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«Lo sai come si dice a Las Vegas?» Janet Hatfield, capitano della Amber Dawn, non stava scherzando. La sua nave di servizio offshore da tremila tonnellate stava risalendo il Golfo di Guinea in una notte nera come l’inchiostro, rollando e beccheggiando sul mare agitato. La sua voce risuonò autorevole nel silenzio della cabina di pilotaggio in penombra. «Quello che accade qui, rimane qui. Quindi, ciò che hai visto sulla Amber Dawn rimane sulla Amber Dawn

«Mi hai già fatto giurare quando siamo partiti dalla Nigeria.»

«Sto rischiando grosso, Terry. Se la compagnia scopre che ti ho fatto salire a bordo, mi licenziano su due piedi.»

«Sarebbe un vero peccato» commentò Terrence Flannigan, medico, ricercatore giramondo, donnaiolo impenitente e serpe di prima categoria. Alzò la mano destra e sorrise con espressione annoiata. «E va bene. Giuro di tenere la bocca chiusa sulla Amber Dawn, sul petrolio in generale e sull’esplorazione petrolifera in alto mare in particolare. Croce sul cuore e che possa morire.»

Il capitano, una bionda trentacinquenne di corporatura robusta, girò la schiena alla serpe e osservò preoccupata il radar. Da parecchi minuti lo schermo stava mostrando un obiettivo fantasma. I misteriosi puntini luminosi che apparivano e scomparivano erano troppo deboli per essere una nave, ma abbastanza brillanti da farle sorgere qualche dubbio sulla loro origine. Eppure il radar era molto affidabile, un Furuno ultimo modello.

Ma lei aveva la responsabilità di dodici persone: cinque filippini di equipaggio, sei ingegneri petroliferi americani e un clandestino. Tredici, compresa se stessa, ma tendeva sempre a escludersi dal conto.

Forse si trattava di materiale alla deriva. Oppure un fusto di petrolio vuoto che galleggiava tra le onde, trascinato dai capricci della corrente? Sperò non fosse qualcosa di grosso, come un relitto non segnalato, perché non era il caso di investirlo a quindici nodi di velocità.

Le lucine brillarono di nuovo, come se l’oggetto non stesse andando alla deriva, ma puntasse contro di loro. Armeggiò con i comandi del radar, nel tentativo di visualizzarlo meglio. Per il resto, il mare appariva vuoto, eccetto alcune grandi petroliere piuttosto distanti, venti miglia in direzione ovest. Nella parte alta dello schermo c’era un solo obiettivo su suolo terrestre, la sommità del Pico Clarence, un vulcano alto milleottocento metri al centro della Isle de Foree, la destinazione di quella notte.

«Questo posto non m’ispira nulla di buono» aveva commentato visitando la nuova zona petrolifera nel Golfo di Guinea. Controllò la strumentazione di bordo. La bussola, il pilota automatico e il grande quadro di comando con le spie dei generatori che azionavano i due propulsori elettrici Z-drive da tremila cavalli, non indicavano alcuna anomalia. Scrutò attentamente attraverso le vetrate sul ponte, nere contro la notte. Prese il cannocchiale per la visione notturna, spinse con la spalla una pesante porta a tenuta ermetica e uscì sul ponte laterale, nel calore e nell’umidità equatoriali, investita dal rumore assordante dei generatori.

Il monsone sudoccidentale soffiava alle loro spalle, disperdendo il fumo dei motori diesel intorno al fumaiolo. Il mare si era ingrossato parecchio da Cape Town, acquistando forza sempre maggiore lungo quasi cinquemila chilometri di costa africana. I marosi alzavano la prua della nave e investivano la poppa fino quasi al ponte anteriore. Dopo pochi secondi, il capitano stava già sudando per il caldo umido e soffocante.

Il visore notturno era un regalo di compleanno da milleottocento dollari che si era fatta da sola, per localizzare al buio boe e piccole imbarcazioni. Non era in grado di ingrandire gli oggetti, ma bucava magnificamente l’oscurità. Scrutò il mare davanti a sé. L’intensificatore di immagini di seconda generazione faceva vedere tutto verde. Non c’era nulla, solo creste ondose vorticanti come chiffon color lime. Probabilmente era solo un fusto metallico. Rientrò nella cabina dotata di aria condizionata.

Il bagliore rossastro degli strumenti di bordo si rifletteva nel sorriso malizioso di Flannigan.

«Non pensarci nemmeno» gli intimò.

«Volevo semplicemente esprimerti tutta la mia gratitudine.»

«Tra quattro ore potrai esprimere la tua gratitudine alle massaggiatrici di Porto Clarence.»

Di recente le navi da crociera low-cost cinesi e dei Paesi dell’Est europeo avevano scoperto la capitale dell’isola. Un insieme di povertà, un dittatore ormai in declino e alla ricerca disperata di denaro contante, e la bellezza leggendaria degli abitanti della Isle de Foree, discendenti dall’unione di africani e portoghesi, aveva spianato la strada al turismo sessuale, quanto mai fiorente nell’antico porto coloniale.

Terry percorse a grandi passi la cabina. «Sono stato medico di parecchie compagnie petrolifere, e so tenere il becco chiuso. Ma non ho mai visto una tratta più misteriosa di questa.»

«Smettila con questa storia.»

«Hai passato la settimana a trainare idrofoni sismici e cannoni ad aria. Quando è stata l’ultima volta che la tua nave è stata inutilmente trasformata in una nave da ricerca sismica?»

«Il mese scorso.» Janet Hatfield avrebbe voluto prendersi a schiaffi da sola un secondo dopo.

Terry rise. «La “maledizione del capitano”. Tu ami troppo la tua nave per mantenere un segreto. Questa non è la prima volta, non è vero? È una nave di servizio offshore, ma non per il rilevamento di petrolio. Qui c’è sotto qualcosa di losco.»

«Lascia perdere. Non avrei dovuto parlartene. È strano, e allora? Quando la compagnia mi nominerà vicepresidente dei servizi marittimi, chiederò spiegazioni. Fino ad allora, io piloto la nave. Discorso chiuso, per me ma soprattutto per te. Gesù, avrei dovuto lasciarti in Nigeria.»

«A quest’ora sarei morto.»

«Puoi scommetterci» annuì Janet Hatfield. Era la cosa più facile del mondo, morire nel delta del Niger zuppo di petrolio. I guerriglieri rapivano tecnici e operai direttamente dalle torri di trivellazione, soldati ubriachi attaccavano i loro stessi posti di blocco, senza contare le scorribande dei tanti fanatici che sostenevano di agire nel nome di Cristo o di Maometto.

Ma il dottor Terry, una vera calamita per le donne, aveva rischiato di essere ucciso alla vecchia maniera: un marito geloso con un machete che si era rivelato essere un ricco boss con gli agganci politici giusti per farla franca in caso di assassinio di uno sciupafemmine.

«Janet, dove abbiamo sbagliato?» domandò Terry con un altro sorriso malandrino.

«La nostra relazione è andata in pezzi per la sua intrinseca mancanza di profondità.»

Terry era migliore come amico che come amante. In quest’ultima veste era infido e falso, innamorato soprattutto di se stesso. Ma come amico, Terrence Flannigan era solido e leale, estremamente generoso. Per questa ragione Janet Hatfield non aveva esitato a farlo salire a bordo e nasconderlo al marito furioso. Da dieci giorni lo teneva al sicuro nella sua cabina, facendolo uscire solo quando era il suo turno di guardia.

La plancia di comando, con la cabina del capitano, si ergeva sopra un castelletto di quattro piani, verso la prua della nave. Ai piani inferiori si trovavano le cabine dell’equipaggio, il quadrato ufficiali, la cucina di bordo e il salone, requisito dagli ingegneri e adibito a sala computer e radio. L’ingresso era proibito ai membri dell’equipaggio e persino lei, il capitano, avrebbe dovuto chiedere il permesso prima di entrare. Janet Hatfield aveva replicato di non avere alcuna intenzione di andare lì dentro, a meno che non andasse a fuoco, nel qual caso non avrebbe certo perso tempo a bussare.

«Sai cosa stanno facendo gli ingegneri in questo momento?» chiese Terry guardando dalle vetrate posteriori, affacciate sul ponte cargo ampio e piatto, lungo una trentina di metri. Quella notte era vuoto, c’erano solo l’argano di traino, la gru per le ancore e i cabestani.

«Spostati da lì, o qualcuno ti vedrà.»

«Stanno gettando della roba fuoribordo.»

«Quello che fanno è affare loro.»

«Un tizio gira con una torcia elettrica… oh, gli è caduto qualcosa.»

«Cosa stanno buttando in mare?» non poté fare a meno di domandare Janet.

«Dei computer.»

Sottocoperta, gli ingegneri petroliferi si tolsero esultanti le camicie zuppe di sudore e si produssero in una danza della vittoria nella sala computer ormai sgombra. Avevano lavorato ventiquattro ore al giorno per dieci interi giorni, prigionieri su una nave dove il semplice possesso di alcolici o droghe, e persino di una bottiglia di birra, potevano costare l’esclusione a vita dal ramo petrolifero. Ora li aspettava un meritatissimo periodo di libera uscita tra i leggendari bordelli di Porto Clarence, dopo aver caricato con successo una buona dose di terabyte di dati sismici 3D tra i più scottanti del pianeta.

L’acquisizione dei dati era stata completata, il modello sismico del cliente era stato perfezionato, il successo della cosiddetta «caccia all’elefante», nel gergo dei petrolieri, era stato verificato al di là di ogni dubbio. Il cliente aveva confermato la ricezione delle trasmissioni via satellite criptate e aveva quindi dato ordine di eliminare tutti i supporti elettronici dei dati. Notebook, computer fissi, server e persino il supercomputer da cinquemila dollari che simulava i fondali marini, così pesante da richiedere l’intervento di due uomini per essere sollevato oltre la murata della nave. Poi si erano sbarazzati anche dei monitor, nonché degli idrofoni, dei cannoni ad aria e del trasmettitore satellitare per uso militare.

Entro alcune ore gli ingegneri petroliferi avrebbero festeggiato la scoperta della cosiddetta «madre di tutti i giacimenti», miliardi di miliardi di barili di petrolio e trilioni di trilioni di metri cubi di gas naturale, in grado di trasformare la Isle de Foree da semisconosciuta isola agricola, da cui si estraeva un po’ di petrolio con infrastrutture obsolete, nella nuova Arabia Saudita dell’Africa occidentale.

«Di’ un po’, Janet. Quanti dinosauri sono morti per creare il giacimento di petrolio?»

«Alghe, non dinosauri.»

Terry Flannigan fissò il buio oltre la prua della nave. Quelle misteriose manovre da parte degli ingegneri non potevano che essere legate al petrolio. Lì l’acqua era molto profonda, ma considerando la questione in prospettiva di eoni, ere e millenni, il fondo marino era in realtà un’estensione della bassa linea costiera africana. Per un numero incalcolabile di anni il fiume Niger aveva scaricato sedimenti nell’Oceano Atlantico, così come continuava a fare. L’impasto di fango, sabbia, piante e animali morti aveva colmato avvallamenti, corrugamenti e crepacci del fondo oceanico ed era continuato a colare lungo la placca continentale, finendo al largo, riempiendo ogni fessura. Tempo fa un ingegnere petrolifero, una donna, gli aveva spiegato che il giacimento aveva una profondità di almeno dodici chilometri.

«Cosa producevano i dinosauri? Carbone?»

«Gli alberi producono carbone» rispose distratta Janet Hatfield, sempre con gli occhi incollati allo schermo del radar. Accese i potenti fanali di attracco. Intorno alla nave si allargò un cerchio intensamente illuminato del diametro di un centinaio di metri.

«Oh, merda!»

«Cosa c’è?»

Dal buio sbucò un gommone rigido, lungo oltre cinque metri, corredato da potenti motori fuoribordo Mercury. Era carico di fucili d’assalto e lanciagranate. Janet Hatfield reagì prontamente afferrando il timone per disinserire il pilota automatico. Il gommone beccheggiava tra le onde alte. Poteva tentare di superarlo. Fece fare una virata decisa alla Amber Dawn, impostò la nuova rotta, diede l’avanti tutta e sganciò il microfono della radio dal supporto.

«Mayday, Mayday. Mayday! Qui è la Amber Dawn, Amber Dawn, Amber Dawn. Un grado e diciannove minuti nord. Sette gradi e quarantatré minuti est.

«Ripeto, un grado e diciannove minuti nord. Sette gradi e quarantatré minuti est. Un grado e diciannove minuti nord, sette gradi e quarantatré minuti est. Pirati all’abbordaggio della Amber Dawn. Pirati all’abbordaggio della Amber Dawn. Un grado e diciannove minuti nord. Sette gradi e quarantatré minuti est.»

Non poteva essere sicura che ci fosse qualcuno in ascolto. Ma il trasmettitore satellitare EPIRB da 406 MHz, fissato esternamente sull’ala di plancia nel suo supporto galleggiante, avrebbe continuato a segnalare la posizione della nave in caso di affondamento. Si sporse fuoribordo per azionarlo manualmente.

Il gommone era vicinissimo; distinguevano bene otto uomini in tuta mimetica. Perché indossavano una mimetica in mezzo al mare?

Probabilmente venivano dalla Isle de Foree, pensò, l’unica terra emersa alla portata dei motori del gommone. Di sicuro però non c’erano soldati regolari, in quel tipo di natante. Forse ribelli dell’FFM, il movimento Free Foree?

Pirati o ribelli, ma cosa volevano? L’unica cosa di valore su una nave di servizio offshore era l’equipaggio, da prendere in ostaggio per chiedere un riscatto.

Quindi non avrebbero ucciso i suoi uomini. Almeno, non subito.

Il gommone s’illuminò come un albero di Natale quando iniziarono a sparare con i mitra, e tutti gli oblò sul ponte della Amber Dawn andarono in frantumi. Janet Hatfield si sentì colpire al ventre. Le gambe le cedettero, cadde all’indietro tra le braccia di Terry e quasi le venne da ridere. «Non perdi mai l’occasione di provarci, vero?» voleva dire, ma le parole non le uscirono. All’improvviso ebbe paura.

Una rete da carico dotata di rampini fu lanciata sulla murata del ponte di coperta della Amber Dawn, atterrò con clangore metallico sull’acciaio e fu bloccata in posizione.

Sette ribelli dell’FFM si arrampicarono a bordo armati di fucili d’assalto, lasciando un uomo sul gommone con il lanciamissili. Erano giovani e atletici, in buona forma fisica, con la carnagione color caffelatte tipica degli isolani della Foree. Il capo però era un mercenario sudafricano piuttosto corpulento, Hadrian Van Pelt.

Questi aveva una lista dei membri dell’equipaggio della Amber Dawn.

Spedì due uomini nella sala macchine. Dalle viscere della nave riecheggiarono alcune raffiche di mitra e i generatori smisero di funzionare, tranne quello che dava energia all’impianto di illuminazione. Gli uomini rimasero sottocoperta e aprirono i rubinetti di presa a mare, lasciando entrare l’acqua all’interno.

Altri due spalancarono con un calcio la porta della sala computer appena smantellata. Van Pelt li seguì con la lista dei membri dell’equipaggio. «Laggiù, contro la parete!»

Gli ingegneri, terrorizzati e a torso nudo, ubbidirono, scambiandosi sguardi increduli.

Van Pelt li contò. «Cinque!» sbraitò. «Chi manca?»

Qualcuno indicò un armadio a muro. Van Pelt fece un cenno a uno dei suoi uomini e una breve raffica di mitra crivellò l’anta. A un rollio della nave il corpo dello scienziato che vi si nascondeva rotolò fuori. Van Pelt annuì e i suoi uomini finirono gli altri cinque.

Una sequenza di colpi negli alloggiamenti superiori decretò la morte dell’equipaggio filippino della Amber Dawn. Meno undici. Rimaneva solo il capitano. Van Pelt estrasse la pistola e imboccò la scaletta che portava sul ponte di coperta. La pesante porta d’acciaio era chiusa a chiave. Uno dei soldati vi fissò con del nastro adesivo un grosso pezzo di C-4. Si ripararono tutti in fondo alla scaletta, coprendosi le orecchie. La detonazione dell’esplosivo al plastico fece spalancare la porta e Van Pelt la superò con un balzo.

Rimase sorpreso nel vedere che il capitano non era solo. Era stesa sul ponte: una bella bionda con i pantaloni e la camicia inzuppati di sangue. Accanto a lei era inginocchiato un uomo. Aveva i gesti sicuri e misurati di un medico abituato a tutto.

Van Pelt gli puntò addosso la pistola. «Lei è un medico?» chiese.

Quando Terry Flannigan alzò lo sguardo dal torace di Janet crivellato dai proiettili verso l’uomo armato alla porta, ebbe l’impressione di guardare la morte in faccia.

«Che tipo di medico?» lo interrogò il mercenario.

«Chirurgo d’urgenza, idiota.»

«Lei viene con me.»

«Non posso lasciarla qui. Sta per morire.»

Van Pelt si avvicinò di un passo e sparò un colpo in testa a Janet Hatfield.

«Adesso non più. Salga sul gommone.»

L'occhio della fenice
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