Capitolo trentaquattro

Prima di tornare a letto la sera prima, Rowan aveva spento il telefono di Bryony e l’aveva messo sul tavolo della cucina, così l’avrebbero visto al mattino. Ora, uscendo di casa, infilò una mano in tasca e ne toccò la fredda parte posteriore in metallo.

Le previsioni davano pioggia e il cielo era coperto da nubi di un grigio livido. Fu superata da una donna in bicicletta, simile a un pipistrello con un poncho di plastica. Gee’s era affollato, evidentemente in tanti avevano pensato che il pranzo fosse un buon modo per affrontare un nuvoloso pomeriggio di febbraio. Dalla vetrata osservò il tavolo che aveva condiviso con Adam.

In attesa di attraversare Woodstock Road, scrutò una coppia che usciva dalla farmacia all’angolo con Observatory Street, tenendo per mano una bambina di tre o quattro anni. Davanti al parrucchiere, la donna diede un bacio a entrambi e l’uomo aprì una macchina parcheggiata e sistemò la figlia sul sedile posteriore. Una scena così normale, così ordinaria e così completamente aliena. La vecchia brama tornò a pulsarle nella cassa toracica. Eppure… Eppure… Nella sua mente, qualcosa stava prendendo forma. Non riusciva a vederlo, non era del tutto formato, ma cominciava a baluginare, a tirarle l’angolo di un occhio come un muscolo che si contraeva.

Arrivata alla vecchia Eagle Ironworks, il suo cellulare si mise a squillare. Nella via deserta, la suoneria parve decisamente stridula e lei si affrettò a prenderlo, nella speranza di leggere il nome di Adam sullo schermo. “Numero privato”. Dopo un attimo di esitazione, rispose.

«Rowan? Ciao, sono di nuovo io. Theo».

La sua voce affascinante – che ricordava un giorno d’estate – come se non avesse appena cercato di farla passare per una sgualdrina davanti a Adam. La preoccupazione fu soppiantata dalla rabbia. Se fosse stato lì davanti lei, avrebbe faticato a non picchiarlo. Si diede una calmata: non poteva permettersi di perdere il controllo.

«Scusa se ti disturbo ancora così presto», le disse. «È una cosa veloce. Sto cercando di chiarire alcune cose, di abbozzare una cronologia. Quando stamattina parlavamo delle vertigini, hai detto a Adam che non parlavi con Marianne da anni, e ricordo che avevi detto la stessa cosa a me al pub, più o meno. Mi chiedevo però, da quanto di preciso?».

Poteva stare sul vago, confonderlo? No, troppe persone conoscevano la verità: Turk, Jacqueline. Lo stesso Adam. «Dieci anni», rispose. «Dall’estate in cui ci siamo laureate».

«Oh, così tanto». La sorpresa nella sua voce era sincera, si chiese Rowan, o era una semplice mossa in qualsiasi gioco a cui stesse giocando? Seguì una pausa, un rumore di fogli. «Scusami», proseguì lui, «sto rivedendo alcuni appunti. È la stessa estate in cui è morto suo padre, vero? Seb Glass?».

Cazzo. Stava per lanciarsi nella vecchia storia – la sua insensibilità, il dolore irrazionale di Marianne, il litigio che ne era scaturito – ma all’ultimo secondo si bloccò. A ogni parola che le usciva di bocca, si esponeva sempre di più. «Sì», rispose.

«Bene». Un’altra pausa, come se stesse scrivendo qualcosa. «Ok», disse, pensieroso. «È tutto. Per ora».

Chiuse la conversazione senza salutarla e, là sul marciapiede, Rowan sentì la paura risalirle lungo la schiena e le braccia. Doveva forse provare a scappare, buttare le sue cose in macchina e partire? Poteva prendere un traghetto, probabilmente aveva ancora tempo. Poteva far perdere le sue tracce da qualche parte in Europa; nascondersi. Se vi fosse stata costretta, aveva pensato la notte precedente mentre era sveglia a letto, non sapeva se avrebbe sopportato la vita in prigione. Giorno dopo giorno, ad annaspare verso una data in un lontano futuro in cui l’avrebbero lasciata uscire. E che cosa avrebbe trovato ad aspettarla?

Ma forse quell’idea era prematura: forse, com’era successo con il fermento della polizia dopo la morte di Lorna, alla fine si sarebbe risolto tutto in un nulla di fatto. Theo poteva benissimo ritenerla una sgualdrina: non era mica un reato. E non c’era ammissione di colpa più grande che scappare, non c’era modo più certo per attirare su di lei l’attenzione della polizia. E se fosse rimasta, pensò con un dolore al petto, anche se poi fosse andato tutto a rotoli, avrebbe potuto avere ancora un po’ di tempo con Adam, qualche ora o qualche giorno in più. Andarsene significava lasciarlo.

Sulla porta, un’ora prima, aveva faticato a non tradirsi. Ti prego non andare, avrebbe voluto implorarlo. Chiama Jacqueline, non c’è bisogno che tu vada da lei di persona. Avrebbe voluto circondarlo con le braccia e stringerlo per sempre, invece si era limitata a un rapido abbraccio. «Guida con prudenza».

Lui le aveva dato un bacio. «Come sempre. Ci vediamo stasera».

Nel rimettere il telefono in tasca, Rowan sfiorò di nuovo quello di Bryony e le tornò in mente come mai era venuta fin lì: Greenwood.

La rapidità con cui aveva mandato Theo da lei l’aveva subito incuriosita. Come mai era stato così desideroso di farlo? Indirizzare la polizia da Jacqueline o da Adam aveva senso, dopotutto Cory era diventato amico della figlia e della sorella, ma perché specificamente da Rowan? Stava forse cercando di sviare l’attenzione da sé? E in quel caso, come mai?

E se avesse sentito delle voci sulla situazione tra Marianne e Cory? Forse era stata addirittura Marianne a dirglielo, per cercare di chiudere la relazione con lui. Ma poi? L’aveva spinta a buttarsi? L’aveva minacciata? Di cosa? Di scaricarla come artista? No, non sarebbe stato niente di che. Le lettere tra i suoi documenti testimoniavano le molte altre opzioni che aveva. E se lui avesse scoperto quello che aveva fatto a Lorna? Con lo stomaco sottosopra, Rowan si ricordò però quanto fosse stato turbato quel pomeriggio nello studio, quanto l’avesse difesa. E comunque, come avrebbe fatto a scoprirlo? No, non le quadrava, tutta la storia non tornava. Eppure c’era qualcosa. Qualcosa…

Imboccò Southmoor Road e raggiunse la casa in cui Bryony era entrata la notte precedente. Aprì il cancelletto che dava sulla strada e percorse il vialetto fino alla porta. Il vetro della finestra a golfo del pianoterra rialzato brillava come acqua, pulito di recente, e nel guardarvi attraverso vide un salotto esattamente identico a quello che si era immaginata per Greenwood: spesse tende, un quadro astratto a olio sopra al caminetto, mensole stipate di libri su entrambi i lati. Avvertì l’ennesima ondata di rabbia nei confronti di Marianne: era così viziata, da sempre. Come si poteva avere tutto quello e anche solo pensare di rinunciarvi?

Mentre suonava il campanello, in casa sentì squillare il telefono. Dopo pochi secondi, udì dei passi sul pavimento in legno e la voce aristocratica di James Greenwood che rispondeva. Poi la serratura scattò e la porta si aprì. Sul volto dell’uomo si susseguirono sorpresa, fastidio e, le parve, una punta di sollievo, per poi scomparire dietro la blanda maschera delle buone maniere. Indicò il telefono che aveva all’orecchio e alzò un dito.

«Saul, posso richiamarti? Ho una persona alla porta. Sì, sul cellulare… Uno o due minuti».

Greenwood rimise il cordless nella base e tornò alla porta. Le si era appena rivolto che il telefono prese a squillare di nuovo.

«Prego», disse Rowan, «risponda pure. Posso aspettare».

«Richiamerà, chiunque sia. Come posso aiutarla? I media hanno saputo di Michael e, come può vedere, il telefono non la smette di suonare, quindi non ho proprio tempo di…».

«No, ma certo. Non la tratterrò: sono solo venuta a riportare il cellulare di Bryony. L’ha lasciato in Fyfield Road ieri».

Fu un semplice dettaglio, piccolo e semplice, e se lei fosse stata un’altra persona, se non fosse stata la figlia di suo padre, forse le sarebbe sfuggito.

Nel sentir nominare Bryony e Fyfield Road, sul viso di James Greenwood passò una fugace ma inconfondibile espressione allarmata, e Rowan capì di avere ragione: quell’uomo aveva paura. Ma di che cosa?

Senza neanche fingere un po’ di delicatezza, sbirciò alle sue spalle. Ogni cosa indicava buon gusto e ordine: la moquette in sisal sulle scale e un’altra tela a olio, il tavolo nell’ingresso con il telefono e una lampada dalla base in vetro. E poi, proprio lì di fianco, allineati con cura uno accanto all’altro su un foglio di giornale ad asciugare dopo una passeggiata insieme, due paia di stivali di gomma, del padre e della figlia: i primi verde spento, di quelli a buon mercato, i secondi degli Hunters blu navy. La sua prima reazione fu di invidia: Tu non ce l’hai, Rowan, un padre del genere; un simile legame. Il secondo pensiero fu Hunters blu navy.

Come se avesse visto una lampadina accendersi nella sua mente, Greenwood si avvicinò alla porta per bloccarle la visuale. «C’era dell’altro?», le chiese, in tono gelido.

Rowan mise una mano sullo stipite, per evitare che lui chiudesse la porta. «Quelli sono gli stivali di Bryony, James?».

Si scambiarono un’occhiata e, insieme alla paura, negli occhi di Greenwood Rowan lesse odio puro.

«Sono i suoi?», lo incalzò.

Spostò le dita appena prima che lui le sbattesse la porta in faccia.

Appena uscì dalla veranda cominciò a piovere e, quando arrivò in Walton Well Road, neanche un minuto dopo, la pioggia scendeva già a dirotto, fredda e sferzata dalla brezza funesta che si era levata a darle manforte. Rowan non vi fece caso: le girava la testa per quella rivelazione, gongolava quasi. Se prima aveva avuto paura che il suo viso lasciasse trapelare il senso di colpa che provava, ora temeva che chiunque le passasse accanto restasse colpito dalla sua euforia, tanto era sollevata.

Quando era morta, Marianne indossava degli stivali di gomma. Degli Hunters blu navy, anche se probabilmente il colore non faceva differenza. Li aveva addosso quando avevano rinvenuto il suo corpo e, le aveva detto Theo, la polizia aveva le immagini di alcune telecamere di sicurezza di Marianne con quelli ai piedi alcune ore prima di morire, dopo la nevicata.

La via verso Port Meadow era deserta, visto il tempo la gente era rimasta al coperto, e Rowan si concesse una sonora risata all’idea che, dopotutto, andare a letto con lui aveva dato i suoi frutti. Aveva pensato che le sue parole escludessero che qualcuno fosse stato in casa la notte in cui Marianne era morta ma forse, forse invece indicavano una sola persona.

Tre parole: “dopo la nevicata”. Avevano trovato una serie di orme che entravano in casa, aveva detto lui, e una di orme che uscivano, ed entrambe erano state fatte da Marianne. Con ciò, presumibilmente, lui intendeva che entrambe erano state fatte dagli stessi stivali. Facevano shopping insieme, aveva spiegato Turk. Si scambiavano i vestiti e le scarpe. E le scarpe. Se si scambiavano le scarpe, dovevano avere lo stesso numero. Magari avevano pure comprato i loro Hunters insieme, Marianne e Bryony.

Greenwood aveva davvero cercato di sviare l’attenzione, ma non da sé stesso: nella neve non avevano trovato impronte più grandi, di un uomo. Ricordò quanto fosse stato aggressivo quando era venuto a guardare le tele di Marianne, la rabbia che era riuscito a stento a contenere. Quel giorno però non stava proteggendo Marianne: aveva paura per la figlia. Bryony ha detto che è andata a cercarla a scuola ieri. Non lo faccia più, per favore.

Le impronte che entravano erano di Marianne, quello era sicuro: a un certo punto, tra il momento in cui era stata ripresa dalle telecamere di sicurezza in North Parade e quello in cui era morta, doveva essere rientrata in casa per poi scivolare dal tetto. Ma se fosse uscita prima che iniziasse a nevicare e fosse rientrata dopo che aveva smesso, forse solo le impronte che entravano in casa erano sue. Se quel giorno Bryony fosse stata in Fyfield Road prima che iniziasse a nevicare, per passare il tempo o per leggere, in attesa che Marianne rientrasse, allora lei, con i suoi stivali identici, poteva aver fatto quelle che uscivano.

Arrivata in fondo alla via, Rowan si fermò al cancello del parco. Non l’aveva mai visto così tetro, una distesa butterata di erba verdastra sotto il cielo grigio che proseguiva fino al fiume indistinguibile. Eppure, in quel momento, per lei era bellissimo. Bryony poteva essere stata in casa quel giorno e, se aveva visto nascere la relazione tra Marianne e Cory, o se, come Adam, l’aveva anche solo intuita, poteva aver avuto un movente.

Quando si presentò al citofono, Sarah Johnson parve sorpresa ma anche contenta e Rowan ricordò quel che aveva detto delle uscite di Marianne con Martin, che facevano piacere a lei quanto a lui. Una pausa, se riuscite a capirmi.

Rowan accettò del tè in una pacchiana tazzina di porcellana con il piattino e lo bevve in attesa che Sarah riuscisse a staccare Martin dai suoi videogiochi. «Ciao». Gli sorrise quando lo vide entrare nella stanza con la sua andatura cauta, muscolosa, il campione che si avvicina alla pedana.

«Sei l’amica di Marianne», disse lui, senza giri di parole. «Sei già stata qui».

«Hai ragione. Martin, sto cercando di aiutare Marianne… Be’, la sua famiglia. Mi chiedevo se potessi chiedere anche il tuo aiuto».

Lui la fissava, assente.

«Il giorno in cui è morta Marianne». Lanciò una rapida occhiata a Sarah per assicurarsi che non l’avrebbe turbato con le sue domande. «Quel pomeriggio… non so se te lo ricordi, ma te lo chiedo comunque per sicurezza. C’era qualcun altro, durante il giorno? Hai visto qualcuno?»

«Sì», rispose lui, orgoglioso come se avesse saputo la risposta a una domanda difficile in classe. «La biondina. Quella che veniva sempre. È stata in casa tutto il giorno. È rimasta anche la notte prima».

Rowan sentì nuovamente il petto gonfiarsi dalla gioia. Era dura non lasciar trapelare l’euforia dal volto.

«Il giorno in cui è morta Marianne, Martin?», disse la madre, poco convinta. «Sei sicuro?»

«Sì». Era scocciato che non gli credesse. «Me lo ricordo. Marianne era mia amica».

«Perché non l’hai detto ai poliziotti quando sono venuti?»

«Non me l’hanno chiesto. Mi hanno chiesto se avevo visto qualcosa di sosp… sosp…».

«Di sospetto», intervenne Sarah.

«E l’hai visto?», chiese Rowan.

«No». Scosse la testa con veemenza. «Sono andato a letto. Le ho salutate con la mano, Marianne e la biondina, e poi sono andato a letto. Mi sono alzato e Marianne era sdraiata in giardino. Era tutta… a pezzi».