. Non siamo neanche lontanamente vicino al bordo. Su, che fine hanno fatto le tue palle?».
Lei aveva continuato a disegnare, senza nemmeno alzare lo sguardo. «Io non ho bisogno di tenerle ai quattro venti per far vedere a tutti che ce le ho».
Rowan andò sul retro della casa fino a vedere il patio. Era a una cinquantina di centimetri dal bordo. Scorse la chiazza di fango nel prato proprio sotto di sé e sentì il cuore battere forte. Era nel punto da cui doveva essere caduta Marianne.
D’un tratto, il bordo del tetto prese vita. Proprio come l’erba calpestata, sviluppò un campo di forza che la tirava e la spingeva avanti. Il salto era vertiginoso, rivoltante, quasi irresistibile. No… no. Chiamando a raccolta tutta la propria forza di volontà, fece un gran passo indietro e poi, come se qualcuno le avesse lasciato le mani senza preavviso, altri più corti e incerti.
Scossa, tornò di corsa verso il lucernario. Sarebbe stato così semplice. Questione di un secondo, neanche. Una frazione di secondo per decidere – Sì! – e sarebbe finito tutto. Non aveva mai avuto problemi con l’altezza; non aveva mai provato nulla di simile in vita sua. Ecco di che cosa parlava Marianne.
Alle prese con il cavatappi, a Rowan tremavano le mani. Il fornello indicava le 5:47 ma le sembrava mezzanotte e, più si faceva buio, più la casa diventava grande e strana. Tornata di sotto, aveva pensato a tutte le stanze vuote dietro le porte chiuse, a tutti i posti in cui qualcuno, un ladro o un intruso, potesse nascondersi. Visto che i Dawson erano via, anche l’altro lato della casa era vuoto.
Se voleva farcela però, non poteva rintanarsi impaurita in cucina. Riempì un bicchiere e tornò al primo piano, dove si fermò davanti a una porta chiusa. Bevve un lungo sorso, girò la maniglia ed entrò.
Accese la luce e rimase scioccata. Considerando i pochi cambiamenti nel resto della casa, aveva immaginato che Marianne l’avrebbe lasciato com’era, ma quella era un’altra cosa. Era come un quadro vivente, la stanza di un museo in cui tutto era conservato come in un preciso momento del tempo, come sulla Mary Celeste. Se Seb avesse mai fatto ritorno dal mondo dei morti per lavorare, il suo studio sarebbe stato pronto, con la sedia ergonomica simile a uno scorpione alla scrivania e l’allora d’avanguardia ma ormai geriatrico iMac G4 dalla base semisferica attaccato alla corrente. Sulla destra del tappetino del mouse c’era un’agenda settimanale aperta, con una penna pronta tra le pagine. In alto a destra, in lettere dorate si leggeva “2004”.
Sulla parete di fronte, c’erano gli scaffali su misura alti fino al soffitto pieni di copie della Leonessa che amava il gorilla e dei due seguiti. In piedi là davanti, Seb era stato fotografato innumerevoli volte per riviste e giornali, britannici e stranieri, mentre esponeva la sua teoria sulla selezione del partner nel mondo animale e quello che l’uomo poteva impararne. Il più delle volte, come aveva notato Jacqueline, a intervistarlo erano state giornaliste di bell’aspetto.
«L’hanno tradotto in quaranta lingue», le aveva detto Marianne mentre cercavano di decifrare il suo nome negli alfabeti diversi. «Quello è in ebraico. Finora ha venduto nove milioni di copie in tutto il mondo. È strano, non ti pare? Magari in questo stesso momento, da qualche parte in Corea del Sud, c’è qualcuno che sta leggendo il libro di papà».
Sullo scaffale c’era anche una fotografia che Rowan ricordava. La cornice non era per nulla ossidata, quindi doveva essere stata lucidata di recente. La prese e scrutò Seb e Jacqueline alla festa per la vendita della milionesima copia del libro in Inghilterra. Era come una foto del matrimonio, con loro due accanto a una gigantesca torta glassata che riproduceva la copertina del libro. Seb brandiva un coltello, pronto a tagliarla a pezzi. Sembravano giovanissimi, e lo erano davvero. Seb aveva poco più di trent’anni quando aveva scritto il primo libro, l’età che aveva adesso Rowan. Lo guardò più attentamente. La foto risaliva alla fine degli anni Ottanta ma, a parte i capelli un po’ troppo voluminosi sul davanti per i gusti attuali, reggeva bene la prova del tempo. Seb indossava un classico blazer nero, senza ridicole spalline, e una semplice camicia in chambray azzurro chiaro, con il primo bottone slacciato. Forse aveva scelto di vestirsi in quel modo pensando ai posteri; ne sarebbe stato capacissimo. Rideva, raggiante perché era giovane, di successo e acclamato, sicuro del proprio potere, e teneva la mano libera sul fianco di Jacqueline. Rowan si affrettò a rimettere a posto la foto che, d’un tratto, le parve profetica. Seb aveva rivelato un vero e proprio talento per fare a pezzi le cose.