7

Jessica Kincaid rimase nell’ombra, senza muovere un muscolo. Janson non riusciva a individuare cosa avesse richiamato la sua attenzione. Non capiva neppure se anche lui si trovasse nel campo visivo della sentinella. Senza muovere la testa, scrutò l’area circostante con gli occhi ridotti a due fessure. Era parzialmente al riparo del tronco di un grosso albero, del diametro di almeno un metro.

Rimase immobile così a lungo da notare come una lama di luce penetrata dalla volta degli alberi si fosse spostata dalla corteccia ruvida del tronco al tessuto dello zaino e quindi sulla sua spalla e sulla sua faccia, nascosta dal trucco mimetico. Passarono venti minuti, lunghi come due ore. Poi altri venti. Janson sentiva braccia e gambe irrigidite, le ginocchia indolenzite, le caviglie bloccate. Il carico sulla sua schiena lo schiacciava. La circolazione era bloccata e il sangue ristagnava nei piedi.

Provò a immaginare l’involucro esterno del proprio corpo, abiti e pelle, come un guscio rigido e a muoversi al suo interno, contraendo e rilassando muscoli e tendini, resistendo al tormento dell’inerzia. Poi udì un lieve suono stridulo. Cos’era stato? Tese le orecchie. Di nuovo quel rumore. Qualcosa di meccanico. Poi, un impercettibile clic. Una pistola che veniva armata? Non era quella di Jessica, anche lei perfettamente immobile. Il cane di un vecchio revolver mentre veniva sollevato in posizione di sparo? Immaginava la situazione, e una serie di fotogrammi presero vita nella sua mente. Un ribelle della foresta pluviale, isolato dal mondo moderno. Un vecchio fucile arrugginito, forse regalato da un nonno. Aveva intenzione di mirare a Jessica? Di nuovo quel rumore, un altro clic. Forse un accendino? Janson fiutò nell’aria fumo di tabacco. Ne vide la lieve nuvola in controluce.

Subito dopo Jessica gli diede il segnale, un breve fischio nell’auricolare. Lui non aveva il suo stesso angolo visuale. Un’altra nuvoletta di fumo. La sentinella, appostata su un albero, si stava rilassando, non era più concentrata. Dovevano approfittarne.

Kincaid però non si muoveva. Il messaggio in codice significava: Forse può vedere me, ma non vede te. Io non posso muovermi, tu sì. Dal fumo dovresti capire dove si trova.

Janson calcolò il percorso: poteva fare un passo indietro, avvicinarsi al tronco, girare intorno e arrivargli alle spalle. Poi cosa avrebbe fatto? Rimanendo immobile, Jessica gli stava comunicando qualcos’altro. La guardia stava fumando una sigaretta: aveva una mano occupata, con gli occhi seguiva gli sbuffi di fumo, socchiudeva le palpebre per un’altra rilassante boccata. Era vagamente intontito dalla nicotina. Era una buona occasione per colpire, puntare la canna corta del suo MP5K silenziato e fare fuoco in meno di un secondo, ma lei non sparava. Forse c’era più di un uomo di guardia? O invece era solo e la sua morte sarebbe stata notata subito all’accampamento, in attesa di un segnale concordato? Oppure era l’avanguardia di un picchetto di uomini dislocati così vicini da poter sentire lo sparo?

Janson arretrò, appoggiando il piede con cautela per evitare che una caviglia o un ginocchio intorpiditi gli cedessero. Si appoggiò alla corteccia ruvida, girando intorno al tronco, finché il suo campo visivo si aprì e lasciò correre lo sguardo verso l’alto, alla ricerca del ramo o della piattaforma di mira da cui proveniva il fumo.

Qualcosa sopra di lui si mosse. Un anfibio da combattimento rattoppato con il nastro adesivo dondolava pigramente avanti e indietro: una sentinella annoiata che faceva dondolare la gamba nel vuoto. Janson continuò a girare intorno all’albero fino a distinguere il profilo dello scarpone, la tuta mimetica infilata nel gambale, la tibia e il polpaccio del miliziano, il suo ginocchio, la pesante pistola automatica allacciata alla coscia con una fascia di poliestere nero, la lunga canna del mitra russo della Seconda guerra mondiale a tracolla.

Janson estrasse un coltello.

Non vedeva il collo e il volto dell’uomo, nascosti dal fogliame. Aveva le braccia nude e sulla pelle scura distingueva chiaramente le goccioline di sudore, ma il petto era protetto da un logoro gilet mimetico. Pur non essendo un giubbotto antiproiettile, era comunque una discreta protezione contro una lama di coltello. Janson scrutò l’area circostante. Era ragionevolmente sicuro che l’uomo fosse solo. Chiunque fosse così stupido da fumare mentre era di guardia di sicuro avrebbe anche parlato, se solo avesse avuto qualcuno con cui farlo. La sentinella diede un altro tiro alla sigaretta e soffiò fuori un anello di fumo in direzione di Jessica.

Janson valutò che il percorso migliore passava proprio accanto all’uomo. Quattro passi, poi gli avrebbe infilato il coltello sotto il mento, un punto lasciato scoperto dal gilet mimetico. Ma quella sarebbe stata una manovra d’emergenza, da mettere in atto unicamente se la sentinella avesse localizzato Jessica. La cosa migliore sarebbe stata entrare nell’accampamento, trovare il medico e andarsene senza farsi notare. Uccidere una guardia non sarebbe servito a nulla: le regole di Janson prevedevano l’uso della violenza solo nel caso in cui non ci fosse altra scelta.

Tutt’a un tratto, il soldato balzò giù dal ramo. Janson strinse il coltello, aspettando la mossa di Jessica. Ma lei non sparava, e un attimo dopo Janson comprese il perché. Il ragazzo non li aveva visti. Si stava sistemando il mitra a tracolla e armeggiava con la patta dei pantaloni. Urinò contro l’albero. Quando ebbe finito si tirò su la lampo, si girò, mostrando il suo volto da adolescente annoiato, e si avviò lungo il sentiero, muovendosi rapido e silenzioso come un gatto.

Janson trovò Jessica appoggiata a un tronco, intenta a bere da una borraccia. «Ci è andata bene» commentò.

Gli occhi di Kincaid lampeggiarono di allegria. «Non sono mai stata tanto felice di sentire il fumo di una sigaretta in vita mia. A un certo punto ho avuto paura che quel figlio di buona donna non si sarebbe mosso mai più.»

Decisero di fermarsi lì e dormirono fino al pomeriggio, alternandosi ai turni di guardia.

Di notte Janson e Kincaid erano nel loro elemento, potendo vedere nel buio con gli occhiali per la visione notturna panoramici e potenziati con tecnologia digitale sensor fusion. Questi dispositivi JF di terza generazione da ventiseimila dollari, ampiamente migliorati rispetto al precedente modello in dotazione all’aeronautica, utilizzavano sistemi in grado di intensificare le immagini e consentivano loro di procedere agevolmente al buio, con un’ottima visibilità anteriore e una visione laterale di quasi sessanta gradi da ciascun occhio. Un sensore a infrarossi faceva apparire gli obiettivi in carne e ossa molto più vividi rispetto agli oggetti inanimati. A un tratto Janson individuò una sentinella dell’FFM appoggiata a un albero. La sua sagoma era molto più brillante di quella del tronco e del fucile d’assalto che imbracciava. Alle sue spalle, contro il profilo scuro di alcune rocce, un gruppetto di miliziani risaltava come fiamme color rame.

I loro visori erano collegati. Jessica era di nuovo avanti e guardava verso il basso, concentrandosi per non fare rumore sul terreno accidentato. Sfiorando un tasto Janson le inviò l’immagine verde e nitida di quanto aveva visto. Nel visore di Jessica si apriva una schermata divisa in senso orizzontale, dalla quale poteva rendersi conto sia della scena davanti a sé, sia del terreno sotto i suoi piedi.

Si fermarono a distanza di sicurezza e aggirarono il gruppo.

La temperatura era molto più gradevole, intorno ai quindici gradi, e riuscivano a procedere a un buon ritmo. A un tratto s’imbatterono nel relitto carbonizzato di un elicottero. Doveva trovarsi lì da parecchio tempo, poiché sul rotore di coda, stranamente intatto, si erano attorcigliati i rampicanti, ma l’odore acre di gomma bruciata aleggiava ancora nell’aria umida. Janson fece segno a Jessica di fermarsi e scrutò le cime degli alberi con circospezione.

Sul suo visore comparve un’immagine inviata da Jessica: una piattaforma con una mitragliatrice a trenta metri da terra, appena sotto la volta degli alberi. Il sensore a infrarossi non rilevava corpi umani. La mitragliatrice, un vecchio e pesante modello sovietico perfettamente in grado di abbattere un elicottero, non era presidiata, ma pareva pronta a sparare. Superarono un secondo velivolo abbattuto e poi un terzo. Sopra ciascun relitto si trovava una postazione su un albero. Quelli dell’FFM non scherzavano.

Un breve fischio risuonò nell’auricolare di Janson, seguito da un sussurro: «Cosa diavolo è?».

Lo sentì anche Janson. Era un ronzio debole e basso, in alto nel cielo. Un rumore inconfondibile per entrambi. Seguì uno scambio di occhiate sconcertate. «Non può essere» bisbigliò Jessica.

Era impossibile. Eppure dopo un istante i loro occhi confermarono quanto le orecchie avevano già scoperto. Alto nel cielo notturno, un drone da combattimento Reaper hunter-killer teleguidato e armato con missili anticarro Hellfire e bombe da duecento chili a guida laser, stava sorvolando in cerchio l’accampamento dei ribelli sul Pico Clarence. Come aveva fatto il presidente a vita Iboga a mettere le mani sull’arma più micidiale dell’arsenale americano?

«Guarda!» disse piano Kincaid.

Attraverso il visore panoramico videro un basso crinale di roccia vulcanica, punteggiato dalle aperture di numerose caverne. Le sentinelle dell’FFM stavano correndo in quella direzione per rifugiarsi nelle grotte. Anche loro avevano riconosciuto il Reaper.

Janson batté leggermente sulla spalla di Jessica. Per quanto fosse sconcertante, quella battaglia non li riguardava, quantomeno non nell’immediato. La loro priorità restava la stessa: entrare inosservati nell’accampamento dei ribelli. E quello era il momento propizio per farlo. Fece cenno a Kincaid di avvicinarsi al luogo lasciato libero dagli uomini di guardia. Il rumore del drone si allontanò, per cessare del tutto quando arrivarono a ridosso delle sentinelle. Dieci minuti dopo udirono un altro strano ronzio meccanico, diverso dal primo. Si fermarono ad ascoltare. Era molto debole, una vibrazione sorda in lontananza, e proveniva da un punto a sud, simile al brontolio di un treno merci o di un pesante autotreno sull’autostrada. Ma non c’erano treni sull’isola, se non i vagoncini a scartamento ridotto utilizzati nelle piantagioni di caffè. I binari attraversati poco dopo l’arrivo sull’isola erano coperti di ruggine, dunque venivano utilizzati solo nel periodo del raccolto. L’unica strada importante – un tratto di una trentina di chilometri tra il capoluogo dell’isola, Porto Clarence, e l’aeroporto internazionale President for Life Iboga – era troppo lontana per sentirne il rumore.

Si levò un vento caldo a scompigliare i rami più alti, e il brontolio sembrò spegnersi del tutto. Janson e Kincaid ripresero il cammino, aggirando alcuni posti di guardia e passando sotto numerose piattaforme con le mitragliatrici antielicottero. Poi i visori panoramici rilevarono una luce brillante, via via sempre più forte, costituita da una costellazione di centinaia di fuochi da campo e di lanterne. Avevano superato i posti di guardia e le sentinelle, e si trovavano all’interno dell’accampamento dei ribelli.

La capacità di visione notturna naturale dei soldati era indebolita dalla presenza dei fuochi, mentre il software dei visori panoramici si adattava in tempo reale alla variazione del livello di luminosità. Janson e Kincaid si muovevano rapidi e decisi, imboccando i percorsi più sicuri in direzione del ronzio lontano di un generatore portatile a gasolio. L’elettricità pareva essere un lusso nello spartano accampamento, di conseguenza il generatore doveva trovarsi nei pressi del quartier generale e, molto probabilmente, della struttura utilizzata come ospedale.

Breve fischio nell’auricolare.

Janson si fermò.

Jessica aveva localizzato l’imboccatura di una vasta caverna da cui usciva un fascio luminoso costante. Supponevano che il medico alloggiasse nell’ospedale da campo, dove poteva allo stesso tempo assistere costantemente il paziente ed essere guardato a vista.

Proseguirono, nascondendosi in un gruppo di alberi folti. I visori notturni rilevarono una miriade di puntini verde brillante sulla corteccia: formiche intente a nutrirsi di una sostanza zuccherina.

Dal loro angolo di visuale notarono una seconda caverna illuminata. Quartier generale od ospedale? Dov’era il medico, e dove i leader del movimento, con ogni probabilità armati?

Janson e Kincaid si trovavano ora a un punto critico dell’operazione. Non avevano alcuna voglia di scatenare uno scontro a fuoco con chi teneva prigioniero il medico. Il rischio di colpire anche l’obiettivo della loro missione di salvataggio era molto alto. E c’era il problema dell’effetto che l’eventuale morte di qualche capo avrebbe potuto avere sulla rivoluzione. Janson non intendeva prendere posizione tra l’odioso Iboga e i ribelli, che pure avevano assassinato l’intero equipaggio della Amber Dawn, ma chiaramente, in quella sanguinosa guerra civile l’FFM era dalla parte giusta, e non voleva fare nulla per danneggiarli. Per riuscire nell’operazione dovevano essere rapidi e invisibili, introdursi nell’ospedale da campo, trarre in salvo il medico e togliere il disturbo il più in fretta possibile.

Il vento si stava intensificando, a loro vantaggio. Gli uomini assonnati non avrebbero udito i loro movimenti, coperti dal fruscio costante della fitta vegetazione. Attesero, alternandosi nei turni di guardia. Un’ora prima dell’alba, la luce nella caverna si spense.

«I nostri uomini si riposano un po’» bisbigliò Janson. «Concediamo loro il tempo di addormentarsi.»

Trascorsero dieci minuti.

«Okay. Si va.»

Non era la prima volta che Terry Flannigan si svegliava si soprassalto, credendo di sognare, mentre una donna gli chiudeva la bocca con la mano, gli avvicinava le labbra all’orecchio e gli sussurrava: «Non gridare». Certi mariti in viaggio d’affari avevano la fastidiosa tendenza a rientrare a casa senza preavviso, magari nel cuore della notte.

«Ce ne andiamo di qui» bisbigliò lei.

Aveva già sentito anche quello. Era sgattaiolato fuori dalla finestra del bagno. O passando dalla stanza degli ospiti. Una volta, con sua somma vergogna, era stato persino costretto a rifugiarsi nell’armadio, come nelle barzellette.

«Spalanca gli occhi, se mi capisci.»

Se quello era un sogno, s’infranse brutalmente alla vista della volta in pietra della caverna dell’FFM sul Pico Clarence. Su di lui era china una ragazza in tuta militare, il volto dipinto dal trucco mimetico, lo sguardo intenso.

«Chi siete?» chiese piano sotto la mano premuta sulla sua bocca.

«Amici» rispose lei, e Flannigan fu percorso da un brivido di paura. Nessun «amico» sapeva della sua prigionia. Se Janet era stata uccisa, solo i suoi assassini sapevano che era stato catturato dopo la strage dell’equipaggio e l’affondamento della Amber Dawn.

«Quali amici?»

«La ASC» sussurrò lei, «i tuoi datori di lavoro. Ti riportiamo a casa. Sei sveglio? Forza, reagisci

La ASC? Cosa diavolo stava succedendo? Come avevano fatto quelli della American Synergy a sapere che era a bordo della nave? Era stato al servizio delle compagnie petrolifere abbastanza a lungo da imparare a rispettare e temere il potere smisurato che esercitavano nell’Africa occidentale. Troppe volte aveva visto con i suoi occhi di cosa fossero capaci. Nei luoghi più remoti e isolati erano al di sopra di qualunque legge.

Temendo di lasciar trasparire la propria confusione, Flannigan girò la testa e vide ancora morte. Una guardia stesa sul pavimento di pietra. Kincaid gli tolse la mano dalla bocca per consentirgli di parlare e lui disse: «L’hai ucciso tu? Era solo un ragazzino».

«Ho usato una siringa di narcotico» spiegò lei, seccata. «Una dose di carfentanil citrato. Alzati!»

Terry Flannigan spostò lo sguardo sul cerchio di luce gettato da una lampadina sul letto dove era disteso Ferdinand Poe. Scosse la testa. «Non posso abbandonarlo.»

«Cosa?»

«Sta male. Io sono l’unico medico, qui.»

Lei raddrizzò la schiena e Flannigan ebbe modo di guardarla meglio. Forse troppo magra per i suoi gusti, ma aveva un bel volto e una bellissima bocca. Non aveva mai visto uno sguardo più intenso, le iridi luminose come biglie.

La ragazza lanciò un’occhiata all’altro capo della caverna e al suo fianco si materializzò un uomo dalle spalle larghe, agile e atletico.

«Non vuole venire» gli comunicò lei a voce bassa. «Non ha intenzione di lasciare il suo paziente.»

Con grande stupore di Flannigan, il volto severo del nuovo arrivato si aprì in un sorriso. «Accidenti a lei» esclamò, e allungò una mano d’acciaio.

«Felice di fare la sua conoscenza, Doc.»

«Possiamo portarlo con noi?» domandò il medico.

«Non se ne parla» rispose la ragazza.

«Qui hanno delle barelle leggere» insistette Flannigan. «In quanti siete?»

«Quelli che vede.»

«Siete solo in due

I suoi due salvatori si girarono di scatto a guardare verso l’ingresso della caverna, con la testa incassata nelle spalle, come animali all’erta. Un attimo dopo lo sentì anche lui: un rumore ritmico di pale di elicotteri. Dopo qualche secondo giunsero delle urla dall’esterno e uno scalpiccio di piedi in corsa, mentre i mitraglieri si affrettavano verso le loro postazioni sugli alberi.

«Tre elicotteri, forse quattro» commentò l’uomo.

Janson e Kincaid si scambiarono uno sguardo interrogativo, corsero all’ingresso e sbirciarono fuori. Janson disse: «Cosa diavolo sta succedendo?».

«È un attacco suicida.»

Le mitragliatrici stavano già sparando con raffiche brevi e mirate, da esperti. Attesero l’impatto devastante dei proiettili sulla lamiera sottile degli elicotteri. Il rumore dei rotori divenne convulso, i velivoli risposero al fuoco.

«È un suicidio» mormorò Janson. «A meno che…»

«È una finta! Iboga sta attaccando da terra.»

Ci fu una tremenda esplosione. Una palla di fuoco sfondò la volta degli alberi: un elicottero era stato abbattuto. Dalla foresta si alzò una colonna di fumo bianco. Il rumore e le vibrazioni si avvicinavano, le mitragliatrici continuavano a sparare all’impazzata. L’onda d’urto di una seconda deflagrazione scosse la foresta. Poi calò un silenzio irreale, rotto all’improvviso dal rombo di motori possenti in avvicinamento e da uno sferragliare di cingoli d’acciaio.

«Carri armati!» esclamò Janson. «I T-72.»

L'occhio della fenice
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