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Bill Pounds si diresse a passo rapido alla sua Taurus verde metallizzato parcheggiata nella zona riservata. Rob, il suo collega, un uomo serio che di secondo lavoro faceva il detective al dipartimento di polizia di Houston, era seduto al posto di guida. Osservarono un taxi Fiesta rosso e bianco fermarsi all’ingresso dell’edificio. Il tizio dall’aspetto di un uomo d’affari e la ragazza in tailleur estivo salirono a bordo.
Pounds e Rob avevano ordinato all’autista del taxi di tenere il cellulare acceso. Udirono chiaramente la donna dire: «Brown Convention Center».
La Taurus seguì il taxi sulla Sam Houston Tollway, tenendosi a distanza. «Al Brown questa settimana ci sono due congressi, quello dell’Associazione nazionale dei contabili afroamericani e dei titolari di soccorso stradale del Texas. Ho la sensazione che i nostri amici non parteciperanno a queste interessanti iniziative.»
«Superali» decise Pounds. «Li aspetterò all’ingresso.»
Jessica Kincaid si avvicinò e bisbigliò: «Che cosa ti ha detto?».
«Ne parliamo dopo.»
Janson si appoggiò allo schienale e osservò il paesaggio fuori dal finestrino. Houston era un luogo caldo e arido, privo di alture e di storia, con pochi passanti e troppe automobili. A Janson venne in mente per contrasto Londra, con i suoi marciapiedi affollati, i palazzi antichi e l’oasi verde di Regent Park, il giorno in cui quelli delle Operazioni Consolari avevano mandato Jessica Kincaid a ucciderlo.
A quell’epoca lei era già molto in gamba, ma non aveva ancora affinato con l’esperienza tutti i suoi talenti. Era ancora ingenuamente disposta a credere ai suoi superiori, sicura di sé e sprezzante del pericolo fino all’imprudenza potenzialmente letale. Quando lui l’aveva trascinata giù dalla sua postazione da cecchino, sottraendole le armi e puntandogliene una alla testa, lei lo aveva sfidato: «Sei in inferiorità numerica, Janson. Questa volta niente grassoni dell’ambasciata. Questa volta hanno mandato solo i migliori».
I migliori erano i tiratori scelti del Lambda Team. E Jessica Kincaid era la loro esperta di Janson, a cui aveva dedicato la sua «Biografia di una spia» richiesta dagli istruttori delle Operazioni Consolari. I tiratori scelti del Lambda agivano in piccole unità indipendenti (una delle ragioni per cui era ancora vivo) e avevano il difficile compito di localizzare il proprio obiettivo, anziché affidarsi alle indicazioni di un basista. Ce n’erano cinque, posizionati su edifici o tra gli alberi. Se fosse uscito dal parco, ci sarebbero stati altri uomini armati di Glock in attesa.
Aveva tirato Jessica giù dall’albero senza sapere che fosse una ragazza, fino a quando non l’aveva immobilizzata. Era incredibilmente forte e agile, dotata di una straordinaria capacità di mira, perspicace e molto allenata a mentire. L’aveva persa di vista una frazione di secondo e lei ne aveva approfittato per afferrare l’arma più vicina e colpirlo in testa con la rapidità di un serpente a sonagli.
«A cosa pensi?» gli chiese lei.
«Stavo pensando al nostro primo appuntamento al buio, a Londra» rispose con un sorriso a beneficio del taxista, il quale continuava a osservarli dallo specchietto retrovisore. Janson non vedeva oltre lo schienale, ma con ogni probabilità l’uomo aveva ancora il cellulare in grembo, rivolto a faccia in su.
Jessica gli sorrise a sua volta. «Ti ricordi quando ci siamo stesi sull’erba?»
Janson si sfiorò la tempia, nel punto in cui lei gli aveva quasi procurato una commozione cerebrale colpendolo con una sbarra d’acciaio. «Come se fosse adesso.»
La volta successiva si erano incontrati ad Amsterdam. Lei era riuscita a scovarlo prendendolo alla sprovvista e lui si era visto spacciato, ma aveva mantenuto la calma ed era soddisfatto di come aveva accettato l’inesorabile: non aveva dubbi di essere sul punto di morire. Lei era stata programmata per uccidere e niente l’avrebbe fermata.
Il taxi rallentò, avvicinandosi allo svincolo per il centro congressi.
Jessica Kincaid osservò Paul prelevare due banconote da venti dollari dal rotolo che portava sempre con sé. Il taxi andava pagato in contanti: niente ricevuta, nessuna traccia, andarsene velocemente. Janson la vide guardare il denaro. Tutto era cominciato con i soldi. A sedici anni, se n’era andata da Red Creek, nel Kentucky, il giorno in cui aveva preso il diploma di scuola superiore. Aveva acquistato un biglietto per un autobus con una mazzetta di banconote prelevata dal registratore di cassa della sgangherata stazione di servizio del padre. Quel padre che l’aveva tirata su da solo alla morte della moglie, e le aveva insegnato a cacciare, pescare, riparare motori e usare le armi. Non le permetteva di occuparsi di mansioni femminili, perché vedere la figlia cucinare, pulire, mettere in ordine la casa gli avrebbe ricordato troppo la moglie scomparsa.
«Ma potresti sempre tornare a casa e restituirgli tutto con gli interessi.»
«Ci ho pensato. Sul serio.»
«Un giorno o l’altro potresti farlo davvero.»
«Dici, Janson? E come potrei risarcirlo per il fatto di averlo tradito?»
«Ti ho vista fare cose più difficili.»
«Sembravano più difficili.»
«Troverai il modo.»
«Già. Prima o poi magari lo farò.»
Bill Pounds osservò Janson e Kincaid pagare il taxi, entrare nel Brown Convention Center e dirigersi verso il passaggio di comunicazione con l’Hilton, dove potevano alloggiare, oppure incontrare qualcuno, o forse solo salire su un altro taxi. Li seguì, mimetizzato tra il viavai della folla di persone. A un tratto si fermarono davanti alle toilette. La donna entrò, l’uomo proseguì. Pounds decise di continuare a seguirlo. Dopo pochi secondi l’uomo si fermò, a una decina di metri dalle toilette, e tornò indietro, come se ci avesse ripensato e volesse andarci anche lui.
L’agente della sicurezza della ASC non cambiò direzione né si fermò. Continuò a camminare con la stessa andatura, evitando il contatto visivo, innocente come una delle tante persone che si affrettavano lungo il corridoio. Janson però lo urtò volutamente. L’ex Ranger era un uomo robusto di almeno novanta chili, ma ebbe l’impressione di andare a sbattere contro un muro di cemento.
«Di’ a Doug Case di crescere.»
Un paio di occhi grigio ardesia lo trafissero.
Pounds cercò di bluffare. «Cosa?»
«Te lo ripeto: “Di’ a Doug Case di crescere”.»
«Ci conosciamo?»
La donna era alle sue spalle e lo apostrofò con un marcato accento del Kentucky. «Ehi, amico, come andiamo?» esclamò afferrandogli il gomito. Una scossa di dolore insopportabile gli attraversò un nervo del braccio di cui non sospettava neppure l’esistenza, gli si annebbiò la vista. Subito dopo, si ritrovò appoggiato alla parete, mentre i due si avviavano con tutta calma verso l’Hilton.
La missione richiedeva per prima cosa di programmare i percorsi per entrare e uscire dal campo dell’FFM sul Pico Clarence.
Nel taxi, diretti nuovamente all’Hobby Airport, Paul Janson scambiò alcuni sms con il trafficante d’armi di cui si fidava di più, Neal Kruger, e con il vicecapo della polizia sudafricana, Trevor Suzman. Jessica Kincaid, collegata a Internet sul suo iPhone, cercò mappe e cartine, le inviò al suo notebook sull’aereo e si mise in contatto con il francese che gestiva in Europa gli elicotteri necessari all’operazione.
Continuarono a raccogliere le informazioni preliminari mentre l’Embraer si staccava dalla pista di decollo. I telefoni satellitari Inmarsat utilizzavano protocolli IP Tor in una rete virtuale privata. Sui monitor Aquos 1080 apparvero le mappe e le carte locali inviate pochi minuti prima dal cellulare.
Janson si era fatto un’idea abbastanza chiara di come preferiva arrivare sul posto, alle spalle dei trafficanti di armi, ma doveva vagliare tutte le alternative possibili, dalla meno ovvia all’improbabile. Un’accurata valutazione preventiva delle varie opzioni era fondamentale. Se le circostanze fossero cambiate all’improvviso, avrebbe potuto procedere con efficienza, anziché dover elaborare una nuova strategia perdendo tempo prezioso.
«Gli elicotteri?»
«L’EC 135 è dotato di un serbatoio supplementare di carburante e ci consentirebbe un’autonomia di cinquecento miglia, tra andata e ritorno» rispose Kincaid. «È una macchina biturbina molto potente, si trova facilmente in Europa e senza troppe difficoltà anche in Africa occidentale. Atterrare nella giungla è abbastanza complicato, ma non impossibile. Ho individuato tre siti nei pressi delle pendici del Pico Clarence, ma le mappe topografiche non sono troppo dettagliate e le foto satellitari non riescono a superare la barriera della foresta.»
Janson esaminò le mappe topografiche del Pico Clarence sul monitor. Tutte le informazioni sul territorio circostante la zona vulcanica risalivano alle ricerche condotte dal governo portoghese negli anni Venti. Da allora era passato quasi un secolo.
Poi fece scorrere le mappe della costa africana. «Il problema con l’elicottero è decidere da dove partire. Cinquecento miglia tra andata e ritorno, duecentocinquanta a tratta, al massimo, significa che possiamo decollare solo da Nigeria, Camerun, Guinea Equatoriale e Gabon. Gli ultimi tre aspettano di vedere chi vincerà tra i ribelli e il dittatore, dunque sicuramente non ci daranno il permesso di decollare dai loro territori. La Nigeria sembra aver preso le parti di Iboga. Ma non mi fido troppo del governo nigeriano.»
«Non hai trovato il tuo contatto, la funzionaria nigeriana?»
«Attualmente si trova a Londra. E poi, anche con il serbatoio ausiliario, l’EC 135 non ci offre molto margine dal punto di vista dell’autonomia.»
«Il Super Puma ha un’autonomia doppia, e così anche un Sikorsky S-76. Ce ne sono parecchi nelle aree petrolifere. Il tuo amico Doug non dovrebbe avere difficoltà a procurarcene uno.»
«Con un S-76 potremmo decollare da Ghana, Togo, Benin e Congo, ma anche qui i governi intendono rimanere neutrali finché non si sa chi uscirà vincente dalla rivoluzione. E poi il Puma è un elicottero da diciotto passeggeri. Troppo grande.»
«Un’altra possibilità è partire con un EC 135 da una nave al largo.»
«Ottima proposta. Ma ho un’obiezione: l’FFM penserebbe che appartenga a Iboga e lo abbatterebbe. Attaccano tutti i velivoli sospetti in avvicinamento.»
«Allora lasciamo stare l’elicottero. Potremmo atterrare a Porto Clarence con un volo commerciale o privato e proseguire in auto fino a dove è possibile. Poi continueremo a piedi. Troviamo il medico e torniamo a piedi a Porto Clarence.»
«E nel caso il presidente a vita Iboga volesse ottenere informazioni dal prigioniero sul campo dei ribelli o sulle condizioni di salute di Ferdinand Poe, se pretenderà di interrogarlo, come ci caveremmo dai guai?»
«Avremmo lo stesso problema anche se ci lanciassimo col paracadute. Dovremmo tornare a piedi anche in questo caso. Rimane l’opzione via mare. Partire da una nave al largo, poi a piedi nella giungla. Ritorno a piedi, e di nuovo in barca.»
«Forse dovremmo seguire i trafficanti di armi» rifletté Janson. «In qualche modo loro vanno e vengono dall’isola, dentro e fuori dal campo dell’FFM. Probabilmente corrompono le pattuglie della guardia costiera e i militari di Iboga.»
«Ma, secondo il tuo amico Doug, sono neutrali.»
«Prima ho parlato con Neal Kruger, lo svizzero. Può procurarci degli Starstreak nuovissimi.»
Kincaid spalancò gli occhi. «Fantastico.»
«Potremmo darli ai trafficanti locali e loro in cambio ci farebbero entrare. L’FFM sarebbe ben felice di avere dei missili terra-aria a corto raggio laserguidati. Ci paracadutiamo sul loro gommone, ci separiamo quando siamo in prossimità del campo, entriamo e usciamo rapidamente.»
«E se i trafficanti incontrassero dei problemi?»
«Avremmo comunque la nostra barca in attesa e il punto d’incontro al largo, su una nave di servizio offshore.»
«Anche quella sarà fornita da Doug?»
«No. Il cliente non intende comparire ufficialmente.»
Kincaid continuò. «Altro problema: l’FFM non sarà contento se ce la filiamo con il medico. I trafficanti correranno il rischio di mandare il loro cliente su tutte le furie.»
«Dovremo trovare il modo di convincerli.»
Janson si concentrò sulle mappe topografiche fino a quando si rese conto di essere osservato da Jessica.
«Cosa c’è?»
«Perché Case ci ha fatti seguire?»
Janson si strinse nelle spalle. «Vecchie abitudini da veterano. Sta solo cercando di sentirsi coinvolto.»
«E perché continuava a fare domande su di me?»
«Stessa cosa, solo una vecchia abitudine. Ti stava parecchio antipatico, ho notato. Come mai?»
«È un vero stronzo.»
«Dimmi un po’, hai mai conosciuto un agente segreto che non abbia una personalità supercompetitiva da maschio Alfa, con l’acceleratore sempre spinto al massimo?»
«Io non sono così. E nemmeno tu.»
«Alcuni di noi sanno fingere meglio di altri. Proprio come alcuni fanno di tutto per non mostrare cosa provano a essere inchiodati su una sedia a rotelle.»
«È una carrozzella fantastica. Hai visto come si sono allargate le ruote quando ha alzato il sedile?»
«Tipico di Doug. Ci ha messo l’anima per progettarla a sua misura, durante la convalescenza. Diceva: “Non ho intenzione di rimanere seduto quando tutti gli altri stanno in piedi”. Ha affrontato il suo handicap come se fosse un’operazione segreta.»
«È stato finanziato dalla fondazione?»
«Certo. Doug vorrebbe fornire una sedia così a tutti quelli nelle sue condizioni, ma a centoquarantamila dollari l’una sarebbe una cifra enorme. Comunque, stanno ancora lavorando sui dettagli. E di Kingsman Helms cosa pensi?»
«Bel tipo. Uomo di mondo. Ma non invidio chi deve avere a che fare con lui… Paul?»
«Cosa?»
«Anche Doug Case è uno dei “salvati”?»
«Salvati?»
«Doug Case è uno degli ex agenti salvati da te con il tuo premio “MacArthur genius” clandestino?» volle sapere Jessica.
«Premio MacArthur clandestino? Bello.» Paul Janson sorrise compiaciuto. «Un nome vale l’altro, in questo caso.»
Jessica lo fissò, in attesa della risposta.
Ma Janson non aveva voglia di rispondere. Erano state le regole a tenerlo vivo. Anzi, tutti e due erano vivi grazie alle regole. E la prima di tutte era la necessità di sapere. «Perché me lo chiedi?»
«Questo salvataggio del medico non è un incarico facile.»
«Senza dubbio non è una passeggiata» commentò Janson. «Ma non è nemmeno tremendo come Doug ha fatto credere a Helms. Sarà un semplice dentro e fuori. Infiltrazione ed estrazione.»
«Un campo di ribelli in grado di difendersi da un dittatore cannibale non mi sembra un posto semplice.»
«Abbiamo affrontato di peggio, tu e io.»
«Sto cercando di capire perché ci tieni tanto ad accettare l’incarico.»
«Il prigioniero merita di essere salvato.»
«Questo vale per tante altre persone. È fortunato: la ASC può permettersi la nostra tariffa. Ad attirarti è il fatto che Kingsman Helms e Douglas Case stiano architettando qualcosa di cui non ci hanno parlato?»
«Questo non posso saperlo. Probabilmente stanno solo… dimenticando di dirci tutto.»
«Mentono» concluse lei in tono deciso. «Tu te ne sei reso conto e la cosa ti incuriosisce.»
Jessica conosceva Janson così bene da riuscire a intravedere sul suo volto il guizzo del predatore quando coglie un movimento con la visione periferica.
No, si corresse: Paul Janson non era un animale della foresta, somigliava più a un pirata nell’oceano. Aveva intravisto qualcosa e si stava avvicinando, valutando le possibilità a sua disposizione.
Ma Janson si limitò a scuotere la testa. «Davvero, non so se mentono.» Il lampo sul suo volto si spense. «Però sì, sono curioso, lo ammetto. Per gli Stati Uniti, la Cina e per chiunque altro voglia accaparrarsi una riserva stabile di petrolio, il Golfo di Guinea appare sempre più un’alternativa possibile al Medio Oriente, con tutti i suoi problemi. La posta in gioco è potenzialmente altissima.»
Questo Jessica lo sapeva: era ovvio. Ciò che non le risultava affatto ovvio era quello che Janson non esprimeva a parole e questo la faceva impazzire. Cosa voleva, davvero? Era la persona più complicata che avesse mai conosciuto. Aveva ormai capito che la sua apparente franchezza di fatto era solo un aspetto della sua elevatissima capacità decisionale. Come lei, pensava e agiva rapidamente, una caratteristica necessaria alla sopravvivenza. Ma nel caso di Paul, pensò, la capacità decisionale mascherava una complessità di fondo.
«Ma qui c’è qualcosa d’altro» lo incalzò lei. «Secondo me la tua decisione è influenzata dalla preoccupazione che provi per Doug Case. È questa la verità?»
«La verità?» replicò Janson in tono scherzoso.«La nostra vecchia amica.»
«La tua vecchia amica» rispose lei, e lo osservò chiudersi in se stesso.
Per continuare la sua azione di redenzione, Paul Janson sapeva di dover affrontare la verità ogni giorno: i crimini compiuti al servizio del Paese restavano azioni criminali; l’assassinio dell’individuo più spregevole era comunque un omicidio; un agente efficiente era anche un serial killer; e una lunga serie di omicidi richiedeva un pesante tributo al loro autore, a meno che non avesse una personalità sociopatica.
Ma, come aveva spiegato anni addietro a Doug Case, ammettere la verità poteva salvarlo solo se faceva ammenda. Non poteva cambiare il passato, ma poteva impegnarsi con ogni fibra del suo essere per rimediare al male commesso. Era questo il suo sogno, contrastato giorno dopo giorno dalla realtà, dalle debolezze umane, dai dilemmi morali e dal paradosso di riparare alla violenza commessa con altra violenza.
«Doug è uno dei “salvati”» ammise Janson infine.
«Lo sapevo!» esclamò Jessica trionfante. «La Phoenix. Risorgere dalle proprie ceneri come l’antica Fenice.»
«Doug è stato il primo, ai tempi in cui agivo da solo.»
Doug Case aveva avuto ragione su una cosa: Janson aveva scoperto quasi subito che era impossibile fare tutto da solo. L’uomo che non sopportava le istituzioni era stato costretto a crearne una. Si era rivolto ad alcuni esperti per dare vita alla fondazione Phoenix, per recuperare e riabilitare ex agenti segreti con seri problemi psicologici dovuti alle attività disumane compiute in passato. Una gestione oculata del denaro depositato in vari conti all’estero, una certa audacia nei momenti di crisi finanziaria e un’incredibile fortuna avevano contribuito a costituire dei fondi per sovvenzionare gli ex agenti segreti e aiutarli a riqualificarsi, nelle università, nel servizio pubblico o nelle istituzioni comunitarie. I lavori pagati, come quello del recupero del medico della ASC, servivano a guadagnare il denaro per gli stipendi di professionisti, operatori specializzati, esperti informatici e hacker.
Nessuno conosceva la storia nei dettagli. Jessica era speciale, e sapeva più cose di altri.
«Con Doug è stato un vero successo. Se ci pensi, è il capo della sicurezza della compagnia petrolifera più grande al mondo. Nel suo poco tempo libero fa il fratello maggiore, il padre e lo zio in un centro di riabilitazione per ex membri di gang rimasti invalidi nel corso di sparatorie. Per Natale, ognuno di loro riceverà una di quelle supersedie a rotelle.»
«Ma lui, cosa ha fatto? Da cosa l’hai salvato?»
«Nulla che tu debba sapere.»
«Certo, non è necessario che io lo sappia, ma se mi dovesse capitare di trovarmi tutt’a un tratto appesa a testa in giù, a guardarti mentre vieni torturato e in attesa del mio turno, mi piacerebbe pensare di esserci cacciati in questa avventura sapendo ciò che facevamo.»
«Curioso che tu parli di tortura.»
«Cosa c’è di curioso nella tortura?»
«Doug Case era assolutamente contrario alla tortura. Secondo lui ognuno di noi, cittadini, soldati, agenti segreti, deve impegnarsi nella guerra contro il terrorismo. Non possiamo permetterci di distruggere la parte migliore di noi, la nostra civiltà, i nostri principi morali, per garantire la nostra incolumità. Quando delle vittime innocenti vengono uccise perché un terrorista non è stato torturato per ottenere informazioni, muoiono al servizio del bene più grande.»
«E sarebbe?»
«Il nostro senso morale.»
«Quelli delle Operazioni Consolari saranno stati entusiasti di lui.»
Janson riprese Jessica seccamente. «Forse ricorderai che le Operazioni Consolari non erano un gruppo di discussione. Lui ha parlato di tutto questo solo dopo.»
«Dopo cosa?»
«Dopo avere sparato al suo collega, perché smettesse di torturare un prigioniero in Malesia.»
«Ha sparato a un collega?»
«Due colpi alla testa.»
«Ha sparato a un americano? Gesù, Paul. Non mi stupisce che sia su una sedia a rotelle. Chi ce l’ha fatto finire? Tu?» chiese con gli occhi sgranati.
«La vendetta non è il mio stile, Jesse. Lo sai.»
La ragazza lo scrutò con sguardo indagatore. «Allora chi è stato?»
«Ci si è messo da solo, su quella sedia a rotelle.»
«Come ha fatto?»
«Doug è caduto dal tetto della nostra ambasciata a Singapore.»
«Ha tentato di suicidarsi?»
«Esatto. Ma il corpo non segue sempre la mente. Si era lanciato troppe volte con il paracadute per precipitare passivamente al suolo. Il suo corpo ricordava come doveva cadere. Gli ha salvato la vita, anche se non la colonna vertebrale.»
«Cristo santo… ma mi avevi detto che gli avevano sparato.»
«Quello è stato in un’altra occasione.»
«E c’entravi anche tu?»
«Quando l’ho trovato a chiedere l’elemosina su Washington Boulevard a Ogden, nello Utah.»
«E come l’hai rintracciato? Un ospedale per veterani?»
«Doug è cresciuto a Ogden. Quando tutto va male, si torna sempre a casa.»
Jessica Kincaid scosse la testa. «A volte mi sento in colpa.»
«Per cosa?»
«Per tutte le buone azioni che fai tu, mentre io non faccio niente.»
Janson rise. «In squadra, un crociato basta e avanza! Sul serio, Jesse, tu sei giovane. Stai ancora affinando le tue capacità, devi ancora imparare tante cose. Si parte per l’Africa, va’ a informare Mike.»
Jessica Kincaid si alzò e aprì la porta della cabina di pilotaggio. Dodicimila metri sotto il muso allungato dell’Embraer si estendevano campi coltivati a perdita d’occhio, di un verde smagliante nella luce del sole. Fiumi e torrenti erano costeggiati da alberi.
Appoggiò le mani sulle spalle di Ed e Mike, i due piloti. «Ragazzi, sapete dov’è l’Africa?»
«Più o meno» rispose Ed.
«Il capo vuole andare là.»
Mike domandò: «In quale punto preciso dell’Africa?».
«Port Harcourt, in Nigeria.»
La ragazza osservò Ed aggiornare la destinazione sul sistema di gestione del volo Honeywell. Un software di ultima generazione integrava il WAAS GPS dell’Embraer, i dati di WayPoint e il sistema di navigazione Future Air per le trasvolate oceaniche.
Ed iniziò a calcolare la rotta per ottimizzare le distanze e il consumo di carburante. «Vira a destra» disse a Mike dopo qualche istante, mostrandogli la nuova rotta. «Faremo rifornimento a Caracas.»
Mike osservò: «Sarà meglio dormire un po’».
«Non appena avrò comunicato la nostra lista dei passeggeri alla dogana.»
Mike si girò e rivolse un sorrisetto alla ragazza. «Signorina Jessica, se avessi bisogno di spostarmi mentre Ed dorme, le andrebbe di pilotare un po’?»
«Con piacere!» esclamò lei, sempre entusiasta di potersi sedere ai comandi di un aereo. Rimase in ascolto mentre Mike comunicava via radio con il centro di controllo del traffico aereo sull’Atlantico per richiedere il permesso di modificare la rotta. Appena ricevette l’autorizzazione, inclinò il grande jet argenteo sull’ala destra.
«Torno subito, vado un momento dal capo» annunciò Jessica.
Si diresse rapidamente nella cabina principale, reggendosi per non cadere sul pavimento in pendenza. Janson era seduto sul lato più in alto in quel momento e guardava pensoso il cielo fuori dal finestrino. Qui non si tratta più solo di Doug Case o del medico, pensò lei. L’ex agente soprannominato «la Macchina» sentiva che qualcosa non andava. La ragazza avrebbe voluto indagare e chiedergli cosa lo turbava. Ma, anche se Janson avesse ammesso di essere preoccupato, capì dall’inclinazione della sua testa che non era ancora in grado di esprimere il suo malessere con le parole.