4
Nell’accampamento del movimento di liberazione Free Foree, nascosti nelle grotte che punteggiavano il cuore montuoso e ricoperto di foreste dell’isola, sette uomini aspettavano terrorizzati, con le braccia legate ai tronchi di alberi sempreverdi dal fitto fogliame.
Lame di luce solare tagliavano la volta degli alberi avviluppati dalle liane, oltre venti metri sopra le loro teste. Il rumore lontano di un ruscello che scorreva sul fianco della montagna copriva in parte i suoni delle attività del campo, facendo sentire i prigionieri ancora più isolati e impotenti. Non riuscivano a udire le grida nella caverna dov’era alloggiato l’ospedale da campo.
«Cos’hanno fatto a mio padre?» chiese in tono autoritario Douglas Poe al dottor Terry Flannigan. Il figlio del leader dell’FFM era un venticinquenne alto, di pelle scura, robusto, con l’espressione dura e i capelli intrecciati nelle tipiche acconciature africane.
«Più o meno tutto ciò che si può fare a un uomo senza ucciderlo» rispose il medico, sforzandosi di apparire abbastanza distaccato da reggere lo sguardo del giovane. Stava tentando di curare Ferdinand Poe, e soffermarsi a riflettere sugli esseri umani che l’avevano ridotto in quello stato non sarebbe servito a molto.
Flannigan osservò con cautela il giovane Poe. Era sconvolto dalla vista del padre torturato. Una mossa sbagliata, pensò il medico, e anche lui si sarebbe ritrovato legato a un albero insieme agli altri, in attesa della fucilazione. Flannigan rabbrividì. Sulle pendici del Pico Clarence l’aria era fredda e nella grotta lo era ancora di più.
L’unica parte del corpo di quel povero diavolo a non essere stata martoriata era il volto. Aveva gli occhi chiusi, perché Flannigan gli aveva somministrato una buona dose di morfina presa dal kit di pronto soccorso della Amber Dawn, ma se non si pensava al resto, guardandolo in faccia si vedeva un uomo di sessantotto anni un tempo robusto, con baffi e sopracciglia brizzolate, capelli crespi e tinti di nero, con la ricrescita bianca alla radice, grandi orecchie, naso sottile da portoghese e mascella volitiva. Il doppio mento e le guance paffute rivelavano il suo debole per la buona tavola. Flannigan trovava difficile credere che Ferdinand Poe avesse rinunciato ai privilegi di cui godeva per guidare una rivoluzione.
Così come non riusciva a capacitarsi di essere prigioniero dei ribelli.
«Se lui muore, tu sarai il prossimo!» lo minacciò il figlio.
«Fottiti!» ribatté il medico. Non aveva niente da perdere. Non gli avrebbero torto un capello, almeno fino a quando il vecchio non avesse tirato le cuoia. Intuiva che, sebbene al campo avessero bisogno di un medico per curare decine di feriti, se suo padre fosse morto Douglas non avrebbe esitato a premere il grilletto. Così come era sul punto di farlo con i poveracci legati agli alberi. Certo Flannigan non avrebbe pianto per quei bastardi. Erano i guerriglieri che avevano attaccato la Amber Dawn e sparato a tutti gli altri, quindi si meritavano la loro fine.
Ma, stranamente, Douglas Poe stava accusando i propri soldati di qualcosa che Terry Flannigan non capiva. Sapeva solo che il capo del commando, lo psicopatico sudafricano che aveva ucciso Janet, era scomparso prima che gli altri venissero legati agli alberi. Poe aveva spedito un centinaio di uomini a cercarlo nella giungla, con l’ordine di ucciderlo. Ma Flannigan aveva osservato il sudafricano durante il lungo tragitto in gommone fino all’isola e la faticosa marcia attraverso paludi e foreste, e si sarebbe stupito molto se avessero catturato la loro preda.
Douglas Poe prese la mano del padre e la sentì muoversi quando lo toccò. «Ma non gli avevi dato la morfina?» sbraitò in tono accusatorio.
«Ti ho detto di non toccarlo» lo redarguì il medico. «Se gli do un’altra dose andrà in coma, e qui non avete la strumentazione adatta per assisterlo.»
«Ma quando…?»
Terry Flannigan ricorse a una risposta antica quanto Ippocrate e probabilmente ancora in uso presso gli sciamani: «Bisogna aspettare».
Douglas Poe estrasse la pistola dalla fondina allacciata alla coscia, si girò e uscì di corsa dalla grotta. I miliziani legati agli alberi tesero al massimo le funi che li tenevano stretti ai tronchi e si agitarono nel vederlo avvicinarsi con la pistola spianata. Un uomo gridò. Un altro diede un lamento. Il sergente si rivolse a Poe in tono misurato: «Douglas, compagno, abbiamo soltanto eseguito i tuoi ordini».
«Io non vi avevo ordinato di ucciderli.»
«Sì, invece. Hai detto di eliminare l’equipaggio della petroliera e di affondare la nave.»
«Non è vero!»
«Douglas. Fratello. Compagno. L’hai detto alla radio, ti ho sentito con le mie orecchie.»
«Bugiardo! Io non ho mai parlato con te via radio.»
«Ti ho sentito mentre lo dicevi al sergente maggiore Van Pelt: “Sparategli e affondate la nave”.»
«Avete distrutto tutto ciò per cui aveva lavorato mio padre!» sbraitò Douglas, fuori di sé. Si spostava a grandi passi tra gli alberi, agitando la canna della pistola in faccia ai soldati. «Mio padre aveva fatto dei piani per trattare con la compagnia petrolifera, per liberare e ricostruire la nostra nazione in ginocchio. E voi cosa avete fatto? Avete ammazzato i dipendenti della compagnia!»
«Avevi dato al sergente maggiore Van Pelt la lista dei membri dell’equipaggio.»
«Non è vero!»
«Me l’ha detto lui.»
Douglas Poe armò la pistola, premette la canna alla tempia del sergente e tirò il grilletto. Poi fece lo stesso passando da un albero all’altro e sparò anche agli altri. Dopo trenta secondi era tutto finito. Terry Flannigan guardava dall’imboccatura della grotta, terrorizzato e in preda alla nausea.
Si chiese se sarebbe stato in grado di scappare, come aveva fatto il sudafricano. La Foree era lunga una cinquantina di chilometri e larga trenta. Millecinquecento chilometri quadrati.
I ribelli occupavano le alture centrali piuttosto saldamente, a giudicare dalle mitragliatrici pesanti che Flannigan aveva visto montate sugli alberi e dai relitti carbonizzati degli elicotteri di Iboga abbattuti. Il dittatore controllava la pianura che si estendeva fino all’Oceano Atlantico, in apparenza quasi irraggiungibile. Nel mezzo c’era la giungla fitta, calda e umida, una sorta di terra di nessuno nella quale i ribelli si muovevano con estrema cautela.
Doveva cercare di fuggire?
Era in pessima forma. Non faceva esercizio fisico da anni e beveva troppo. Non era un soldato o un combattente e non conosceva bene la giungla. Avrebbe dovuto correre parecchio, se voleva avere qualche speranza di non essere catturato e ucciso. Ma in caso di morte del vecchio leader, lo avrebbero giustiziato comunque. Doveva tentare la fuga alla prima occasione possibile. Uno dei ragazzini che si affaccendavano nel campo lo strattonò per un braccio. Dell’FFM Flannigan apprezzava un’unica cosa, e cioè l’assenza di bambini soldato. Quelli presenti nell’accampamento erano orfani, tenuti al sicuro dai ribelli, e si occupavano di piccole mansioni come procurare cibo e acqua.
«Si sveglia.»
«Come?»
«Il ministro Ferdinand si sveglia.» Ferdinand Poe era stato ministro degli Esteri prima dell’ascesa al potere di Iboga, e lo chiamavano ancora così. Flannigan tornò di corsa al letto da campo di Poe.
Ferdinand Poe lo fissava con le palpebre socchiuse nei fumi della droga, come un vecchio marinaio che cerca di vedere nella nebbia. Aveva una voce profonda, adeguata alla sua figura massiccia e autorevole. La voce di un uomo sicuro di sé.
«Chi è lei?»
«Sono il suo medico» rispose Flannigan, con il cuore pesante. Non sarebbe andato da nessuna parte. «Come si sente, signore?»