Capitolo ventisei

Cory aveva strappato un foglio dal suo blocco e, mentre parlavano, con una matita che aveva nella tasca della felpa disegnò la pila di libri accanto al computer. Quei momenti di concentrazione offrirono un certo sollievo a Rowan, una tregua: si sentiva svuotata, come se il suo corpo, dopo aver custodito il segreto per così tanti anni, l’avesse inglobato al suo interno e adesso non riuscisse più a recuperare la sua forma.

Perlopiù, spiegò Cory, si era concentrato sullo scoprire che cosa fosse successo in passato, quindi Rowan gli raccontò quel poco che era riuscita a sapere delle ultime settimane di Marianne. «Ho continuato a girare e girare», disse. «Ho provato tutto quello che mi è venuto in mente, ma ne so ancora poco come quando sono arrivata. Anzi, forse meno. Però dev’esserle successo qualcosa, ne sono sicura».

«E il tizio in giardino, quello che pensavi fossi io?»

«Non l’ho più visto. Forse l’ho spaventato. Adesso è rimasto solo il tipo losco nel condominio. Anche se magari sono la stessa persona. Non ho ancora scartato questa possibilità».

«Chi?». Cory si addossò allo schienale della sedia, confuso. «Di che cosa stai parlando?».

Rowan gli raccontò dell’uomo alla finestra. «È sempre là, in piedi, a guardare fuori. L’ho visto anche alle tre di notte».

«Quindi chi è?»

«Non ne ho idea. Pensavo potessi essere tu. Sono anche andata a cercare la tua macchina in quella via».

«Non l’hai affrontato? Non hai bussato alla porta?»

«No. Se davvero fossi stato tu, volevo prima sapere che cosa stavi facendo. Ma se non fossi stato tu… ammetto che ho avuto paura».

«Dovremmo andare da lui».

«Non lo so. E se fosse pericoloso?»

«Adesso siamo in due. Tu c’eri andata da sola».

«Quando pensavo fossi tu. E stavo solo…».

«Io, il guardone?», disse lui, alzando lo sguardo. «L’uomo che spinge le donne a suicidarsi?»

«Sto solo dicendo che non sappiamo in che cosa ci stiamo cacciando». Si concesse un sospiro, per alleviare la tensione al petto. «E se fosse la polizia?».

Lui scosse la testa, per accantonare l’idea. «E che cosa ci farebbe là? Sprecherebbe il budget per sorvegliare ventiquattr’ore su ventiquattro la casa di una donna che ha avuto un incidente?»

«Lo so, però…».

«Lui ne era sicuro, vero, il tuo amico poliziotto? Marianne era da sola. Non c’erano altre orme».

Rowan represse l’impulso infantile di negare che Theo fosse un suo amico.

Aveva il telefono in grembo e, mentre Cory aggiungeva al disegno le scritte sulla guida di Harvington Hall, lei digitò il PIN e controllò i messaggi. Niente. Rifletté un attimo. «Michael». Lui alzò lo sguardo, sorpreso. «Che c’è?», gli chiese.

«È la prima volta che mi chiami con il mio nome».

«Oh. Senti, mi chiedevo se per caso hai parlato con Adam».

«No, ma ovviamente vorrei farlo. Perché? Pensi che lui sappia qualcosa?»

«No. No, non credo».

«Allora…».

Rowan si sentì arrossire. «È un mio amico. Non gli parlo da qualche giorno e mi chiedevo soltanto se tu l’avessi sentito. Sta soffrendo, quindi…».

Ma Cory non la stava più ascoltando. Sopra il muro in fondo al giardino, nell’appartamento si era accesa la luce.

Cory aspettò mentre Rowan chiudeva a chiave la porta d’ingresso, poi scesero i gradini insieme. Girato l’angolo e imboccata la parte di Norham Road che costeggiava il campo da gioco della Dragon School, c’era un centinaio di metri senza case né lampioni e, sebbene fosse presto, nemmeno le sei di sera, sotto gli alberi la strada era buia.

Cory camminava in fretta, anche se, grazie a Dio, non come il giorno in cui l’aveva costretta a corrergli dietro nel parco. Quindi adesso lavoravano insieme, almeno secondo lui? Riusciva a fidarsi di lei, dopo quello che gli aveva rivelato? E lei poteva fidarsi di lui? Frugare nella sua stanza a quel modo… Quando era salita di sopra, aveva trovato il caos, con i vestiti in un grande mucchio e i libri aperti sul pavimento dopo essere stati scossi dal dorso. E poi la porta. L’intero montante andava sostituito. Prima di uscire, avevano improvvisato una barriera facendo passare un’asse nello schienale di una sedia e incastrandolo contro i mobili della cucina ma, fino a quando lo stipite non fosse stato riparato, avrebbe dovuto dormire così.

Cory l’aveva messa all’angolo e ormai non le restava altra scelta se non stare al suo gioco e pregare che non mentisse sul fatto di tenere la bocca chiusa.

Forse, però, sarebbe comunque stata costretta ad allearsi con lui, seriamente. Non avrebbe potuto rischiare di andare da sola al condominio, rendendosi fisicamente vulnerabile. Cercò di ignorare la vocina che la metteva in guardia sul fatto che, andandoci con Cory, forse si stava rendendo ancora più vulnerabile.

Svoltarono in Benson Place. Sul ciglio della strada i parcheggi erano vuoti; gran parte delle finestre erano buie e i residenti ancora al lavoro. La luce dei lampioni illuminava a chiazze i prati curati. Rowan indicò la seconda porta.

Cory premette il citofono e aspettarono. Rowan sentì lo stomaco chiudersi per la tensione. Lui era in casa, anche la finestra affacciata su questo lato della strada era illuminata, allora perché non rispondeva? Erano nascosti alla vista dal porticato, ma forse li aveva visti arrivare? D’un tratto, si chiese se avesse visto Cory introdursi da lei. In quel caso, avrebbe saputo che la porta era rotta e non più sicura.

Cory suonò di nuovo. Dopo qualche secondo, il citofono gracchiò. «Sì?», chiese qualcuno. Si guardarono. Era una voce femminile, cauta ma non scortese. Forse aveva sbagliato bottone? No, l’aveva visto premere il numero tre.

«Parla tu», mormorò Cory. Si scambiarono di posto e lei si sporse verso il microfono. «Salve», disse, tenendo premuto il bottone. «Mi chiamo Rowan. Mi chiedevo se potessimo parlare un attimo».

Un altro gracchio. «Posso chiederle a che riguardo?».

Guardò Cory e premette ancora il bottone. «Non vendo niente», spiegò. «Glielo giuro». Si sforzò di mostrarsi umana. «Volevo chiederle di una mia vecchia amica».

«Chi?». Com’era prevedibile, la voce si era fatta più circospetta.

Quando guardò Cory, lui annuì. «Marianne Glass».

«Marianne? Oh». Una pausa. «Certo. Salga». Ci fu un ronzio e la serratura della porta scattò.

Sulle scale comuni, il passato meno benestante dell’edificio veniva a galla, evidente nel linoleum grigio con le macchie larghe come un centesimo in rilievo e gli interruttori della luce a tempo che ricordarono a Rowan il suo ingresso a Londra. Le porte degli appartamenti erano brutte, semplici rettangoli di legno impiallacciato con il numero in ottone da quattro soldi come unico dettaglio, avvitato sopra la sospettosa bolla di vetro dello spioncino.

Cory rimase in disparte mentre Rowan bussò. Lo spioncino si fece più scuro, poi tornò trasparente e sentirono togliere il chiavistello. Un secondo rumore la fece di nuovo sentire a disagio: chi aveva bisogno di due chiavistelli in quell’appartato quartiere borghese? Si ricompose in viso proprio mentre la porta si apriva, bloccata però dalla catenella. Attraverso lo spiraglio, sbucarono due grandi occhi marroni sul volto ansioso di una donna sui sessant’anni.

Vedendo Rowan, la donna tolse la catenella e la lasciò ricadere sferragliando contro lo stipite. Mentre apriva del tutto la porta però, Cory fece un passo avanti e lei ebbe un sussulto. Rowan si rese conto dell’impressione che faceva a chi non lo conosceva, grande e grosso com’era e con la testa rasata.

«Mi dispiace», disse. «Avrei dovuto dirle che c’era un amico con me. Non mi andava di venire da sola. Questo è Michael. È un artista, un pittore. Anche lui era amico di Marianne».

«Oh».

«Piacere di conoscerla», intervenne lui. «Le siamo grati di voler parlare con noi. Cercheremo di non rubarle troppo tempo».

La donna si accorse del suo accento. «Non siete poliziotti quindi?»

«No». Una risposta che conteneva una domanda.

«Sono venuti in tutti gli appartamenti, quando è morta. Per chiedere se qualcuno avesse visto qualcosa di sospetto. Non che pensassero ci fosse qualcosa del genere…», si affrettò ad aggiungere.

«No, certo che no». Rowan si sforzò di essere rassicurante.

L’ingresso era stretto e l’unico mobile era un cassettone di pino con sopra un vaso di fiori secchi; per terra, un tappetino con le nappe e delle rose rosa stampate.

«Chi vi ha detto che la conoscevamo?», chiese la donna, guardando Cory oltre la spalla.

«Nessuno». Rowan gli lanciò un’occhiata – conoscevamo? – ma lui aveva un’espressione attentamente neutra. «Possiamo entrare?».

La donna ebbe un attimo di esitazione, poi si scansò. L’arco alle sue spalle conduceva direttamente in salotto che, come Rowan già sapeva, occupava l’appartamento per quasi tutta la larghezza. Sulla destra, era stato ricavato uno spazio per una striminzita cucina ma il tavolo, per quattro, era in fondo alla sala. Sul davanti, disposti in modo da ricevere tutta la luce possibile dalle larghe finestre dal telaio di metallo, c’erano il divano e due poltrone coordinate. La stanza era immacolata e, dall’odore di Vetril nell’aria, inconfondibile, Rowan capì che il tavolino in vetro e la vetrinetta erano stati puliti di recente. Tuttavia, nonostante le fodere a fiori e i cuscini con stampe simili ad arazzi, lo scarno arredamento lasciava intendere che i soldi erano pochi e spesi con attenzione. Alle pareti c’erano solo due quadretti di paesaggi autunnali e la televisione in un angolo era grande quanto un monitor.

«Prego, sedetevi», disse la donna.

Ormai fuori era buio pesto, ma le tende, in un terribile finto taffetà lucido con una merlatura essenziale in alto, erano ancora aperte e, sedendosi, Rowan lanciò un’occhiata oltre i giardini verso il retro della casa. Prima di uscire avevano acceso la luce nello studio e riusciva a vedere fino alla parete del vecchio bagno, circa un terzo della superficie totale.

La donna si appollaiò sul bordo del divano, come se potesse scappare da un momento all’altro.

«Scusi, non sappiamo come si chiama», esordì Rowan.

«Sarah. Johnson».

«Io sono Rowan Winter e lui è Michael Cory». Le sorrise. Se il nome di Cory significava qualcosa per quella donna, dal viso non era trapelato. «Ci scusi ancora per essere venuti così. Al momento abito in casa di Marianne, per tenerla d’occhio intanto che…».

«Oh». Il viso della donna si illuminò di colpo. «Allora è lei che vede».

«Mi scusi?»

«Mio figlio. Martin. Ha detto di aver visto una donna, giovane, con i capelli castani. Per un attimo ho pensato…». Chiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore, scuotendo la testa. «Oh, donna di poca fede».

«Mi scusi», ripeté Rowan. «Non capisco».

I modi di Sarah Johnson erano vistosamente cambiati; l’apprensione era stata sostituita dal sollievo. «Martin mi ha detto di aver visto una donna in casa di Marianne. Ho pensato che cercasse di dirmi che vedeva il suo fantasma. Oppure che si era dimenticato che era morta».

Rowan incrociò lo sguardo di Cory.

«Lasciate che vi spieghi». La luce che aveva illuminato il viso di Sarah si spense in parte. «Quattro anni fa ha avuto un incidente. Con la moto. Nessun altro è rimasto coinvolto, ma lui ha perso il casco. Sta ancora facendo progressi, i medici della terapia occupazionale e il terapista del linguaggio in ospedale sono molto bravi con lui, però è… diverso rispetto a prima». Si alzò. «Lo chiamo. Sono certa che gli farà piacere conoscervi, gli amici di Marianne».

Percorse un corto corridoio in fondo al salotto e bussò piano a una porta. «Martin? Hai finito di giocare ai videogiochi, tesoro? Mi senti? Ci sono qui delle persone, una signora e un signore, che erano amici di Marianne. Ti va di venire a conoscerli?».

Cory indicò la parete alle spalle di Rowan. «Andarcene?», disse lei muovendo solo le labbra. «Adesso?».

Lui scosse la testa. «Guarda».

Ubbidì e si voltò. Su un ripiano nella vetrinetta dietro di lei, in una cornice di legno più grande ma molto simile a quella con la foto di Jacqueline e Marianne che a Rowan piaceva tanto, c’era un disegno di Mazz. A penna e inchiostro, era il ritratto di un ragazzo, solo la testa e le spalle, ma così ricco di dettagli che si capiva che Marianne aveva passato del tempo a studiarlo. Non l’aveva fatto al volo: lui aveva posato per lei.

«Eccolo qui», lo presentò Sarah come se parlasse di un bambino e, una volta girata, Rowan vide il viso in carne e ossa. Il suo primo pensiero fu che Marianne l’aveva ritratto molto bene, con il naso sottile, gli occhi grandi e i capelli castano chiaro così dritti che non avevano una forma nemmeno sulle tempie. Era un viso delicato, bonario, che colpiva per il contrasto con il corpo. Il riscaldamento andava a pieno regime e lui indossava dei pantaloni della tuta e una maglietta bianca senza scritte che lasciava intravedere chiaramente i muscoli, grossi e ben sviluppati. Aveva un’andatura goffa però e, nel vederlo venire avanti, Rowan notò che aveva un piede piegato verso l’interno.

«Ciao». Si alzò e, senza pensarci, gli porse una mano. Dopo un attimo di esitazione, lui gliela strinse in modo strano. Le parve quasi che gli avessero insegnato a farlo: la stretta era gentile, quasi tenera, ma si sentiva che lui stava tenendo sotto controllo la forza. Presentò prima sé stessa e poi Cory, dopodiché si voltò verso il disegno nella vetrinetta. «Marianne ti ha ritratto», commentò. «C’è davvero una grande somiglianza».

Ci fu un nuovo attimo di pausa e Rowan ebbe l’orribile pensiero che magari non fosse in grado di parlare. Poi però le rispose. «Sì. Ci ha preso subito con me. L’ha detto lei. Ci ha preso subito con me».

«È vero». Rowan sorrise. «Quanto tempo fa hai posato per lei?».

Con un lampo di panico negli occhi, Martin guardò la madre.

«Circa diciotto mesi fa», rispose la donna.

«Sono andato a casa sua, abbiamo mangiato la torta al cioccolato e poi mi ha fatto il quadro. Ha detto che potevo tenerlo, quindi l’ho portato a casa e l’abbiamo incorniciato».

«Eravate amici?»

«Sì, lei era mia amica. Ci salutavamo sempre a vicenda». Disse l’ultima frase piano, come se fosse un concetto complicato. «Io stavo qui e, quando lei saliva nello studio, mi salutava con la mano e io le rispondevo».

«Ti ho visto alla finestra», disse Rowan. «Qui». Accennò al vetro. «Di notte. Io e te non siamo dei gran dormiglioni».

«Insonnia», spiegò lui, scandendo bene ogni sillaba. «Non mi piace il buio. Ho delle pillole per andare a dormire ma non mi piacciono. Non voglio diventare…». Guardò di nuovo la madre.

«Dipendente», disse lei.

Sulla porta, Sarah Johnson si avvicinò a Rowan e abbassò la voce. Una precauzione superflua: con l’aria di un ragazzino che aveva espletato i propri doveri sociali, Martin se l’era filata di nuovo in camera sua. Rowan l’aveva osservato allontanarsi e d’un tratto aveva pensato che, se Marianne le avesse chiesto di descriverlo, avrebbe detto che era come un bambino nel corpo di un ginnasta russo: la forza unita alla semplicità, i muscoli e il pallore della sua carnagione, degli occhi azzurri.

«Le dà fastidio?», s’informò la madre. «A guardarla così».

«No. Io…».

«Non c’è problema, può dirmelo».

«Sul serio, no. Adesso capisco. Non sapevo del… saluto. Non sapevo che fossero amici. Da tempo vivo a Londra; non ero aggiornata sulla vita quotidiana di Marianne. Di notte, ogni tanto, nel vederlo…». Abbozzò una risatina e scosse la testa per mostrarsi in imbarazzo. «Ho una fervida immaginazione».

Posò gli occhi sui due chiavistelli e, come se avesse seguito la sua catena di pensieri, Sarah intervenne: «Non è pericoloso».

«No, certo che no. Non lo pensavo… Adesso che so che erano amici, ha tutto senso». Lanciò un’occhiata verso il salotto, per assicurarsi che il ragazzo non fosse tornato. Parlò comunque sottovoce. «Ha visto il corpo di Marianne?», chiese. «Dalla finestra, intendo. Non volevo chiederlo a lui però…».

«Sì», rispose Sarah. «Non quella sera, non ha assistito all’incidente, grazie al cielo, ma al mattino, quando è diventato abbastanza chiaro per vedere il giardino. È rimasto… molto turbato».

«Dev’essere stato un trauma per lui. Per tutti e due».

«Orribile. È stato… orribile».

«Ci dispiace per il disturbo», intervenne Cory in tono dolce. «Speriamo di non avervi causato altro dolore. Visto che Marianne è morta proprio là, probabilmente eri un po’ più nervosa del solito, Rowan, vero?».

Lei annuì. «Un po’. La casa è grande per starci da sola».

«Pareva strano anche a me», disse Sarah. «Non ho mai capito come mai volesse abitare da sola». Guardò Cory. «Io però non sono un’artista, quindi… Marianne era una ragazza adorabile, vero? Così generosa. Non con i soldi, non intendevo quello», si affrettò a dire, come se potessero pensare che lei se ne approfittasse. «Ma con il suo tempo. Quando non lavorava ogni ora del giorno e della notte, portava fuori Martin. Andavano perlopiù al cinema, ogni tanto a pranzo, a un concerto. A lui piace la musica. Lei non me l’ha mai detto, ma penso sapesse che faceva piacere a me quanto a lui. Una pausa, se riuscite a capirmi».