19

Due giorni dopo, Janson inviò a Jessica Kincaid un sms con un avvertimento.

Non è SAR. È SR. Sécurité Referral. Squadra di recupero per criminali internazionali.

Fa’ molta attenzione.

Lasciò Baghdad su un volo della Austrian Airlines per Vienna. Aver trovato un nome era un enorme passo avanti. In realtà, non poteva avere la certezza che l’agenzia Sécurité Referral esistesse davvero, né che fosse francese. Le ricerche di Michel Sarkis avevano fruttato solo quel nome. Sarkis aveva giurato di non essere riuscito a ottenere dai suoi contatti maggiori informazioni, e Janson gli aveva creduto.

In ogni caso, se la Sécurité Referral esisteva, sembrava avere una clientela molto particolare: dittatori sul punto di essere rovesciati. Com’era ovvio, non aveva un sito web comodamente consultabile da dittatori in difficoltà. Secondo Janson si procuravano i clienti contattandoli nel momento critico. Non prima, però. Era molto rischioso dire a un autocrate che stava per perdere tutto. Si trattava di soggetti dall’ego smisurato, estremamente suscettibili, che potevano reagire con violenza se messi di fronte all’ipotesi della loro fine. Ma i più lungimiranti e scaltri potevano essere disposti a concordare un piano di emergenza. Di solito in previsione di un rovescio di fortuna mettevano le loro favolose ricchezze al sicuro in qualche paradiso fiscale, e diventavano clienti d’oro.

Con un nome su cui lavorare, Janson era pronto a servirsi di tutte le sue armi.

Attraversando a grandi passi i corridoi del nuovo terminal SkyLink per imbarcarsi su un altro volo della Austrian Airlines per Tel Aviv, ricevette un sms urgente da parte di Jessica. Era la prima volta che si faceva viva, da quando gli aveva riferito nei particolari, sulla loro linea satellitare criptata, del suo incontro con il «tuffatore», per concludere di non essere i soli dai quali Flannigan stesse fuggendo.

Doc forse a Cape Town. Puoi annunciare il mio arrivo in Sudafrica?

Janson si mise in contatto con Trevor Suzman, vicecapo della polizia sudafricana, chiedendo la sua collaborazione.

«E io cosa riceverò in cambio della mia generosità?» chiese Suzman.

«Una compagnia interessante» fu la risposta sibillina.

Inviò un altro sms a Jessica con il numero di telefono fornitogli da Suzman.

All’aeroporto Ben Gurion, un impiegato dell’immigrazione israeliano piuttosto brusco, con la faccia da ragazzino e il taglio di capelli di chi ha appena terminato il servizio militare esaminò minuziosamente il passaporto canadese di Janson. Lui attese con calma, mantenendo un’espressione neutra. Adam Kurzweil, dirigente dei servizi di sicurezza, era stato altre volte nel Paese e compariva già nei loro computer.

Se, cosa alquanto improbabile, non c’era stato qualche errore nella realizzazione del nuovo passaporto di Kurzweil, sarebbe stato accolto come un facoltoso uomo d’affari che per soddisfare le esigenze dei dipartimenti di sicurezza aziendale e delle milizie private d’oltreoceano si rivolgeva alla formidabile industria degli armamenti israeliana.

L’impiegato chiese di vedere la matrice della sua carta d’imbarco. Janson gliela presentò.

Il giovane digitò qualcosa sulla tastiera, guardò il monitor e si alzò di scatto, portando con sé il passaporto e la carta d’imbarco di Janson. Era un comportamento abbastanza tipico da parte del personale dell’aeroporto Ben Gurion. A quel punto poteva aspettarsi di essere lasciato in attesa per un certo tempo, e/o di essere sottoposto a un serrato interrogatorio sulle sue frequentazioni e i suoi contatti in Israele.

Tuttavia il laboratorio di duplicazione gestito dal Mossad, il servizio di spionaggio israeliano, nei meandri dell’aeroporto, avrebbe potuto creargli qualche problema. Il laboratorio del Mossad non era attrezzato solo per verificare l’originalità di un documento, ma anche per effettuarne la clonazione. Di conseguenza un agente israeliano avrebbe potuto entrare in un altro Paese esibendo il passaporto contraffatto di Janson. Anzi, di Adam Kurzweil. La cosa peggiore sarebbe stato se i tecnici del Mossad avessero rilevato difetti o irregolarità nel documento durante le operazioni di duplicazione.

Le videocamere di sicurezza disseminate sul soffitto erano puntate sulle file di viaggiatori in attesa del visto d’ingresso e su tutti i banchi dell’immigrazione. Janson si concesse un’espressione corrucciata. Si guardò intorno con impazienza e dopo un po’ iniziò a tamburellare le dita sul banco, la classica immagine di un uomo molto impegnato il quale, pur comprendendo le necessità della sicurezza, inizia ad averne abbastanza. Passarono dieci minuti buoni. La fila alle sue spalle si allungava a vista d’occhio. Finalmente l’impiegato ritornò con un suo superiore, una donna sui trent’anni, che ordinò a Janson di seguirla in una stanza per i colloqui. Lei sedette a una scrivania semplice e anonima, davanti a un computer. Janson non venne invitato ad accomodarsi e non poteva vedere il monitor. La funzionaria scriveva rapida, gli occhi fissi sullo schermo. Janson ne studiò il volto: naso e orecchie aggraziati, fronte alta, capelli raccolti in uno chignon, bocca tirata, occhi inespressivi. Mi hanno mandato apposta una funzionaria antipatica, pensò.

«È passato un po’ di tempo dalla sua ultima visita in Israele, signor Kurzweil» commentò, senza staccare lo sguardo dal monitor.

Janson rispose: «Sarei tornato molto prima, ma il mio ortopedico mi ha proibito di sollevare oggetti più pesanti di un calice da vino ed è stata necessaria parecchia fisioterapia postoperatoria, prima di riuscire a trasportare una borsa da viaggio». La teneva appesa alla spalla ed era già stata perquisita più volte.

«È tutto qui il suo bagaglio?» Sembrava contrariata alla vista del costoso borsone di Kurzweil, in tessuto tecnico con finiture in morbido cuoio.

«Viaggio solo con il bagaglio a mano» rispose Janson, aggiungendo con un sorriso: «Così gli addetti alla sicurezza del controllo bagagli hanno meno preoccupazioni».

Il sorriso non sortì alcun effetto. «Qual è lo scopo della sua visita?»

«Acquisti.»

«Di cosa?»

«Prima di rispondere, desidero rispettosamente informarla che il governo canadese ha seguito l’esempio del Foreign Office britannico e ha consigliato ai cittadini di non consegnare documenti di viaggio alle autorità aeroportuali israeliane, a meno che non sia assolutamente necessario.»

«È assolutamente necessario» ribatté lei di rimando. «Ripeto: qual è lo scopo della sua visita?»

Janson rispose con calma. Era impossibile avere la meglio alzando la voce, con un israeliano: ed era doppiamente vero nel caso dei funzionari di quell’aeroporto. Nondimeno, replicò in tono tagliente: «Preferirei evitare che un passaporto identico al mio possa cadere nelle mani di un agente che mi somiglia, incaricato di eliminare qualche leader di Hamas».

«Se si riferisce all’incidente di Dubai distorto dai media, è vittima di un pregiudizio diffuso.»

L’intelligence israeliana poteva essere geniale, oppure incredibilmente maldestra. Il Mossad per lo più otteneva ottimi risultati, ma di tanto in tanto cadeva in eccessi quasi ridicoli, come inviare venti agenti per uccidere un terrorista, farsi riprendere dalle videocamere di controllo e finire su YouTube.

«Mi restituisca il passaporto.»

Con sollievo di Janson, la donna lo fece scivolare da sotto la tastiera e lo appoggiò sulla scrivania, di fronte a sé. Non poteva prenderlo ma almeno non lo stavano clonando mentre lei lo teneva bloccato con le sue domande.

«Cos’è venuto ad acquistare?»

«Fucili automatici, mitragliatrici leggere e pistole.»

«Per il suo governo?»

«Per i miei clienti.»

«Chi sono?»

A quella domanda Paul Janson avrebbe risposto con la consueta imperturbabilità, freddo e controllato come sempre, ma il suo alter ego aveva un temperamento molto diverso. Adam Kurzweil era irritabile e un po’ sbruffone. Si concentrò per simulare rabbia e indignazione, divenne rosso in faccia e sbottò.

«Ora sta davvero esagerando, signora! I miei documenti sono in regola, le mie credenziali ineccepibili. Non ho intenzione di continuare a subire il suo terzo grado!»

«Per sua informazione, signor Kurzweil, spetta a me decidere se e quando il “terzo grado” è terminato. O se passare a misure più drastiche.»

Janson alzò la voce. «Forse a voi burocrati la notizia non è ancora giunta, ma l’industria degli armamenti israeliana, un tempo incontrastata, oggi deve vedersela con la concorrenza dei cinesi della Norinco. La Norinco è pronta a fagocitare almeno metà del vostro mercato, per non parlare dei nuovi arrivati serbi, turchi e brasiliani, agguerritissimi e pronti a ungere le ruote giuste. Mi creda, signora, se ostacola i miei ingenti acquisti la principale industria del suo Paese potrebbe passare a misure drastiche nei confronti della sua carriera.»

La donna si alzò di scatto, fissando freddamente un punto tra le sopracciglia di Janson.

«Benvenuto in Israele, signor Kurzweil.» Appose un timbro su un visto d’ingresso e non sul passaporto, un escamotage che permetteva a un uomo d’affari proveniente da Israele di entrare nelle nazioni arabe.

Janson infilò in tasca il passaporto. Poi decise di sorprenderla con un sorriso seducente e un’innocente bugia: «La ringrazio. E mi permetta di dirle che se non avessi già l’agenda tutta impegnata, la inviterei volentieri a cena».

La donna ricambiò il sorriso, ora molto più disponibile rispetto alla durezza mostrata prima. «Se non fossi sposata, avrei potuto accettare.»

Si strinsero la mano. Janson andò a noleggiare una macchina e guidò per un breve tratto, dall’aeroporto fino a un lussuoso residence per anziani a Nordiya, un sobborgo di Tel Aviv. Nella luce mediterranea del tramonto, in una perfetta giornata di giugno, era uno scenario suggestivo. Giardini rigogliosi, quinte di palme e giochi d’acqua circondavano palazzine in colori pastello, con il tetto rosso. Un magnifico club con fioriere alle finestre si affacciava su una grande piscina scoperta.

Un normale ex agente israeliano del Mossad non avrebbe potuto godersi la pensione in un posto come quello, in compagnia di ricchi medici stranieri, avvocati e uomini d’affari. Ma Miles Donner non aveva solo la pensione da dipendente pubblico a cui attingere, avendo lavorato tutta la vita sotto copertura, nella veste ufficiale di reporter di viaggi con base a Londra.

Paul Janson lo chiamava «il Titano».

«Per una spia è meglio essere ricordato per i fallimenti che per i successi», questo il motto che Donner aveva insegnato a Janson quando questi aveva circa venticinque anni e lui quaranta di più. «Anzi, è meglio non essere conosciuti affatto.»

Nessuno mai gli aveva dato un consiglio migliore. E nessuno conosceva più segreti di lui. Aveva una prodigiosa capacità di captare tutte le voci che circolavano e di trarne le conclusioni corrette. Nella sua lunga carriera al servizio di Israele non aveva mai sprecato un’occasione.

Donner però non aveva l’aspetto del titano. Janson lo ricordava come un uomo dai lineamenti raffinati, gli occhi sensibili e i modi disinvolti e distaccati di un gentleman inglese di mezza età. Chiunque lo avrebbe scambiato per un avvocato o per un medico. «Meglio essere sottovalutati che temuti. Sii sempre gentile. Usa il pugno di ferro solo quando è indispensabile, senza preavviso» gli ripeteva.

Rimase colpito nel vedere Donner, debole e invecchiato, alzarsi a fatica per accoglierlo nel grande atrio del residence. Non aveva mai pensato che il tempo sarebbe riuscito a infierire su un uomo del genere. Stranamente, tuttavia, Donner appariva meno delicato da vecchio, come se non avesse più la forza di nascondere la sua vera natura. Aveva ottantacinque anni, qualche ciuffo di radi capelli bianchi ai lati della testa calva, le orecchie grandi e il naso sporgente da anziano. Portava gli occhiali, con la montatura nera. Ma lo sguardo era quello di sempre, come se avesse due paia di occhi: il primo cordiale e amichevole, l’altro, appena percepibile, concentrato come un riflettore sui suoi pensieri più profondi.

«Ho una sorpresa per te» esordì Donner, con il suo aristocratico accento britannico. «Vieni con me.» Snobbò l’ascensore e imboccò invece le scale, pur con qualche incertezza. Istintivamente, Janson gli si avvicinò per aiutarlo in caso di bisogno. Donner lo notò, ma non disse niente. Andarono fino in fondo alla gigantesca area della piscina. A un tavolo all’ombra di un gruppo di palme sedevano altri due uomini che Janson aveva conosciuto in passato. Grandig era più giovane di Miles, un vigoroso settantenne. Zwi Weintraub doveva avere almeno novantacinque anni e li dimostrava tutti, dalle guance incavate ai tubicini dell’ossigeno nelle narici.

Weintraub accolse Janson scherzosamente. «Il nostro giovane Saul! Anche tu ormai vai per gli ottanta, o sbaglio?»

«E lei inizia a dare del filo da torcere a Matusalemme» replicò Janson prendendo la mano ossuta dell’anziano tra le sue. «Come sta, signore?»

«Oh, be’, a parte la dannata bombola di ossigeno me la cavo.»

Grandig gli diede un’energica stretta di mano. «E non vuoi sapere come sto io? Vorrei poter far rottamare le mie ossa doloranti e averne in cambio di nuove.»

«Non attaccare con i racconti dei tuoi mali» disse Miles con un sorriso bonario. «Paul, quando mi hai telefonato per dirmi che avevi alcune domande da farmi, ho pensato: chi può rispondere meglio della Banda Stern?»

«Non immaginavo foste ancora in attività.»

«Pensavi fossimo morti, eh?» ridacchiò Weintraub. «No, lo sembriamo soltanto.» E Grandig aggiunse, indicando con un gesto il lussuoso circondario: «Chi potrebbe resistere all’invito di passare anche una sola ora nel magnifico ritiro di Miles?».

Janson li aveva conosciuti quando era un funzionario delle Operazioni Consolari di fresca nomina e ancora in fase di tirocinio, dislocato all’ambasciata americana a Gerusalemme. Avrebbe dovuto mantenere i contatti con il Mossad, ma la CIA, da sempre in feroce competizione con le Operazioni Consolari del Dipartimento di Stato, lo aveva boicottato, facendo giungere a figure chiave di Israele la voce che la missione di Janson era quella di spiare il Mossad. Era dunque stato relegato a un’unità periferica di agenti anziani, estromessi dagli alti ranghi del Mossad perché si erano mostrati in disaccordo con le linee guida dell’intelligence israeliana.

L’avevano soprannominato «il marmocchio», probabilmente l’unica volta nella sua vita in cui Janson era stato definito così, poiché a quattordici anni aveva già il fisico di un uomo. Ma, di fronte a veterani sionisti che avevano combattuto contro inglesi e arabi e avevano inseguito fino alla morte i terroristi di Al Fatah e di Settembre Nero, Janson si era sentito davvero un ragazzino. La cosa interessante era stata la scoperta che in Israele non esisteva una parola, né in ebraico né in yiddish, per esprimere il concetto americano di un giovane ammesso nella cerchia di uomini più anziani ed esperti; ma i sabra, ovvero gli ebrei nati in Israele, e anche l’inglese Miles erano cresciuti con i film americani e amavano disseminare le loro conversazioni con un linguaggio cinematografico.

Janson si era reso conto di essere stato buttato fuori dal giro non appena si era presentato agli agenti anziani. Weintraub, il comandante, aveva settantacinque anni. Dei cosiddetti agenti operativi, Donner ne aveva quasi sessantacinque e Grandig, il più giovane, era vicino ai cinquanta. Loro sapevano bene di essere già fuori.

«Benvenuto nella Banda Stern», così lo avevano accolto, spiegandogli che la Banda Stern originale era stata il braccio radicale del gruppo militante sionista Irgun durante la Seconda guerra mondiale, i cui membri erano stati spesso incarcerati dagli inglesi e da cui gli altri sionisti avevano preso le distanze, in quanto troppo estremisti. Avraham Stern stesso era stato assassinato.

«Senza dubbio hai dato fastidio a qualcuno, marmocchio» aveva commentato Weintraub.

«Oppure gli hai fatto prendere paura» arrischiò Miles. «In ogni caso, ti conviene abituarti subito alla Siberia.»

Janson aveva attivato tutti i pochi contatti di cui disponeva all’epoca per cercare di uscire dalla situazione, ma senza successo. Era ormai legato alla Banda Stern e così sarebbe rimasto per tutto il tempo della sua permanenza in Israele.

Donner, il vecchio Weintraub e Grandig lo avevano trattato con severità e rispetto. Si erano accorti subito che il giovane americano era molto frustrato e lo avevano invitato ad andare a sparare con loro in un poligono militare. Janson era già un Ranger addestrato, faceva parte del corpo d’élite dell’esercito americano e aveva ricevuto una formazione specifica anche come agente delle Operazioni Consolari. Ma i trucchi del mestiere li apprese in Israele e gli insegnamenti della Banda Stern erano stati decisivi. Inoltre, quando i veterani lo avevano affidato a istruttori specializzati perché imparasse le tecniche del Krav Maga, la leggendaria lotta ebraica, gli si era aperto un mondo di nuove possibilità nel combattimento corpo a corpo. Vedere i suoi anziani maestri in azione era stata una rivelazione.

I tre veterani lo portarono diverse volte alla base di addestramento all’utilizzo di esplosivi del Mossad. I giovani ufficiali di guardia, profondamente legati ai loro ex comandanti, li lasciavano entrare con un sorriso e una strizzatina d’occhio. Lo portarono a visitare la «cucina», dove gli scienziati dell’intelligence preparavano gli antidoti ai veleni più letali. Poi il «laboratorio scartoffie», dove si realizzavano passaporti, visti e carte di credito.

Janson era stato loro molto grato. Solo dopo qualche tempo si era reso conto che lo stavano mettendo alla prova, oltre a insegnargli le basi per essere un ottimo e preparato agente sul campo.

«Sei stato promosso a pieni voti, marmocchio» si era congratulato con lui Donner. «Cosa ne diresti di prendere parte a un’operazione canaglia?»

«Di cosa si tratta?»

«Una missione non autorizzata, per così dire.»

«E i miei capi al Dipartimento di Stato non dovranno essere informati, suppongo.»

«Nessuno deve saperlo.»

«Nemmeno il Mossad.»

«Soprattutto il Mossad.»

«Voi tre siete praticamente in pensione. Io ho appena cominciato. Perché dovrei mettere a rischio il mio futuro per quest’operazione canaglia?»

«Ci facciamo una passeggiata?»

Donner e Weintraub lo avevano condotto nel deserto del Negev. Quando furono abbastanza lontani da tutto, senza più nemmeno una baracca o una stradina in vista, la spia di origine inglese e il vecchio soldato sabra lo avevano perquisito a turno, alla ricerca di una microspia, senza neppure scusarsi. Probabilmente, aveva dedotto Janson, non si fidavano del tutto di Grandig.

«Cosa succede?» chiese.

«Abbiamo un problema. E tu puoi aiutarci.»

«Quale problema?» domandò Janson.

«Il Sudafrica.»

All’epoca la dittatura dei bianchi in Sudafrica praticava l’apartheid, nonostante l’opposizione dell’African National Congress e del mondo intero. Dopo aver oppresso la maggioranza nera per generazioni, era solo questione di tempo prima che il regime razzista crollasse. Janson aveva fissato Donner, il suo mentore, con uno sguardo interrogativo e gli aveva detto di essere al corrente delle voci sulla collaborazione tra Israele e il Sudafrica, ma aveva sempre pensato che fossero esagerazioni.

Donner aveva commentato con amarezza: «Israele non avrebbe un’industria delle armi se non avessimo il Sudafrica come principale cliente».

«Come può la nazione ebraica, per la quale hanno combattuto i sopravvissuti all’Olocausto nazista, essere in affari con uno Stato di polizia che ha inventato l’apartheid, un’ennesima forma di oppressione sponsorizzata da un regime?»

«I sudafricani ci hanno salvati.»

«Il presidente Vorster era filonazista. E Botha non è stato molto meglio di lui.»

Miles fece oscillare la mano, come a dire «sì e no». «Indipendentemente dalla tua opinione su questi signori e dal fatto che il presidente de Klerk è una persona ben diversa, l’oro e i diamanti dei sudafricani bianchi sono serviti a Israele per pagare lo sviluppo delle nostre armi ad alta tecnologia. Noi avevamo gli scienziati, loro i mezzi economici.»

«Ma i neri…»

Miles lo interruppe bruscamente. «Alla fine, mio giovane amico, dobbiamo fare ciò che ci salverà.»

«E cosa faremo per progredire?»

Il Titano era scoppiato a ridere. «Ecco il paradosso. Secondo te, per salvarci dobbiamo progredire. Molto americano, pieno di speranza morale, fino a quando non s’incappa nel paradosso. Prima dobbiamo salvarci, o non ci sarà nulla per cui progredire.»

Janson aveva già sentito la stessa argomentazione, al Dipartimento di Stato. Le proprie reazioni, e lo sconcerto che provocavano nei suoi interlocutori, a volte lo facevano sembrare un predicatore moralista. Gli ci sarebbero voluti anni per diventare più flessibile, anche se non sarebbe mai riuscito ad accettare certi compromessi.

«Cosa c’entro io in tutto questo?» aveva chiesto.

«Tra gli armamenti sviluppati da Israele c’è una bomba atomica.»

«Lo so. Sono giovane, non ignorante.»

«Giovane e aggressivo.»

«L’aggressività è una qualità apprezzabile in un agente operativo» era intervenuto Weintraub.

«Non però quando viene ostentata come una bandiera» aveva replicato Donner con insolito calore. E in quel momento il giovane Janson aveva capito: il Titano credeva profondamente nelle sue doti intellettuali, fisiche e caratteriali e riteneva che potesse essere addestrato per arrivare a livelli di eccellenza nel mondo delle attività clandestine.

Janson sapeva che i suoi superiori, al Dipartimento di Stato, erano al corrente dell’esistenza della bomba atomica israeliana: era ormai una notizia risaputa. Gli israeliani erano stati molto abili nell’utilizzarla contro i loro nemici come una minaccia, senza però irritare gli amici che nel frattempo stavano cercando di impedire la proliferazione nucleare.

«Certo, un deterrente nucleare implicito» aveva osservato Janson. «Però non mi è chiaro il ruolo del Sudafrica nella vicenda.»

«Negli anni Settanta abbiamo dato loro alcuni chili di trizio, in cambio di tonnellate di concentrato di uranio “yellowcake” sudafricano.»

«D’accordo, a Israele serviva l’uranio per costruire la bomba. Ma il Sudafrica perché aveva bisogno del trizio?»

«Per lo stesso motivo, ovvio.»

Paul Janson era rimasto scioccato. «Il Sudafrica è in possesso di una bomba nucleare?»

«In realtà ne ha sei.»

«Ma sono pazzi!»

«In effetti non lo sono. Hanno deciso di distruggere il loro arsenale nucleare.»

«Se è vero è un enorme sollievo. Ma ne sei sicuro?»

«Si stanno comportando con grande buon senso. Sanno bene che non rimarranno al potere ancora a lungo. Quindi distruggeranno le armi atomiche, per non vederle cadere in mano ai neri, dei quali non si fidano, ritenendoli irresponsabili.»

«L’ennesima dimostrazione di razzismo.»

«Purtroppo non è un atteggiamento unanime. I loro generali più radicali vogliono invece tenersi gli ordigni per usarli contro i neri.»

«Quindi sono davvero pazzi.»

«Il generale Klopper è un uomo solo. Però è potente, appoggiato dall’ala di ultradestra del National Party, tenaci sostenitori dell’apartheid, e da quelli del Broederbond, la Fratellanza afrikaner. In più può contare sulla lealtà dei suoi corpi d’élite. Non è un tipo con il quale si possa ragionare. Hans Klopper è ossessionato dalla paura e dall’odio contro i neri.»

«Se Israele ha dato la bomba al Sudafrica, il Mossad deve fermarlo.»

«Il Mossad non è disposto a intervenire» replicò seccamente Donner.

«Devono farlo. È il loro lavoro impedirglielo.»

«È stato proprio il Mossad» era intervenuto Weintraub in tono paziente e annoiato «a coltivare le relazioni con il Sudafrica. Le hanno avviate loro. Il Mossad ha un interesse enorme a mantenere questo rapporto e le conoscenze personali che ne derivano. Perciò loro si limitano a sperare nella prevalenza del buon senso e nella scomparsa quasi per magia dei sei missili nucleari.»

«Purtroppo le cose non andranno così, se qualcuno non fermerà Klopper» osservò Donner.

Aveva guardato Janson dritto negli occhi. «Questa è la nostra operazione canaglia. Intendi darci una mano?»

«Come posso fare?» aveva domandato Janson.

«Devi uccidere quel bastardo. Noi non possiamo avvicinarci al generale. Siamo troppo conosciuti, dal Mossad e da tutte le nostre controparti in Sudafrica. Tu invece sei nuovo.»

Il suo nome in codice diventò «Saul».

Come nella miglior tradizione dell’intelligence israeliana, l’operazione aveva un nome biblico, «Sword Fall», la spada caduta dal cielo. Janson aveva protestato. Per prepararsi all’incarico a Gerusalemme aveva letto con attenzione il Vecchio Testamento, e sapeva che per non essere catturato dai filistei, Saul si era suicidato lasciandosi cadere sulla propria spada.

Loro alludevano all’altro Saul, risero quelli della Banda Stern. Quello che si era convertito al cristianesimo e aveva fondato la Chiesa cattolica, diventando noto con il nome di san Paolo e il simbolo della spada. «Tu invece da Paul ti trasformerai in Saul» aveva scherzato Donner.

Comunque quella si prefigurava sul serio come una missione suicida.

L’aspetto positivo era che nessuno sarebbe mai venuto a saperlo. Non il Dipartimento di Stato americano, le Operazioni Consolari, la CIA, i servizi segreti sudafricani, e neppure il Mossad.

La Banda Stern si servì delle sue ancora potentissime conoscenze all’interno dell’agenzia di intelligence per inserire nel curriculum abbastanza scarno di Janson alcuni interessanti accenni alla partecipazione a un’operazione top secret in Iraq. Da allora quella storia si era consolidata e il primo omicidio di Paul Janson era rimasto un segreto. Nemmeno Jessica ne era al corrente.

Janson raccontò tutto alle ex spie mentre prendevano il tè, seduti accanto al lato in ombra della piscina. Donner e Grandig bevevano tè freddo con foglie di menta, mentre il vecchio Weintraub lo prese caldo, in un bicchiere, e lo sorseggiava con la cannuccia infilata in una zolletta di zucchero.

Janson descrisse con coloriti e precisi dettagli l’arrivo dell’Harrier inviato a salvare il presidente a vita Iboga, e come avesse scoperto in seguito che l’uomo di scorta al dittatore durante l’ultima fuga sul molo aveva affermato di far parte di un gruppo chiamato Sécurité Referral. I tre anziani lo ascoltarono attentamente, catturati dall’audacia dell’operazione e dalla sua perfetta esecuzione.

«È coraggioso, questo tuffatore» commentò Grandig.

«Si è defilato con grande abilità» ammise Janson.

«Un avversario pericoloso. Quali sono le probabilità di portarlo dalla tua parte?»

«Inesistenti, direi. Sembra deciso a eliminare un uomo che io ho tratto in salvo in Africa. E la mia socia in affari gli ha ferito un braccio.»

«Interessante.»

«E non avete ancora sentito questa.» Raccontò loro dell’intervento dei Reaper nel momento clou della battaglia sul Pico Clarence.

Quando ebbe finito, erano tutti seduti sul bordo della sedia a scambiarsi occhiate incredule.

«Fai una vita interessante, Saul.»

Ma quando Janson chiese a Donner, Weintraub e Grandig di sondare i loro contatti per aiutarlo a identificare la Sécurité Referral, incontrò resistenza. Non ne fu sorpreso. Si era aspettato di trovarli cambiati: invecchiati e prudenti, l’abituale reticenza resa più coriacea dagli anni. Come Janson sapeva bene, i vecchi sionisti si stavano facendo la solita, eterna domanda: è conveniente per Israele?

Evidentemente la risposta era no, perché si schermirono interpretando la scenetta del «siamo troppo vecchi per poterti aiutare».

«Chi conosciamo ancora, alla nostra età?» sospirò Grandig, il più giovane dei tre.

«Alla tua età?» si indignò Weintraub. «Tutti quelli che conoscevo io sono morti.»

«Non stavo pensando tanto a voi, quanto ai vostri accoliti» precisò Janson. «I vostri allievi ricoprono ruoli chiave nell’intelligence e nei servizi segreti in diverse parti del mondo.»

«Nemmeno i nostri allievi sono più giovani.»

«Allora i loro allievi» insistette Janson. «Signori, pochi uomini dispongono dei vostri contatti, e io lo so benissimo. Fate girare la voce tra le vostre conoscenze. Qualcuno nell’ambiente deve aver sentito il nome Sécurité Referral.»

I tre fissavano i propri bicchieri vuoti.

Guardò Miles, il quale era rimasto ad ascoltare in silenzio. Era stato proprio lui a insegnare a Janson: «Se hai qualcosa da dire, non parlare fino a quando non sai quale effetto vuoi ottenere». Miles gli si rivolse con una certa enfasi: «Ti dirò due parole che non sentirai spesso in Israele, amico mio: “scusa” e “grazie”».

Janson raddrizzò la schiena. «Non mi aspetto di essere ringraziato. Credo solo di essermi guadagnato il diritto di chiedere un piccolo favore.»

«Può darsi che siamo in debito con te» intervenne Weintraub in tono acido. «Ma io non ne sarei troppo sicuro. Sword Fall non fu un operazione condotta da un solo uomo.»

«Ma un solo uomo si spinse abbastanza in là da portarla a termine» ribatté Janson serio. «E ora quell’uomo è venuto a riscuotere il credito.»

Weintraub alzò le esili spalle. «A nessuno sta simpatico l’esattore delle tasse.»

Janson si rese conto di essere riuscito a metterli in una posizione scomoda per tutti.

Dopo una pausa, Grandig disse: «Se solo avessimo un modo per far loro domande senza essere “riconosciuti”… non li metteremmo a rischio».

Janson lanciò un’altra occhiata a Miles Donner. Questi ammiccò appena. Janson prese un sacchetto di plastica dal borsone e ne rovesciò il contenuto sul tavolo. «Cellulari usa e getta. Con schede SIM prepagate. Nessuno saprà mai chi è stato a chiamare.»

«Dove li hai comprati?» saltò su Grandig. «Al negozio di telefonia dell’aeroporto Ben Gurion, la succursale del Mossad?»

«Con le schede SIM programmate dallo Shin Bet» rincarò la dose Weintraub, «così l’agenzia per la sicurezza interna può ascoltare tutte le nostre telefonate?»

«No, li ho presi a Sadr City e ho pagato in contanti. In ogni caso, non appena avrò saputo dove diavolo è andato il caccia con Iboga e chi gestisce la Sécurité Referral, se volete potete ingoiare le schede SIM per eliminare ogni prova» sogghignò il marmocchio.

L'occhio della fenice
9788858638606_epub_cvi_r1.htm
9788858638606_epub_abs_r1.htm
9788858638606_epub_ata_r1.htm
9788858638606_epub_st_r1.htm
9788858638606_epub_tp_r1.htm
9788858638606_epub_cop_r1.htm
9788858638606_epub_htp_r1.htm
9788858638606_epub_fm1_r1.htm
9788858638606_epub_pro_r1.htm
9788858638606_epub_p01_r1.htm
9788858638606_epub_c01_r1.htm
9788858638606_epub_c02_r1.htm
9788858638606_epub_c03_r1.htm
9788858638606_epub_c04_r1.htm
9788858638606_epub_c05_r1.htm
9788858638606_epub_c06_r1.htm
9788858638606_epub_c07_r1.htm
9788858638606_epub_c08_r1.htm
9788858638606_epub_c09_r1.htm
9788858638606_epub_c10_r1.htm
9788858638606_epub_c11_r1.htm
9788858638606_epub_p02_r1.htm
9788858638606_epub_c12_r1.htm
9788858638606_epub_c13_r1.htm
9788858638606_epub_c14_r1.htm
9788858638606_epub_c15_r1.htm
9788858638606_epub_c16_r1.htm
9788858638606_epub_c17_r1.htm
9788858638606_epub_c18_r1.htm
9788858638606_epub_c19_r1.htm
9788858638606_epub_c20_r1.htm
9788858638606_epub_p03_r1.htm
9788858638606_epub_c21_r1.htm
9788858638606_epub_c22_r1.htm
9788858638606_epub_c23_r1.htm
9788858638606_epub_c24_r1.htm
9788858638606_epub_c25_r1.htm
9788858638606_epub_c26_r1.htm
9788858638606_epub_c27_r1.htm
9788858638606_epub_c28_r1.htm
9788858638606_epub_c29_r1.htm
9788858638606_epub_c30_r1.htm
9788858638606_epub_c31_r1.htm
9788858638606_epub_c32_r1.htm
9788858638606_epub_c33_r1.htm
9788858638606_epub_c34_r1.htm
9788858638606_epub_c35_r1.htm
9788858638606_epub_p04_r1.htm
9788858638606_epub_c36_r1.htm
9788858638606_epub_c37_r1.htm
9788858638606_epub_c38_r1.htm
9788858638606_epub_c39_r1.htm
9788858638606_epub_c40_r1.htm
9788858638606_epub_c41_r1.htm
9788858638606_epub_c42_r1.htm
9788858638606_epub_c43_r1.htm
9788858638606_epub_c44_r1.htm
9788858638606_epub_bm_r1.htm
9788858638606_epub_bm1_r1.htm
9788858638606_epub_toc_r1.htm