Capitolo diciotto
Camminò fino a quando poté ancora vederlo, poi Rowan cominciò a correre. Lungo il viale verso il fiume, con la neve bagnata che le sferzava il viso e i piedi che strisciavano sulla ghiaia fangosa. Sotto agli alberi era buio e in una casa galleggiante sulla riva opposta si accesero le luci, perché la sera era arrivata troppo presto per via delle nuvole basse. Il largo viale lungo il fiume era deserto.
In fondo, dove si distaccava dal Tamigi, un ripido ponte di legno conduceva alle rimesse dell’università. La riva era deserta anche in quel punto, le baracche scure tra la striscia grigia del fiume e gli alberi spogli alle loro spalle erano chiuse a chiave. Raggiunta quella con più piani di balconi, salì le scale di cemento sul muro esterno e trovò un punto riparato al primo piano. Rannicchiata in un angolo, cinse le ginocchia con tale forza che sentì pulsare il sangue nelle braccia. Cory lo sapeva. Prima, mentre correva, non era riuscita a pensare ad altro, una tale consapevolezza che sovrastava qualsiasi altro pensiero o interpretazione. Lo sapeva. Lo sapeva.
E gliel’aveva detto Marianne, più o meno. Nella mente di Rowan comparve l’immagine del viso di Jacqueline al crematorio e sentì tornare la rabbia. Tipico di Marianne: così preoccupata di come si sentiva lei, del suo senso di colpa apparentemente insopportabile, che non aveva pensato alle possibili conseguenze per gli altri.
È per questo che dovevi parlarmi, Marianne? Per dirmi che non ce la facevi più? Che non riuscivi più a conviverci? Cazzo! Ma almeno hai pensato a cosa avrebbe significato per tua madre?
Ma che cosa gli aveva detto di preciso Marianne? Quanto sapeva Cory come punto di partenza? Rowan inspirò e cercò di riflettere con lucidità. Se lui pensava soltanto che lei l’avesse fatto, non doveva essere molto. Il poco conforto che le diede quell’idea venne però immediatamente annullato dal ricordo della newyorchese in là con gli anni, dell’implacabilità con cui, a suo dire, lui aveva indagato i segreti della sua psiche. Sempre più a fondo, come Teseo nel labirinto.
Era per quello che Marianne si era buttata? Forse non avrebbe voluto dire nulla – e perché avrebbe dovuto, così all’improvviso, dopo tanti anni? – ma lui l’aveva costretta. Era per quello che le aveva mandato il biglietto? Per quello era spaventata e aveva bisogno dell’aiuto di Rowan? Si sentì male al pensiero dei cinque giorni che ci aveva messo per arrivare fino a lei.
Un ticchettio la distolse dai suoi pensieri. La neve era diventata fanghiglia e le falde che cadevano oltre il riparo del balcone sovrastante, a pochi centimetri dai suoi piedi, erano così bagnate che si scioglievano appena toccavano terra. Dal cemento, il freddo le penetrava attraverso i jeans e il cappotto di lana fin nelle ossa.
Qual era il vero motivo per cui Cory lo stava facendo? Per il suo ritratto, per una sciocchezza fasulla sulla “verità” di una persona? Rowan avvertì l’ennesima ondata di rabbia. Che stronzata. Era una questione di pubblicità, di fama. La sua fama. La storia di Hanna Ferrara non era una sfortunata evoluzione degli eventi; non serviva un grande cervello per capire che ritrarre una delle donne più famose del mondo con un pene lungo venti centimetri avrebbe attirato l’attenzione dei media. No, ma sarebbe servita una grande mente per escogitare il modo di fare di meglio, alzare la posta in gioco, mantenere vivo l’interesse dei giornali. Per esempio rivelare che una giovane artista di alto profilo era un’assassina; quello sì che poteva funzionare.
Rimase troppo a lungo al fiume e, quando arrivò al cancello del parco, lo trovò chiuso per la notte. Alle nove d’estate, diceva il cartello, al tramonto d’inverno. L’inferriata della Christ Church e il cancello tra il Corpus Christi e il Merton erano troppo alti per essere scavalcati, quindi non ebbe altra scelta se non tornare fino al fiume al buio e vedere se si potesse ancora uscire da dietro il pub Head of the River. Il periodo in cui studiava, insieme a tre o quattro compagni del Brasenose, tra cui Theo, aveva trovato un passaggio quando si erano imbucati al ballo del Corpus Christi, ma allora il cielo era più chiaro, era una notte d’estate, e il retro del pub era illuminato molto meglio. Già mezzo ubriachi, avevano affrontato quell’avventura tra le risate, mentre adesso era da sola, bagnata e tremava per il freddo. Nei dieci anni che erano passati, il boschetto di sambuchi e rovi in cui era immersa l’inferriata era cresciuto fino a diventare pressoché impenetrabile e, facendosi strada a fatica, si tagliò le mani e la guancia sinistra.
Il nevischio era diventato pioggia e, alla fine, pioviggine e, sotto i lampioni sul Folly Bridge, si era formata una foschia arancione. Il marciapiede era nero. Mentre risaliva St Aldate’s oltre la stazione di polizia, si sentì sopraffare dalla stanchezza. A piedi, ci sarebbe voluta almeno un’altra mezz’ora per arrivare in Fyfield Road.
Scrutò oltre la spalla e, quasi come se l’avesse fatto comparire lei, un taxi con la luce accesa svoltò l’angolo. Con i fianchi doloranti, si sistemò sul sedile posteriore e disse l’indirizzo all’autista.
Con la testa appoggiata al finestrino screziato dalla pioggia, guardò scorrere la città, i negozi che chiudevano, i pub che si animavano. La sua peggior paura si era realizzata ma, se non altro, cercò di consolarsi, la situazione era più precisa. Adesso almeno aveva un’idea di ciò che doveva affrontare.
Non appena rientrò, accese il fuoco ma, anche dopo un bagno e un bel bicchiere di vino, non riuscì a riscaldarsi. Provò a imburrare una fetta di pane tostato, ma le tremavano così tanto le mani che il coltello le cadde e rimbalzò sul pavimento della cucina.
Alla fine, poco dopo le dieci, riempì le due borse dell’acqua calda che stavano nell’armadio della biancheria, prese una trapunta in più e si infilò a letto. Spense la luce ma, quasi all’istante, la sua mente si riempì di pensieri che si trasformarono in incubi terrificanti, quindi riaccese la lampada e si mise a leggere.
Due ore dopo stava ancora leggendo quando, fuori dalla finestra, udì il rumore di qualcosa che sfregava per terra, qualcosa che strisciava. Si irrigidì all’istante. Con il passare dei secondi, sentì aumentare la pressione alle orecchie per l’intensità con cui ascoltava. Le assi del pavimento che scricchiolavano mentre la casa si raffreddava, il calorifero che sferragliava ma, per il resto, regnava il silenzio. O se l’era immaginato o aveva sentito male. Dopotutto, era stata una giornata estrema e lei era stanchissima. Rimase in ascolto ancora per qualche secondo, poi si costrinse a rilassare le spalle.
Questa volta non fu qualcosa che strisciava ma che cigolava, come gomma sulla pietra bagnata. Una scarpa. Da ginnastica.
Le si rizzarono i peli sulle braccia. Che cosa doveva fare? La luce era accesa, non poteva guardare dalla finestra senza rischiare di essere vista, ma spegnendola avrebbe attirato l’attenzione.
Il più silenziosamente possibile, scostò le coperte. La vestaglia di Marianne era appesa dietro la porta; se la infilò e mise il telefono nella tasca. La maniglia della porta cigolò. Sul pianerottolo, prese uno dei grossi candelieri d’ottone dal tavolo vicino all’ufficio di Seb e scese lentamente di sotto.
Con una mano contro la parete, andò in cucina. Arrivata in fondo alle scale, vide che dall’esterno filtrava una debole luce, per cui era più facile vederci. Tenendosi vicino all’ombra degli armadi, attraversò la stanza e si sporse per guardare dalla finestra sopra al lavandino.
Niente. Il prato era vuoto. Allungò il collo per guardare a destra e anche il patio lo era. Sbirciò tra le ombre intorno al capanno e in fondo alla proprietà, vicino al muro oltre le betulle. Niente. Forse se n’era andato nel tempo che le ci era voluto per scendere?
Smise di trattenere il respiro, ma si raggelò di nuovo all’istante. C’era davvero qualcosa. Là, dietro il rododendro, alla fine dell’aiuola sopra al patio, appena visibile, c’era una… una sagoma nera, un’assenza di luce. A mano a mano che la fissava, cominciò a prendere forma: un gomito, un ginocchio. Un cappuccio.
Strinse più forte il candeliere. La polizia. Prese il telefono, ma si bloccò. Cory sapeva.
La sagoma era sempre più definita. L’uomo non guardava verso la casa ma dall’altra parte; lei gli vedeva una spalla, la schiena. Non era accovacciato ma seduto sulle pietre che delimitavano l’aiuola, a pochi metri da dove era caduta Marianne.
Per qualche secondo, rimasero entrambi immobili. Chissà se sapeva che lei lo stava guardando. Chissà se pensava di essere nascosto, in quel punto, dietro al cespuglio. Poi però, si rese conto di un’altra cosa. Cory era grosso, alto e largo. Era difficile esserne sicuri per via dell’oscurità e del palinsesto di ombre intorno al cespuglio, ma la sagoma pareva più esile rispetto a lui.
Senza fare rumore, si allontanò dalla finestra e salì le scale. Alla finestrella sul pianerottolo, guardò fuori. L’uomo era ancora là.
Arrivata al primo piano, aprì la porta dello studio di Seb e vi entrò, sempre più tesa a ogni scricchiolio delle vecchie assi. I dorsi dei libri brillavano nella penombra. Andò alla finestra.
Era ancora là. Alzò una mano e trovò il gancio in alto della finestra a ghigliottina. Si aspettava un cigolio, per l’attrito dell’ottone, invece si mosse senza problemi, come se la finestra fosse stata aperta di recente. Si piegò, afferrò le maniglie e, con tutta la forza che aveva, spinse la finestra, che scivolò nelle guide senza la minima resistenza e si aprì fino in alto.
Lo vide alzarsi e fare uno scatto di lato, restando in piedi a fatica. Un lampo bianco nel cappuccio, le mani bianche ma, con la testa chinata per nascondere il viso, schizzò all’ombra del capanno.
«Ehi!», strillò Rowan, sporgendosi, ma per tutta risposta sentì soltanto il rumore attutito delle scarpe da ginnastica sul vialetto lastricato e poi sulla ghiaia. Attraversò di corsa il pianerottolo fino alla stanza di Seb e Jacqueline, ma la loro finestra era dura e le ci vollero tre tentativi e tutta la forza della parte superiore del corpo per spostare il vetro più in basso. Ecco – con un suono stridulo, strisciò verso l’alto proprio mentre la sagoma incappucciata svoltava alla fine del muro e scompariva alla vista. Restò ad ascoltare i passi sul marciapiede fino a quando cessarono, ormai certa di avere ragione: Cory era troppo grosso, e troppo pesante, per avere un passo così leggero.