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Il cellulare di Doug Case vibrò un’altra volta. Controllò il display: era Paul Janson, con l’identificativo del chiamante visibile. Forse stava telefonando da un carcere italiano e aveva bisogno di aiuto. «Mi scusi, devo prendere questa chiamata» annunciò Case.

«Non ti allontanare» gli ordinò il Buddha. «Rispondi da qui.»

«Ciao, Paul. Come vanno le cose in Italia?»

«Porta subito i giornalisti sul ponte, devono vedere il presidente Poe.»

«Ma di quale ponte… cosa? Sei su questa nave?»

«Fai come ti ho detto, oppure distruggerò le unità di posizionamento dinamico. Tutte e due. Sai cosa significa, vero?»

Case aveva difficoltà a respirare. «Sì.»

«Ti è ugualmente chiaro che se tenti di far salire anche i tuoi tiratori ci sarà una carneficina, vero?»

«Sì.»

«Mi sento tradito, te ne rendi conto?»

Case riuscì a riprendersi. Era in grado di affrontare la situazione. «Già» rispose. «Capisco che tu ti senta tradito, ma non sai da chi.»

«Nessun testimone, nessun crimine?»

«Non sono io il cattivo.»

«Helms è lì?»

«È qui, vicino a me.»

«Passamelo.»

Doug Case non si preoccupò di coprire il microfono con una mano mentre si rivolgeva a Helms a bassa voce: «È Paul Janson. È qui! Sulla Vulcan Queen, e chiede di portare i giornalisti sul ponte per incontrare Ferdinand Poe».

«Sul ponte c’è il sistema di posizionamento dinamico!»

«Lo sa fin troppo bene anche lui. Parlagli tu!» Gli passò il cellulare. «Cerca di non farlo incazzare.»

«Janson» esordì Helms in tono rilassato. «Spero lei sia lucido e non abbia intenzione di fare qualcosa di avventato.»

«Se sono vivo è perché sono in grado di fare qualcosa di avventato. Non sono sicuro di chi ci sia dietro tutto questo, ma lo scoprirò molto presto. Nel frattempo mi basta riuscire a fermarvi.»

«Possiamo risolvere la cosa, ne sono certo.»

«Il Buddha è lì con voi?»

Kingsman Helms mise il telefono nella mano rugosa del direttore generale.

Bruce Danforth aveva sentito un elicottero atterrare pochi minuti prima e si era chiesto chi ci fosse a bordo. Ora lo sapeva. Si sforzò di sorridere, a beneficio dei giornalisti e dei dirigenti, e borbottò a mezza bocca, nel telefono: «Parla Bruce Danforth, Janson. Sa, molti anni fa mi sarebbe davvero piaciuto stringerle la mano. Ma il suo ex capo, Derek Collins, mi avvertì che secondo gli avvocati era meglio evitare l’incontro, nel caso un giorno avessi dovuto negare la sua esistenza».

«Mi sono sempre fidato di Derek» commentò freddamente Janson.

«Ero io il capo di Derek.»

«Questa mi è nuova.»

«Oh, è stato tanto tempo fa. Quando lei è arrivato, io ero già passato al settore privato. Ma mi tengo sempre informato sui soggetti più dotati, i migliori. Forse stanotte esaudirò il mio vecchio desiderio.»

«Non posso stringerle la mano. Sono armato.»

«Può sempre deporre le armi.»

«Non penso proprio.»

«Mi dica il suo prezzo e potrà andarsene tranquillamente.»

«E lei mi dica il nome di chi ha assassinato i miei piloti e il dottor Terry Flannigan.»

«Non so di cosa lei stia parlando.»

«Potrebbe anche rivelarmi chi ha organizzato l’attacco dei Reaper sul Pico Clarence.»

«Non riesco proprio a seguirla, Janson» replicò il Buddha senza cambiare espressione.

Paul Janson sapeva di non essere in grado, per il momento, di collegare i crimini perpetrati da esecutori senza volto alle alte o altissime sfere. Aveva appena avuto la dimostrazione di come jet privati, flotte di elicotteri e navi gigantesche potessero far sentire gli uomini al sicuro anche quando non lo erano. Ma la sensazione di onnipotenza garantita da numerosi livelli di separazione dalle persone comuni conferiva a quel magnate del petrolio una sorta di invulnerabilità, un’indifferenza sprezzante e impermeabile alle critiche. Janson poteva inveire contro il direttore generale della ASC fino a sgolarsi, ma Bruce Danforth, Kingsman Helms e Doug Case avrebbero continuato ad asserragliarsi per anni in un castello costituito da verità nascoste, mezze verità e menzogne inconoscibili. Per anni forse, ma non per sempre, si ripromise Janson. Per arrivare alle altissime sfere, avrebbe dovuto smantellare quel castello pietra dopo pietra.

«Salite sul ponte» ordinò a Danforth. «Soltanto lei, Helms, Case e i giornalisti. Nessun altro.»

Kincaid appoggiò la guancia al calcio dell’M110 e inquadrò Iboga nel reticolo del mirino notturno.

Guidati dall’ex dittatore, i soldati erano arrivati a meno di cento metri dai cancelli della prigione. Jessica si chiese come mai aspettassero tanto a usare i lanciarazzi. Iboga fece segno al gruppo col suo, incitandoli a venire avanti. Evidentemente intendeva fare irruzione subito dopo aver fatto saltare i cancelli.

Iboga era un leader nato. Il gruppo mostrava una notevole disciplina, pur essendo stato messo insieme all’ultimo momento. Avrebbero rinunciato alla missione solo se avessero visto cadere il loro capo. L’ex dittatore si acquattò dietro una palma, a una settantina di metri dall’ingresso. Quindi rimase immobile.

Novecento metri era una distanza di tiro al limite.

Kincaid allineò il fucile puntandolo sul bersaglio. Spostò i piedi in modo da ottenere la massima stabilità. Alzò la testa. Appoggiò l’occhio destro al mirino. Chiuse gli occhi e trasse alcuni respiri regolari, poi li riaprì. Il reticolo inquadrava l’albero a pochi centimetri dalla testa di Iboga. Spostò ancora di pochissimo il bipiede, riallineò l’arma e rimase immobile. Mirò di nuovo, sette centimetri e mezzo sotto l’agal, il cordone che gli tratteneva la kefiah sulla testa.

Inspirò. Espirò. Appoggiò il dito sul grilletto. Il reticolo si spostò sulla destra. Allentò la pressione dell’indice, respirò a fondo e prese di nuovo la mira. Rimise il dito sul grilletto e lo tirò indietro con lenta regolarità.

In quel momento la campana della torre batté il primo dei dodici rintocchi della mezzanotte. Il rimbombo fragoroso fece vibrare il pavimento di pietra.

Mancato!

Le parve di sentire suo papà ridere, come se fosse seduto alle sue spalle. Aveva di nuovo otto anni, quando si esercitava senza sosta per dimostrargli di saper sparare come qualsiasi maschio, come il figlio che non aveva mai avuto. Guarda, papo. La dislessia le faceva spesso sbagliare la pronuncia in modo bizzarro, così a un certo punto aveva deciso di inventare lei le sue parole: «papo» per «papà», «schiattolo» per «scoiattolo». Schiattolo sulla quercia a venti metri. Guarda, papo!

E il dannato scoiattolo saltava da una parte, quando avrebbe dovuto andare dall’altra.

Mancato. Suo padre rideva.

Si era esercitata anche a ricaricare in fretta e a tirare di nuovo, fino a quando la spalla le doleva per i rinculi. Calibro .22 bolt-action. Incamerò un proiettile più in fretta di quanto la stupida bestiola riuscisse ad arrampicarsi e, almeno quel giorno, conquistò suo padre.

«Il secondo sparo» le disse fiero di lei quella sera, preparando per cena uova strapazzate e cervello di scoiattolo, «quello dopo che hai mancato il bersaglio, quel colpo fa la differenza tra un uomo e un ragazzo.»

Iboga probabilmente sentì il sibilo del proiettile, senza capire da dove arrivasse. Forse pensò che avessero sparato dal carcere e non da oltre ottocento metri alle sue spalle. Rimase al riparo dell’albero, mentre l’orologio batteva i dodici colpi e Jessica Kincaid prendeva la mira per sparare una seconda volta.

Paul Janson si rannicchiò nell’ombra nella parte anteriore della plancia di comando, con la schiena appoggiata alla paratia d’acciaio e tenendo sotto costante controllo porte e vetrate, nel caso qualche addetto alla sicurezza della ASC avesse tentato una mossa azzardata. I dispositivi di controllo del posizionamento dinamico della Vulcan Queen posti a fianco del timone erano di cruciale importanza nelle operazioni di trivellazione in acque profonde, e la nave era dotata di unità di emergenza in caso di guasto del sistema. Janson puntò il suo MP5 su quella di destra, in quel momento non attiva. Sarebbe bastata una sventagliata di colpi per metterla fuori uso.

Kingsman Helms guidava il gruppo, salendo rapidamente le scale. Il capitano lo bloccò, come da istruzioni ricevute da Janson, e lo trattenne nell’area degli ascensori. Le porte dei due ascensori si aprirono nello stesso momento. Dal primo uscì un uomo anziano, probabilmente Bruce Danforth, seguito da Doug Case sulla sua carrozzella superaccessoriata. Dal secondo si affacciarono i giornalisti.

Janson contò tre uomini e due donne; una era la bella e coraggiosa corrispondente della NPR con la quale aveva avuto una storia qualche anno prima, in Afghanistan. A un tratto, tutti puntarono le mini videocamere per i siti web su Ferdinand Poe, che stava entrando lentamente dal ponte di plancia. Aveva l’aria stanca e pareva troppo vecchio per maneggiare il mitra FN P90 per la sua difesa personale.

«Venga, signor presidente provvisorio. Sono tutti ansiosi di incontrarla.»

Helms si fece avanti per mettere un braccio sulla spalla di Ferdinand Poe, con gesto cameratesco. Poe si sottrasse all’abbraccio.

Helms lo introdusse usando il minor numero di parole possibile. «Signore e signori, vi presento un coraggioso patriota: il presidente provvisorio della Isle de Foree, Ferdinand Poe.»

«Buonasera» esordì Poe. «O meglio, buonanotte. È molto tardi. So che voi tutti avete affrontato un lungo viaggio per arrivare alla nostra isola-Stato e mi concederò solo due brevi osservazioni. Per prima cosa, la scoperta di un giacimento di petrolio nelle acque della Isle de Foree sta per essere confermata dalla nave trivella sulla quale ci troviamo ora: una grande notizia per il popolo della Foree e anche per le nazioni consumatrici di petrolio, che al momento dipendono dalle riserve nigeriane ormai in esaurimento.»

Guardò oltre la piccola folla radunata davanti a lui come per riflettere, ma in realtà stava scrutando nell’ombra, dove era seminascosto Janson, in attesa di un cenno su Iboga. Uno dei giornalisti, un uomo alto, in camicia bianca, se ne accorse e seguì lo sguardo di Poe.

Un crepitio.

L’auricolare di Janson era collegato al telefono satellitare. Spostò il microfono alle labbra. «Dimmi.»

«È finita.» Kincaid sembrava esausta.

«Brava.»

«Ora possiamo tornare a casa?»

Paul Janson si alzò e mostrò a Poe i pollici alzati.

In quel momento, l’uomo con la camicia bianca gettò a terra la videocamera. Chinandosi come per raccoglierla, sfilò una pistola dalla fondina allacciata alla caviglia e la puntò su Janson, preparandosi a sparare con il gesto allenato del tiratore professionista. Janson ebbe appena il tempo di sollevare l’MP5 e di spostare il selettore dalla modalità automatica. Ma dietro il falso giornalista c’erano troppe persone e non poteva sparare, nemmeno in modalità semiautomatica, senza rischiare di uccidere un innocente.

Janson abbandonò l’arma e fece un passo avanti, con le mani alzate.

«Niente prigionieri» dichiarò l’uomo armato, e dal suo sguardo Janson capì che era deciso a ucciderlo. Una donna urlò. Gli uomini si precipitarono in preda al panico in tutte le direzioni. Ma Janson, facendosi avanti, si era portato molto vicino al falso giornalista: con una fulminea mossa di piede gli spaccò un ginocchio, producendo uno schiocco forte quasi come lo sparo sfuggito dall’arma dell’uomo mentre cadeva. Il proiettile attraversò dolorosamente la coscia di Janson e s’infilò nell’unità di posizionamento dinamico in funzione. Partì una sirena d’allarme e subito s’inserì automaticamente l’unità di riserva.

Janson assestò altri due calci al suo assalitore a terra, lasciandolo esanime. «Case!» gridò Janson. «Richiama i tuoi ragazzi. Ora avete una sola unità di posizionamento dinamico.»

Bruce Danforth diede l’ordine prima che Case potesse aprire bocca. «Sicurezza, fermi tutti. Nessuno si muova. Nessuno.» Con un sorriso tirato, aggiunse: «Tranne l’agente a volto coperto con la pistola. Ai suoi ordini, signore. Cosa vuole?».

Paul Janson ritornò nell’ombra. «Voglio che il presidente Poe termini il suo discorso. I giornalisti ascoltino con attenzione. La prego, continui, presidente.»

«Due» riprese Ferdinand Poe. «Mi compiaccio di annunciare che il vile tentativo messo in atto dall’ex dittatore Iboga per rovesciare il mio governo è stato sventato. Lo spargimento di sangue è stato minimo. Sono qui di fronte a voi vivo e vegeto, e l’ex dittatore è stato catturato.»

«Ucciso» lo corresse Janson.

«Ucciso» ripeté Poe. Si chinò per appoggiare il suo mitra a terra e si rialzò, mostrando le mani aperte. Janson sorrise. Aveva sostenuto un uomo vincente.

«Annuncio ai miei soldati e ai loro ufficiali, a tutti gli ufficiali, che il tempo della violenza di Iboga è finito per sempre. Ho anche il piacere di poter confermare il recupero di buona parte del tesoro sottratto da Iboga alle casse nazionali. Questa è una giornata memorabile per la Isle de Foree… ci sono domande?»

I giornalisti si voltarono a guardare nel punto in cui fino a poco prima c’era Janson e ora giaceva l’uomo della sicurezza con la camicia bianca, con una gamba piegata in un’angolazione innaturale. Poi si girarono di nuovo a guardare Poe, stupefatti. La giornalista che Janson ricordava di aver conosciuto in Afghanistan si riscosse per prima. «Lei definirebbe questa una fortunata coincidenza, oppure si è trovato per caso a bordo della Vulcan Queen quando è iniziato il tentativo di colpo di Stato?»

«Oh, molto fortunata, poiché non essendo presente non sono riusciti a farmi fuori.»

Tutti risero.

«Ma è stata anche una felice coincidenza» continuò Poe. «Perché, quando è giunta la notizia della resa di Iboga, noi stavamo già festeggiando la firma del nuovo accordo per i diritti di sfruttamento con i dirigenti della American Synergy Corporation, i quali con grande generosità permetteranno ad altre compagnie petrolifere di partecipare allo sviluppo dei favolosi giacimenti della Isle de Foree. Verrà creato un consorzio, e i ministri della nostra isola faranno parte del consiglio di amministrazione.»

Ferdinand Poe tese una mano piena di cicatrici a Kingsman Helms, il quale la strinse con un sorriso tirato, simile a un ghigno.

Janson non staccava lo sguardo dalla faccia di Doug Case, mentre i giornalisti attorniavano Poe e Helms. In tutta sincerità non avrebbe assolutamente saputo dire cosa Doug stesse pensando in quel momento.

Sull’Embraer c’erano troppi fantasmi. Presero un volo di linea per Lisbona, dormirono in hotel per ventiquattro ore di fila, quindi si imbarcarono su un altro aereo per New York. Janson passò molte ore a leggere un libro di storia sulla sconfitta di Napoleone da parte dello zar Alessandro I. Jessica guardò un film, poi lasciò vagare lo sguardo fuori dal finestrino, infine si alzò e prese a percorrere il corridoio avanti e indietro. Una volta atterrati a New York andarono a Midtown in taxi e passeggiarono a lungo, analizzando i dettagli dell’operazione.

«Continui a non credere nella vendetta?» domandò Kincaid.

Janson esitò. «In generale è ancora così. Mi piacerebbe poter dire sempre, ma non questa volta.»

«Però non li hai uccisi.»

«Perché non sapevo chi meritava di morire. Non so chi sia il cattivo. Uno di loro? Due? O forse tutti? Ma, per lo meno, ho impedito loro di mettere le mani su quello che volevano.»

«Gli hai portato via la Isle de Foree.»

«E li ho lasciati vivere con la loro sconfitta.»

«Cosa ti fa pensare che non ci riproveranno?»

Paul Janson sorrise, pervaso da un improvviso ottimismo, con l’aria di chi spera di poter aggiustare ciò che si è rotto. «E cosa fa pensare loro che non glielo impedirò un’altra volta?»

«Perché Doug Case si è trasformato nel tuo punto debole?»

Preso alla sprovvista, Janson chiese: «In che senso? Cosa intendi dire?».

«Sei sempre pronto a credergli. Cos’è quella storia di cui mi parlavi, di quando lui ha sparato a un agente mentre torturava un tizio? Sarà vero? Come fai a esserne così sicuro? Chissà cosa è successo davvero, e perché ha sparato al suo collega.»

«La storia di Doug è vera.»

«Come fai a saperlo?»

«Lo so perché c’ero anch’io.»

«Tu eri lì? Non avevo capito… mi sorprende che tu non lo abbia fermato, allora.»

«Non potevo farlo.»

«Perché no?»

«Avevo le mani legate.»

Kincaid lo guardò con gli occhi sgranati. «Eri tu il soggetto torturato dall’agente a cui sparò Doug Case?»

«Quell’agente era un lunatico, un sadico, il tipo di persona che cerca tutte le scuse per sentirsi nel giusto provocando dolore agli altri. Si era convinto che io fossi un traditore. Non era così. Doug intervenne in mia difesa. Per lui fu un trauma: conosceva bene il suo collega, avevano fatto molte guerre insieme. Questa cosa arrivò quasi a distruggerlo.»

Jessica annuì in silenzio. Alla fine commentò solo con un «Wow».

Janson riprese: «Quell’esperienza mi fece apprezzare Doug come nessun altro. Ecco perché sono tanto affezionato a lui».

Attraversarono la Broadway e camminarono per mezzo isolato fra i turisti e le frotte di persone che uscivano dai teatri. Da qualche parte un altoparlante a tutto volume sparava Shake That Thing.

Jessica domandò: «Possiamo metterci d’accordo su una cosa?».

«Qualsiasi cosa.»

«Ammetti di non essere del tutto obiettivo riguardo al direttore della sicurezza della American Synergy Corporation?»

«Lo ammetto» rispose Paul Janson.

Arrivarono all’Hotel Edison e scesero una ripida rampa di scale. I Nighthawks stavano suonando Blue Skies.

La bella bruna con i capelli ricci all’ingresso non dimenticava mai un volto. «Bentornata» disse rivolta a Jessica. «È un piacere rivederla nel nostro locale.»

Paul Janson fu accolto dall’abbagliante sorriso riservato ai nuovi clienti.

L'occhio della fenice
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