35

A trenta metri di altezza sulle acque del Tirreno, in una notte senza luna, Paul Janson non vedeva neppure il cavo che collegava il suo paracadute ad ala al gommone diretto verso la penisola di Vallicone. Dell’imbarcazione distingueva solo la scia bianca e spumosa dietro il motore silenziato.

Alla guida c’era Daniel, l’ex SEAL. A prua, ad aiutare Daniel a evitare gli scogli, c’era Adolfo, un pescatore del luogo. Indossava un paio di jeans rattoppati, logore scarpe da ginnastica e il primo capo d’abbigliamento nuovo e costoso mai posseduto nella sua vita: una giacca a vento in Gore-Tex opaco, nera come la pece, omaggio della CatsPaw Associates.

Adolfo sapeva localizzare le rocce sotto il pelo dell’acqua, ed era perciò in quel momento il più valido tra i venti uomini reclutati da Janson per strappare Iboga dalla custodia della Sécurité Referral.

L’ex dittatore si trovava senza alcun dubbio sulla penisola. I separatisti nazionalisti incontrati la notte precedente, i quali stavano già progettando un attacco per sventare la presunta costruzione di un resort esclusivo da parte dei nuovi residenti a Vallicone, avevano riferito a Janson di aver visto Iboga passeggiare nervosamente all’esterno dell’edificio principale. Sembrava un enorme cinghiale, avevano detto: un sanglier gigantesque.

Janson aveva messo a punto un piano d’attacco piuttosto semplice: un’offensiva classica mirata a costringere gli agenti della SR di guardia a Iboga a ritirarsi, innanzitutto neutralizzando le loro difese esterne, ossia le postazioni delle mitragliatrici lungo la strada, quindi mettendo fuori uso l’elicottero, così da impedire loro di trasferire l’ex dittatore in un luogo sicuro e infine, prima che iniziassero a combattere come topi presi in trappola, terrorizzandoli in modo da farli disperdere; a quel punto avrebbero abbandonato Iboga, al motto di «si salvi chi può».

L’imbracatura del passeggero appeso al paracadute era stata munita di un capace contenitore per le armi: un fucile a pompa, un magnifico vecchio Bushmaster nero opaco, preso a prestito dalla famiglia dell’Union Corse a Porto Vecchio, e due lanciagranate con propulsione a razzo forniti da un rappresentante di Neal Kruger sull’isola.

Il familiare crepitio negli auricolari comunicò a Janson che Jessica si trovava già in posizione, con la casamatta più esterna nel mirino, pronta e in attesa della prima esplosione.

Nel punto in cui la penisola di Vallicone si protendeva per un chilometro e mezzo nel mare, due robusti corsi trascinavano un grosso borsone nero nella fitta macchia, odorosa di lavanda, rosmarino e timo. Avanzavano al buio, orientandosi con lo sciabordio delle onde sulle rocce a sinistra e con la brezza tesa che soffiava dal mare. Pregavano che il rumore del vento e dell’acqua impedisse alle sentinelle appostate dietro le mitragliatrici calibro .50 di sentirli. I due conoscevano come le loro tasche ogni angolo della penisola, larga appena quattrocento metri, dall’inizio alla scogliera a picco sul mare, dove si trovavano una grande casa, i fabbricati annessi e un ampio spiazzo aperto. Nati e cresciuti nella zona, andavano a caccia sulla penisola da quando erano ragazzi, con gli stessi fucili che ora portavano ad armacollo. A circa trecento metri dalla casamatta di pietra, con la postazione a guardia dell’unica stretta strada, si fermarono ad aprire il borsone e ne estrassero il contenuto: un potente compressore a benzina e una sorta di grande telo in tessuto tecnico dall’aspetto di una tenda, in realtà un falso bersaglio gonfiabile.

«Vai!» disse Janson, con il microfono accostato alle labbra.

Daniel diede gas al motore e il gommone aumentò la velocità. Janson sentì il paracadute salire, portandolo in alto oltre il profilo della scogliera. Azionò i comandi collegati alla parte posteriore della velatura e si sollevò di un’altra trentina di metri.

Sistemò sugli occhi il visore notturno panoramico digitale. La superficie della penisola appariva verde, la cupola del radar era un cerchio opaco, la casa e l’elicottero più scuri. Colse un bagliore luminoso rosso e giallo, minuscole figure umane rese visibili dall’infrarosso.

Gli uomini della Sécurité Referral stavano correndo dalla casa all’elicottero.

Janson trovava difficile credere che la SR avesse un radar tanto potente da rilevare obiettivi pressoché invisibili come il suo corpo e il paracadute. Più probabilmente, una sentinella era uscita dalla casa e aveva sentito il motore fuoribordo. In ogni caso, aveva dato l’allarme.

Janson prese un lanciagranate dalla cesta al suo fianco. Le onde increspate sottocosta facevano oscillare il gommone e tendevano il cavo. Il paracadute era instabile. Prese di mira l’elicottero e lanciò il proiettile. La vampa prodotta dall’accensione del razzo si riverberò sulla cupola di tessuto del paracadute. La testata a frammentazione sfiorò l’elicottero ed esplose fragorosamente sul terreno.

Aveva mancato il bersaglio e poteva solo sperare che qualche frammento della granata avesse almeno danneggiato il velivolo, dopo aver disperso gli uomini in fuga. Janson lasciò cadere in mare il tubo metallico vuoto e armò il secondo. Le sagome umane a terra si fermarono, scrutarono il cielo alla ricerca dell’origine della vampata e cominciarono a sparare nella sua direzione con pistole e fucili a canna corta.

I due corsi incaricati di gonfiare il falso bersaglio si misero all’opera non appena sentirono l’esplosione della prima granata. Per loro ora veniva la parte più difficile: dovevano avviare il compressore, piuttosto rumoroso. Si fecero il segno della croce, imbracciarono il fucile e tirarono la cordicella di avviamento. Il motore partì al primo colpo. Era più silenzioso di quanto pensassero, e il bersaglio cominciò a gonfiarsi rapidamente. Nel giro di pochi secondi prese la forma di un carro armato T-90 in dimensioni reali. Inventati dall’esercito russo per confondere i satelliti di ricognizione nemici e gli agenti dell’intelligence a terra, i falsi bersagli erano realizzati in uno speciale tessuto plastico riflettente, in grado di ingannare sia i radar sia i dispositivi termografici. A tentoni trovarono i legacci e li fissarono ai cespugli, per evitare che un colpo di vento potesse sollevare il finto blindato e svelare l’inganno. Quando ebbero bloccato il bersaglio si dileguarono di corsa nella macchia. Dovevano allontanarsi il più in fretta possibile.

I mercenari serbi di guardia nella prima casamatta della Sécurité Referral non avevano un ripetitore radar nella loro postazione, ma erano dotati di visore notturno e a infrarossi, e di un mirino notturno per la Dushka.

A trecento metri di distanza, si stagliava nel buio la sagoma agghiacciante di un carro armato russo T-90; il cannone da 135 mm a canna liscia era puntato contro di loro. Altri uomini se la sarebbero data a gambe. Loro invece avevano una lunga esperienza di battaglia alle spalle e, pur rendendosi conto dell’inutilità della cosa, aprirono il fuoco nella vana speranza di centrare una delle feritoie per la visione all’esterno. Una tempesta di proiettili da mezzo pollice, in grado di penetrare le lamiere corazzate, si abbatté sulla sagoma del carro armato e squarciò il gonfiabile. Davanti ai serbi attoniti, il blindato saltò in aria, si sgonfiò miseramente e si afflosciò a terra. Per un secondo non riuscirono a credere ai loro occhi. Poi, osservando la scena con il visore notturno, notarono dei brandelli di plastica agitati dal vento.

«Era un pallone!»

«Un pallone!» Scoppiarono a ridere, ma si ricomposero subito. Laggiù c’era qualcuno, e l’avrebbe pagata cara. Trascinarono la mitragliatrice fuori dalla casamatta, in modo da poter manovrare la canna in tutte le direzioni e si addentrarono nell’oscurità.

«Bravi, così» mormorò Jessica Kincaid. A cinquecento metri di distanza, anche un bambino sarebbe riuscito a rendere inutilizzabile la mitragliatrice, con il suo fucile Knight’s di precisione montato sul bipiede. Inquadrò nel mirino il meccanismo di caricamento della Dushka e premette il grilletto. I serbi schizzarono lontano senza essere colpiti e presero a scrutare intorno alla ricerca dell’invisibile cecchino. Per assicurarsi di aver messo fuori uso per sempre la mitragliatrice, Jessica sparò di nuovo, distruggendone i meccanismi di tiro.

A questo punto i serbi, coraggiosi, ma non stupidi, si rifugiarono rapidi dentro la casamatta. Anche Jessica cominciò a correre. Con il Knight’s da sette chili imbracciato, controllando il terreno irregolare attraverso il visore panoramico, scattò a tutta velocità verso la seconda mitragliatrice della SR.

Paul Janson lanciò la seconda granata. L’accensione del razzo lo rese nuovamente visibile, ma prima che gli avversari riuscissero a concentrare il fuoco su di lui, l’ogiva scese a spirale colpendo l’elicottero. Esplose con un rombo di tuono. L’onda d’urto fece sollevare il paracadute di parecchi metri e infranse tutti i vetri delle finestre della casa.

Janson afferrò immediatamente il Bushmaster e il fucile a pompa, e azionò lo sgancio rapido del paracadute principale posizionato sull’imbracatura. Mentre precipitava, tirò la maniglia di apertura del paracadute di emergenza agganciato dietro. Manovrò in modo da allontanarsi il più possibile dagli uomini della SR, i quali ora distinguevano bene il suo nuovo paracadute, illuminato dalla palla di fuoco in cui si era trasformato l’elicottero.

Kincaid avanzò tra la fitta vegetazione provocandosi una serie di escoriazioni, fino a raggiungere la sommità di una bassa collina. Quando ebbe localizzato la seconda casamatta di pietra, simile alla prima, si gettò ventre a terra e posizionò il bipiede del Knight’s.

Spostò sulla fronte il visore notturno e inquadrò l’obiettivo nel mirino. Fu però battuta sul tempo da una nuova Dushka. Una terrificante raffica di proiettili .50 le sventagliò sopra la testa.

«Cazzo!»

Allertati dalle esplosioni e dal rombo della prima mitragliatrice nella postazione sulla strada, gli uomini della SR dovevano aver localizzato il punto da cui erano partiti i primi spari per inserirsi nel campo di fuoco. Jessica indietreggiò strisciando e trascinando con sé il Knight’s. Si gettò di scatto sulla destra quando la scarica di piombo incandescente esplosa dalla Dushka scavò una voragine nel punto in cui lei si trovava un secondo prima.

Conosceva solo due modi per affrontare quella situazione. Poteva abbandonare il fucile e avanzare nella macchia con pistola e coltello; ma ci sarebbe voluto troppo tempo. Oppure poteva trovare una nuova postazione di tiro, in fretta. Sì, molto meglio così. In lontananza sentiva raffiche di colpi di piccolo calibro, dunque Janson doveva aver occupato la casa. Alle sue spalle, solo silenzio. I corsi stavano aspettando di avere via libera, ovvio.

Indossò nuovamente il visore panoramico e studiò la conformazione del terreno. Era più ondulato rispetto alla parte iniziale e offriva più postazioni di tiro, tutte esposte alla vista degli uomini con la Dushka. Continuò a spostarsi carponi verso destra, facendo attenzione a non smuovere i rami dei cespugli più alti e a restare nascosta ai mitraglieri. Nella sua visuale apparve uno dei rari alberi dell’area. Lo raggiunse e sistemò provvisoriamente il fucile, quindi alzò la testa per dare un’occhiata in giro.

Una raffica di proiettili spezzò in due il tronco, facendone cadere a terra la chioma e proiettando intorno schegge di legno. Figli di puttana! Ovviamente stavano tenendo d’occhio l’albero più vicino alla sua ultima posizione, in attesa che una stupida imbranata come lei strisciasse fino a lì. Decise di rimanere dov’era, contando i venti secondi necessari a spostarsi con il fucile fino alla più probabile postazione successiva. Poi appoggiò la canna del Knight’s sotto il tronco caduto, inquadrò rapida la Dushka nel mirino e fece fuoco una sola volta, mandando in frantumi l’otturatore della mitragliatrice.

Doveva ammetterlo, i tipi della SR avevano le palle. Con l’arma fuori uso, si lanciarono nella macchia, decisi a darle la caccia. Erano ben addestrati: si divisero, una tattica da manuale per mettere il cecchino in posizione di svantaggio. Infatti lei ora era obbligata a spostare il fucile da una parte all’altra per acquisire nella sua mira notturna i due obiettivi distanziati, con il rischio di mancarli entrambi. Si muovevano veloci nella macchia, a grandi balzi; il più alto stava davanti.

Kincaid sparò per primo a quello dietro, guadagnando secondi preziosi. Prima che il leader si rendesse conto di quanto era successo e cercasse un riparo, lei lo aveva già inquadrato nel reticolo del mirino.

All’improvviso l’auricolare di Jessica crepitò.

«Cosa c’è?»

«Mi servirebbe una mano.»

Janson non le aveva mai chiesto aiuto in modo più diretto.

«Ti accontenti anche della Legione Straniera?»

«Appena la strada è sgombra.»

«È sgombra.»

«Brava ragazza! Falli venire da questa parte.»

Uno Sherpa 4×4 ribassato per il trasporto leggero avanzava a tutta velocità sulla stretta strada che percorreva la penisola, seguito a breve distanza da un autocarro Renault TRM 10.000 6×6 oscillante nelle curve sulle sospensioni. Il piccolo convoglio si fermò in vista della casa, dove l’elicottero avvolto dalle fiamme gettava una vivida luce sul giardino calpestato e le finestre in frantumi.

Un sergente con l’aria da duro balzò giù dallo Sherpa, latrando ordini. I teloni laterali dell’autocarro si aprirono. Due squadre di soldati in basco verde, tuta da combattimento verde militare e anfibi da paracadutista saltarono giù dai due veicoli e innestarono le baionette ai fucili FAMAS 1.

Alcuni tra i mercenari a difesa della casa avevano già avuto modo di incontrare i temibili legionari dell’unità di intervento rapido del Deuxième Régiment Étranger de Parachutistes in Nord Africa e in Costa d’Avorio, e non avevano voglia di ripetere l’esperienza. Qualcuno si affacciò alle finestre e gettò fuori le armi in segno di resa. Gli altri inveivano in un coro rabbioso di francese, russo, cinese, afrikaans e inglese, urlando: «Venite avanti, vigliacchi!».

«La paga non sarebbe abbastanza» disse un australiano massiccio, uscendo dalla porta crivellata di proiettili con le mani in alto.

Un russo alzò la pistola mirando alla schiena dell’uomo. Un cinese gli fece cadere a terra la pistola con il fucile d’assalto, spezzandogli il braccio.

In lontananza si udiva l’ululato delle auto della polizia, ancora sulla terraferma, ma i miliziani della SR a guardia di Iboga erano già stati disarmati e condotti verso il camion Renault. I legionari versarono benzina sull’erba incolta e sulla sterpaglia, sottovento rispetto all’edificio, e vi lanciarono una granata termica, tra urla e risa sguaiate. Solo quando gettarono i baschi verdi tra le fiamme, gli uomini della SR si resero conto di essere stati battuti da una banda di separatisti, pescatori disoccupati, mafiosi dell’Union Corse, delinquenti comuni, ecologisti e incendiari mascherati da incursori della Legione Straniera.

Jessica Kincaid avanzava veloce sulla strada quando vide il bagliore rossastro. La vegetazione era secca e il vento soffiava impetuoso dal mare, alimentando le fiamme. Ora solo la strada divideva le due muraglie di fuoco. Si accorse all’istante che non sarebbe riuscita a passare: l’incendio divampava troppo rapidamente. Si versò l’acqua della borraccia su una manica, per respirare attraverso il tessuto bagnato, strinse forte il fucile e si lanciò di corsa tra le alte lingue di fuoco. Ne sbucò tossendo, sul punto di soffocare, dritta fra le braccia possenti di Freddy Ramirez, il quale subito le spense con i guanti le fiamme sullo zaino. «Tutto bene?»

«Benissimo. Dov’è Janson?»

«In casa. Digli che il paranco è sistemato.»

Trovò Janson intento a rovistare nell’arsenale lasciato dagli uomini della SR nella libreria. «Ho finito le bombe a mano. Tu stai bene?»

«Avrei preferito essere avvertita che il piano prevedeva anche un incendio.»

«Mi spiace, ma i corsi si sono lasciati prendere un po’ la mano.»

«Iboga dov’è?»

«È barricato in cantina con il capo della squadra della SR. Ho appena parlato con Ondine. Abbiamo una decina di minuti per portarlo al gommone, poi la Gendarmerie provvederà a inviare un elicottero.»

Janson afferrò una granata stordente e i due corsero giù per le scale, fino al piano interrato dai muri di pietra. La cantina era chiusa da una robusta porta di quercia, crivellata da una serie di fori irregolari. «Spara appena si cerca di parlargli» spiegò Janson. «Presidente Iboga!» gridò.

A mo’ di risposta, un altro proiettile squarciò il legno e andò a piantarsi nella parete alle loro spalle.

«Chi sta sparando, Iboga o il tipo della SR?»

«Difficile capirlo.»

Kincaid chiamò di nuovo. «Iboga!»

Là dentro non si aspettavano di sentire una voce femminile, evidentemente. «Chi è?» chiese Iboga con voce greve, gutturale e vagamente impastata. «Chi sei? Cosa sta succedendo?»

«Sembra ubriaco.»

«Be’, è rinchiuso in una cantina piena di vino» ironizzò Janson.

«Chi sei? Parla, donna!»

Kincaid rispose, a voce alta: «Iboga, non importa chi siamo, ma le garantiamo protezione fino al Tribunale Internazionale dell’Aja!».

Janson e Kincaid indietreggiarono mentre un’altra pallottola trapassava il legno. Janson passò a Jessica la granata, abbassò il Bushmaster sulla maniglia e mise il selettore in modalità automatica.

Prima di far saltare la serratura, sentirono delle grida all’interno, l’ennesimo colpo di pistola attraversò la porta, quindi un tonfo pesante.

«Stanno lottando» disse Kincaid.

«Ci serve vivo, altrimenti la Isle de Foree non rivedrà più il suo denaro. Pronta?»

«Via!»

Janson svuotò l’intero caricatore nella serratura. Anche con il silenziatore, nell’ambiente chiuso il rumore fu assordante. Jessica spalancò la porta con un calcio, tenendo il braccio all’indietro, pronta a lanciare la granata stordente.

«Aspetta!» la bloccò Janson.

Due uomini erano avvinghiati sul pavimento in pietra: Iboga, un gigante di centotrenta chili, stava a cavalcioni dell’altro, stringendogli il collo con le mani e cercando di morderlo con i denti appuntiti. L’avversario gli assestava pugni micidiali nel ventre e all’inguine. Sembravano molto simili per ferocia e abilità di combattimento, e non era facile prevedere chi avrebbe avuto il sopravvento. Iboga era più massiccio e pesante, ma aveva almeno cinquant’anni, mentre il suo robusto avversario doveva averne meno di trenta.

«Guardagli il braccio» fece notare Janson a Jessica.

Lei vide la fasciatura e mormorò: «Gesù santo». Lo colpì alla testa con il calcio della pistola. «La partita finisce qui, Van Pelt. Basta così.»

Janson premette la canna del Bushmaster alla tempia di Iboga. «Lascialo andare!»

I due si separarono a fatica, Iboga mollò la presa dal collo del mercenario e gli sferrò un manrovescio sul naso, Van Pelt sgusciò rotolando da sotto di lui. All’ultimo istante gli assestò una pedata all’inguine, lasciandolo senza fiato, piegato in due in posizione fetale.

Janson rovesciò Iboga sul ventre, lo ammanettò rapidamente con le braccia dietro la schiena e lo fece rialzare in piedi. «Adesso ce ne andiamo di qui.»

«Non muovetevi!» gridò Van Pelt. Rivoli di sangue gli scendevano da una guancia. Janson gli intimò: «Prova a seguirci e sei morto». Prese dalla giacca a vento un altro paio di manette e le lanciò a Jessica. «Immobilizzalo» le disse, indicando un grosso anello di ferro nel pavimento e tenendolo sotto tiro con il Bushmaster.

Van Pelt nascose le mani di scatto dietro la schiena. Kincaid si muoveva rapida come il fulmine, e riuscì in un attimo a far scattare un bracciale delle manette intorno alla caviglia del sudafricano, fissando l’altro all’anello. Questi fece scivolare lo sguardo verso una pistola, sua o forse di Iboga. Con un calcio Kincaid l’allontanò dal suo raggio d’azione.

Tremante di rabbia, Van Pelt le puntò un dito in faccia. «Attenta, puttana! Non far incazzare la SR.»

«Chi deve stare attento?»

«Fottiti» sibilò il mercenario.

«Okay. Sgombriamo il campo. Venga, presidente a vita. Facciamo una gita in barca.»

«Vi avverto!» gridò Van Pelt.

«Avverti la polizia francese, piuttosto» ribatté Janson. «Saranno qui da un momento all’altro.»

«Io so chi sei» continuò Van Pelt.

«No, non lo sai» replicò Janson, spingendo Iboga verso la porta. L’ex dittatore zoppicava, mezzo piegato, ancora senza fiato.

«Io so chi sei!»

«Tu pensi di saperlo, ma in realtà non sai niente.»

«So che sei un benefattore.»

Janson si bloccò sulla soglia. «Cosa?»

Van Pelt continuò: «Iboga è sotto la mia protezione. Riconsegnatemelo immediatamente».

Kincaid ritornò di corsa nella cantina, gli occhi fiammeggianti.

«E se non lo facciamo?»

«Tu porta fuori Iboga» ordinò Janson in tono calmo. «Perquisiscilo. In quella sahariana c’è una quantità di tasche. Sequestragli tutto, armi, telefono, soldi, passaporto, tutto ciò che ha addosso. Io mi occupo di Van Pelt… vai!»

«Sì, signore.» Jessica uscì dalla cantina.

«Rispondi alla sua domanda. Cosa farai se non ti restituiamo il tuo protetto? Ci denunci alla polizia? Ci citerai in giudizio per aver consegnato un dittatore sanguinario al Tribunale Internazionale, dove sarà sottoposto a processo per crimini contro l’umanità? Fa’ pure. Noi intanto ce ne saremo andati da un bel po’, mentre tu sarai sempre incatenato al pavimento.»

Hadrian Van Pelt, gonfio di orgoglio, si drizzò, per quanto gli era possibile visto che era bloccato a terra dalla manetta. Il volto insanguinato era contratto dalla rabbia, ma riusciva ancora a controllarsi. «Ti avverto per l’ultima volta» disse con convinzione. «Se il nostro cliente non viene restituito subito alla Sécurité Referral, vi daremo la caccia fino in capo al mondo. Dovrete guardarvi le spalle per il resto della vostra vita. Sarete così impegnati a salvarvi la pelle da non riuscire più a fare nient’altro.»

«E chi sarà a darci la caccia? Tu?»

«Credimi sulla parola.»

«Ti credo» commentò Paul Janson. «Non mi lasci altra scelta.»

Raccolse da terra la pistola e la puntò alla testa del sudafricano.

Lui gli rise in faccia. «E un benefattore premerebbe il grilletto contro un uomo incatenato al pavimento?»

«Due volte.»

Van Pelt smise di ridere. Le labbra gli si fecero esangui. «Due volte?»

«Così viene insegnato a fare, agli assassini» disse Paul Janson. La sequenza si susseguì così in fretta che i due spari risuonarono quasi come un unico colpo.

L'occhio della fenice
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