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Iboga, il quale aveva prenotato tutti i posti della Business Class sul volo TAAG 224 da Luanda, aprì una mappa topografica di Porto Clarence e tracciò il percorso dall’aeroporto al carcere di Black Sand. Era affiancato da nove soldati mercenari, tutti concentrati sulle mosse del dittatore. La liberazione degli ufficiali di Iboga e la vittoria dipendevano da un’esecuzione rigorosa del suo audace piano. Nessuno, in quella piccola squadra d’assalto, dubitava della sua riuscita. Nonostante le voci secondo cui, sotto l’effetto della droga, avrebbe praticato il cannibalismo e i rotoli di grasso sul collo, debordanti da sotto la kefiah gialla, l’ex dittatore dava l’immediata impressione di essere prima di tutto un abile comandante militare.

All’atterraggio, per primi scesero i tiratori scelti, con il compito di smantellare i posti di blocco e sventare eventuali imboscate. Sotto lo sguardo attonito del personale di terra, il resto della squadra d’assalto scaricò rapidamente i lanciarazzi dalla stiva dell’aereo, mentre i tiratori scelti salivano su un taxi in attesa. Dopo una breve corsa per le strade deserte, uno dei cecchini scese a un incrocio con la strada costiera e l’altro alla sede del Parlamento, un edificio neoclassico dotato di un’alta e sottile torre. Mancavano dieci minuti alla mezzanotte. Un fedelissimo di Iboga indicò la via per la scala a chiocciola. Dalla finestra ad arco in cima, il cecchino avrebbe tenuto sotto tiro l’ultimo chilometro e mezzo di strada costiera, dove Iboga sarebbe dovuto passare per raggiungere Black Sand.

La torre era molto alta e la scala ripida. L’uomo sudava nell’umidità notturna e la custodia del fucile gli pesava quando raggiunse il piano dell’orologio. Ancora una rampa fino alla cella campanaria. Salì gli ultimi gradini e uscì all’aperto. Era buio pesto. In lontananza scorgeva la facciata del carcere, illuminata a giorno. La inquadrò con il binocolo. Di fronte al muro di cinta erano riversi numerosi cadaveri. Il muro stesso era crivellato dai colpi di proiettile e annerito in molti punti dalle esplosioni di granate. I cancelli, però, erano ancora chiusi. I difensori, senza dubbio terrorizzati e decimati dal primo attacco, avrebbero avuto una bella sorpresa quando la squadra di Iboga avrebbe lanciato i missili. Il cecchino si tolse il visore notturno e s’inginocchiò per tirare fuori il fucile e mettersi in posizione.

«Questa postazione è già occupata.»

Si girò di scatto in direzione della voce femminile e abbassò la mano verso la pistola nella fondina allacciata alla coscia.

«Non farlo» gli intimò lei.

Al buio, prima di indossare il visore notturno, la sua presenza doveva essergli sfuggita. Era accovacciata e aveva l’aspetto di una creatura irreale, vicinissima a lui, un’apparizione dai contorni verde fosforescente. Anche lei portava un visore notturno, calato a coprirle buona parte del volto. Impugnava una pistola con silenziatore e soppressore di fiamma e accanto a lei c’era un fucile Knight’s M110 SASS montato su un bipiede. L’arma di precisione semiautomatica era puntata verso il carcere.

Stupida donna. Cosa diavolo pensava di colpire, da una distanza di mille metri? Però doveva ammettere che aveva un fucile magnifico, migliore del suo, e pure il visore notturno era di gran lunga più potente del suo. Un’occasione inattesa per rifarsi l’equipaggiamento. Finse di balzarle contro, per costringerla a spostarsi di lato. L’ultima cosa che vide fu il bagliore sprigionato dalla canna della pistola della donna.

Jessica Kincaid rimase in ascolto per assicurarsi che nessun altro stesse salendo. Poi si appostò sul pavimento in pietra della torre campanaria, ventre a terra con il fucile puntato sui cancelli di ferro della prigione. Dopo cinque minuti sentì il motore di un’auto in avvicinamento sulla strada costiera ad alta velocità. I fasci luminosi dei fari apparivano e sparivano fra i tronchi delle palme ai lati della strada. Subito dietro veniva un secondo veicolo. Quindi un terzo. Superarono la sua postazione e proseguirono.

«Fateli avvicinare» mormorò, ma Freddy e i suoi, galvanizzati dal primo scontro a difesa della prigione, aprirono il fuoco contro la prima auto troppo presto. Prevedibilmente, questa si fermò in tempo. Ne scesero illesi tre individui armati e subito corsero a cercare riparo dietro gli alberi. Anche le due vetture al seguito inchiodarono. Da ognuna schizzarono fuori altri tre uomini, tutti professionisti a giudicare dalla rapidità e dall’efficienza con cui si muovevano.

Nel visore notturno la sagoma colossale di Iboga appariva più luminosa rispetto a quelle dei soldati, emettendo una maggior quantità di calore. La kefiah drappeggiata sulla testa sembrava più scura del cranio, come pure il lanciarazzi agitato come una mazza, per incitare i suoi uomini e coordinare l’attacco. Riparandosi dietro la prima macchina, due di essi puntarono le armi contro i cancelli del carcere. Altri andarono a piazzarsi tra gli alberi per poter sparare da posizioni laterali. Kincaid intuiva con chiarezza il piano di Iboga: semplice, pulito e aggressivo. Freddy, con i suoi quattro uomini, e i fedelissimi di Poe si trovavano intrappolati tra un’efficiente forza d’assalto all’esterno della prigione e una moltitudine di ex ufficiali all’interno, pronti ad aggredire i propri carcerieri non appena avessero udito il fragore del primo razzo esplosivo.

L'occhio della fenice
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