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Il Sikorsky S-76 aveva una lunga storia alle spalle, tutta trascorsa nella regione petrolifera.
Appena uscito dalla fabbrica, l’elicottero bimotore era stato adibito al trasporto dei dirigenti della ChevronTexaco fino alle navi sismiche utilizzate per l’esplorazione dei giacimenti sottomarini angolani. Quando la compagnia aveva iniziato le trivellazioni, le lussuose poltroncine in cuoio erano state sostituite con sedili in alluminio e l’S-76 declassato al trasporto di operai fino alle piattaforme petrolifere. Gli anni e l’esposizione alla salsedine, insieme agli atterraggi avventurosi su piattaforme inclinate e sdrucciolevoli, lo avevano pesantemente usurato. Alla fine la compagnia aveva destinato il velivolo a operazioni di carico, prima che il buon senso ne decretasse la vendita a una compagnia italiana indipendente. Dopo diversi anni di servizio, era stato ceduto per ripianare un debito a un’azienda specializzata in leasing di attrezzature. La AngolLease lo aveva utilizzato fino a quando un atterraggio duro quasi fatale ne aveva piegato il carrello di atterraggio, facendo rientrare nella cabina uno dei montanti: il danno al meccanismo di retrazione era stato riparato in modo approssimativo. La società di leasing angolana lo aveva poi passato a Port-Gentil, nel Gabon, quasi duemila chilometri più a nord, alla LibreLift, un gestore di servizi di proprietà di due piloti: un francese anoressico dal volto bruciato dal sole con due baffoni da tricheco gialli di nicotina, e un gigante angolano vestito con una strana combinazione di uniformi dell’esercito e che ricopriva anche la mansione di meccanico dell’elicottero.
Janson non aveva alcuna voglia di verificare quanto il velivolo fosse malmesso all’interno. Ma a giudicare dai rivetti allentati, dai rigagnoli di olio lungo il tubo di coda e dal plexiglas screpolato, concluse di aver volato anche con mezzi peggiori.
Jessica Kincaid no, invece, e appena si furono messi le cuffie annunciò di sentire odore di carburante.
«Viene dai serbatoi supplementari che ci sono a bordo» le spiegò Janson.
Ma il copilota e meccanico si affrettò a difendere i serbatoi nuovi di zecca. «L’ausiliario non perde» la rassicurò. «Perde il serbatoio principale. No problem.»
Lei lanciò un’occhiata in tralice a Janson. «Dovrei sentirmi sollevata?»
Janson indicò il quadro degli strumenti. «Puoi stare tranquilla, fino a quando non vedi uno di quei sensori di microparticelle illuminarsi.»
«Sensori di cosa?»
«Se rilevano microparticelle metalliche fluttuanti nell’olio del motore intorno ai cuscinetti principali, il manuale dice “Atterrare finché è possibile”.»
«Bene, ora sono molto più serena nel saperlo.» Jessica controllò il gommone rigido gonfiabile, gli RPG che avevano avuto cura di non confondere con le casse di aragoste, quindi si allacciò la cintura e chiuse gli occhi. L’S-76 ricevette l’autorizzazione al decollo e si staccò da terra in un frastuono di cuscinetti delle turbine allentati. Nonostante il rumore inquietante, Janson e Kincaid si scambiarono uno sguardo soddisfatto. Il pilota sapeva il fatto suo. Quando l’elicottero fu a quattromila metri sopra l’Atlantico e si diresse verso ovest a centotrenta nodi orari, i due agenti erano già addormentati. Si svegliarono nello stesso istante, un’ora dopo.
«Bateau délesteur» disse il francese, indicando una piccola nave grigia che avanzava faticosamente nel mare torbido, lungo la costa africana. Janson guardò giù con il binocolo. Era un ferrovecchio carico di materiale, una ex nave di servizio offshore lunga sessanta metri convertita in nave cargo. Il ponte principale era zeppo di automobili usate, bancali di acqua in bottiglia e cumuli informi coperti di teloni di polietilene azzurro. A prua c’era la timoniera a tre piani e a poppa un argano fisso per il carico e scarico delle merci, dunque non c’era posto per atterrare con l’elicottero.
«Scendiamo con il cavo» decise Janson, e passò il binocolo a Kincaid. L’elicottero poteva restare in sospensione solo sulla verticale del tetto della timoniera mentre i due si calavano con il cavo. Lo spazio era comunque molto limitato e al centro girava un’antenna radar orizzontale lunga poco più di un metro.
Janson contattò via radio il capitano della nave sul canale VHF a corto raggio specificato dall’angolano, per evitare di trasmettere sul canale marino generale, ascoltabile da chiunque. Il capitano parlava solo francese, e Janson passò il microfono a Kincaid.
«Démontez l’antenne radar, s’il vous plaît.»
L’antenna radar smise di girare. Mentre alcuni marinai salivano sul tetto con gli utensili per smontare il radar, Janson e Kincaid attaccarono il gancio di carico dell’elicottero all’imbracatura del giubbotto salvagente. Poi si caricarono in spalla zaini e fucili, infilarono i guanti per proteggere le mani dall’attrito della discesa e fissarono l’estremità libera del cavo a un anello d’acciaio ancorato al pianale del velivolo. Janson diede istruzioni al pilota di volare a punto fisso tenendosi a venti metri dal tetto della timoniera.
L’elicottero si abbassò obliquo, avvicinandosi lateralmente. Il francese era un pilota eccezionale, con una grande sensibilità sui pedali; sapeva aumentare e ridurre la potenza dosandola senza strappi.
Ma, al contrario del capitano di una nave, la cui responsabilità primaria è nei confronti dei suoi passeggeri, le priorità di un pilota di elicotteri sono il mezzo e l’equipaggio, i clienti vengono solo dopo. Il francese avrebbe fatto tutto il possibile per evitare di precipitare, compresa una ripartenza improvvisa mentre Janson o Kincaid erano ancora appesi al cavo.
Jessica lanciò dal portellone il capo libero della fast rope, avvolto intorno a un pezzo di legno. La grossa corda si srotolò fino a toccare il tetto della timoniera, sferzando violentemente l’aria agitata dalle pale. Janson l’afferrò con le mani protette dai guanti e se la tenne aderente al corpo, dopo essersela fatta passare tra le cosce e intorno al polpaccio sinistro. Con il fucile d’assalto a tracolla rivolto con la canna verso il basso e la testa girata di lato, si diede una spinta e si lasciò scivolare lungo la corda, controllando la discesa stringendo la fune tra le mani. Il suo peso manteneva la corda in tensione. Atterrò sul tetto, diciotto metri sotto l’elicottero.
Kincaid mise in bilico il pesante gommone gonfiabile sull’orlo del pianale e lo calò con l’argano elettrico. Janson lo guidò sul ponte, le fece segno di recuperare il cavo e le tenne ferma la fast rope. Lei scese in tre secondi, atterrando leggera accanto a lui. Janson segnalò al pilota che poteva ripartire e lasciò andare il cavo.
Scesero dalla scaletta dietro la timoniera, entrarono e si presentarono ai loro riluttanti ospiti.
Il capitano era talmente nervoso da non riuscire a spiccicare nemmeno una parola nel suo inglese elementare. Il capitano in seconda, un congolese, non parlava inglese per nulla. Janson non conosceva abbastanza il francese. Intervenne Kincaid, e il capitano si tranquillizzò.
«Ben fatto» si congratulò Paul. «Come hai fatto a farlo sorridere?»
«Gli piace il mio accento francese. Crede che io viva a Parigi. Vuole portarmi fuori a cena alla prima occasione. Ora però abbiamo un problema. C’è una motovedetta della Guardia Costiera americana in pattuglia, tra noi e la Isle de Foree.»
«La vedo sul radar» replicò Janson. Sullo schermo, accanto al timoniere silenzioso, si vedeva una grande nave a ovest, a dodici miglia di distanza. Dall’elicottero non l’avevano notata, a causa della foschia.
«Cosa ci fa la nostra Guardia Costiera a diecimila chilometri da casa?»
«Probabilmente fa parte dell’Africa Partnership Station. La sua missione è mantenere una “presenza persistente”, come dicono loro. In altre parole, mostra la bandiera nell’area petrolifera.»
«Già, infatti il capitano teme che vengano a dare un’occhiata. Soprattutto se hanno individuato l’elicottero sul loro radar. Vuole farci nascondere in un ripostiglio nella sala macchine.»
«Chiedigli dove stanno i trafficanti di armi.»
«Sono già nascosti.»
Janson rivolse un segno di assenso al capitano e disse a Jessica: «Riferisci al capitano che nemmeno noi abbiamo voglia di spiegare la nostra presenza alla Guardia Costiera degli Stati Uniti. Meglio nascondere anche il gommone».
Il capitano ordinò ai marinai di dar loro una mano e poco dopo il gommone era sul ponte di coperta, invisibile sotto un telone azzurro. Il segnale radar si avvicinava. A otto miglia il pattugliatore comparve all’orizzonte, come un puntino luminoso. A cinque miglia se ne distingueva la sottile silhouette, affilata come una lama di coltello. A quattro miglia si alzò in volo un elicottero, descrisse un cerchio sopra di loro e tornò indietro.
Poi la nave americana li contattò via radio, identificandosi come pattugliatore costiero U.S. Dallas, attivo nel quadro del programma antipirateria African Partnership Station. Il capitano rispose alle domande relative a nome della nave, carico imbarcato, porto di partenza e destinazione.
Janson sentiva delle voci in sottofondo, dal ponte di coperta del pattugliatore. In apparenza, intorno alla radio erano radunate più persone. Il capitano disse qualcosa a Kincaid, la quale tradusse: «Dice che probabilmente è solo un’esercitazione, forse hanno a bordo dei marittimi locali».
La Dallas annunciò l’intenzione di fare un’ispezione a bordo e chiese al capitano di mettersi in panna.
«Merde!» esclamò il capitano.
«Merde sul serio» commentò Janson. «Forza, andiamo nel nascondiglio.»
Si misero gli zaini in spalla. Il capitano in seconda congolese li guidò lungo quattro rampe di scale. Giunto in fondo, aprì una pesante porta metallica e furono investiti dal rumore assordante di due motori diesel Electro-Motive 16 cilindri da tremila cavalli. Fece strada nella sala macchine fino a raggiungere un ponte intermedio meno rumoroso e fiocamente illuminato. Più o meno a metà della lunghezza della nave, bussò con le nocche su una paratia dipinta di grigio, attese trenta secondi e bussò di nuovo. La paratia, in apparenza una lastra d’acciaio inamovibile e saldata alla struttura interna della nave, si aprì di lato con uno stridore metallico. Janson fu sollevato nel constatare che i trafficanti di armi sapevano il fatto loro.
Si fecero avanti due uomini, un angolano scuro di pelle e un mulatto sudafricano.
«Cosa c’è?» chiese quest’ultimo con voce nasale. Spalancò gli occhi alla vista di Jessica Kincaid, alle spalle di Janson con la pistola in pugno per coprirlo.
«C’è posto per altri due?» domandò Janson.
«Voi siete i dannati mercenari americani?»
«Sì, siamo noi» confermò Janson. «E voi siete le nostre guide profumatamente pagate, Agostinho Kiluanji e Augustus Heinz. Sentite, quelli della Guardia Costiera degli Stati Uniti stanno per salire a bordo. Perché non continuiamo la nostra conversazione in un luogo sicuro?»
Il capitano in seconda, il quale in teoria non capiva l’inglese, annuì convinto.
Il sudafricano domandò: «La ragazza non può mettere via l’artiglieria?».
«Appena saremo dentro.» Janson li superò per entrare in un locale rivestito di lucido acciaio inossidabile, lungo una decina di metri e largo meno di due. Probabilmente era un serbatoio per il trasporto dei fanghi di trivellazione. Qua e là c’erano cumuli di materiali vari e attrezzatura, ma nessuna persona.
«Via libera!» annunciò a Kincaid.
Entrarono tutti nel nascondiglio.
La paratia si richiuse con un clangore che riecheggiò nelle viscere della nave. L’unica luce era quella di una lanterna elettrica.
L’imbarcazione si fermò a dieci miglia al largo per calare fuoribordo prima il gommone rigido dei trafficanti, già carico di armi, quindi il gommone più piccolo di Janson e Kincaid. Poi, mentre la nave continuava la sua rotta per Porto Clarence, tra i due natanti venne tesa una cima per evitare di perdersi di vista nel buio e si diressero verso la costa, ancora invisibile. Erano dotati di GPS manuali, ma in assenza di luci a segnalare i canali di accesso, Janson e Kincaid dovevano affidarsi all’esperienza delle loro guide per non perdersi nella foce paludosa del fiume.
La costa era buia e apparentemente disabitata, cosa abbastanza ovvia, dato che il novanta per cento della popolazione abitava a Porto Clarence. A velocità moderata, i motori fuoribordo erano abbastanza silenziosi e la brezza di terra che soffiava verso il mare contribuiva a coprire i loro eventuali rumori. Non riuscivano ancora a sentire il suono della risacca sulla spiaggia, ma capirono di essere in prossimità della riva dall’aumentare del moto ondoso. Janson accorciò la cima tra i due gommoni mentre Jessica stava al timone, fino a quando tra i due natanti rimasero pochi metri.
All’improvviso la corrente fece sobbalzare il gommone. Avevano imboccato la foce. I due africani diminuirono la velocità, seguiti subito da Jessica, la quale imprecava sottovoce timonando a vista, per cercare di seguire la rotta ondeggiante dell’altro gommone. Finalmente il vento calò e si trovarono sotto una macchia di alberi, nell’aria sempre più calda, umida e appiccicosa. Furono subito circondati da nugoli di zanzare, rabbiosamente ronzanti al repellente che si erano spalmati su collo e faccia. Tra il fogliame filtravano deboli luci giallastre, con ogni probabilità lampade a olio. Se per caso qualcuno aveva sentito il borbottio dei motori al minimo, non si avvicinò a indagare.
Procedettero ancora per circa un chilometro e mezzo seguendo le indicazioni del GPS accuratamente schermato, quindi sul gommone davanti spensero il motore e Jessica fece altrettanto. Il silenzio era rotto solo dal ronzio degli insetti notturni e dal rumore della ghiaia che grattava contro il fondo di gomma mentre i due natanti si fermavano a riva.
Trascinarono rapidamente i gommoni in una specie di nicchia ricavata dai trafficanti tra le mangrovie protese sull’acqua. Janson percepì, senza vederli, la presenza di alcuni uomini in attesa e, per un orribile istante, pensò che li avessero scoperti. Invece ci furono dei saluti a bassa voce e cominciarono a scaricare le armi dal gommone.
Janson attirò l’attenzione di Jessica dandole un colpetto sulla spalla. Poi intrecciò saldamente le mani in modo da fornirle un appoggio per arrampicarsi tra i rami di mangrovia. Dopo aver perlustrato la zona con lo sguardo si fece passare i due zaini; quindi si issò anche lui. Kiluanji, Heinz e i loro uomini si avviarono verso l’interno lungo un sentiero, seguiti da Paul e Jessica. Janson controllò l’orologio: avevano a disposizione ancora tre ore di buio.
Nella parte iniziale, il sentiero era una stradina rialzata che attraversava la palude. Dopo circa un chilometro il terreno cominciò a salire leggermente e si lasciarono l’acqua alle spalle. Raggiunsero una pista in terra battuta, si guardarono intorno con cautela e la percorsero in fretta. Poco dopo ne superarono un’altra, coperta da un velo di petrolio. Continuavano a procedere in salita. A un tratto arrivò l’alba, e intorno a loro apparvero filari geometrici di arbusti verdi, inframmezzati da capanne di legno. Dall’odore capirono di essersi addentrati nelle piantagioni di caffè della Isle de Foree.
Avanzavano spediti, tenendosi alla larga dalle costruzioni cadenti che avvistavano di tanto in tanto e aumentando l’andatura nei tratti allo scoperto. Quando giunsero a una strada di cemento rialzata sul livello della foresta, le guide si fermarono e posarono l’orecchio sul terreno per capire se ci fossero veicoli in avvicinamento. Heinz tornò indietro e, rivolto a Janson, disse: «A questo punto dovreste andare avanti per conto vostro. Siete più veloci di noi, col nostro carico».
Janson valutò il terreno davanti a sé. Dove terminava la piantagione di caffè si faceva sempre più ripido. Rivolse un cenno a Jessica, la quale prese trentamila euro in mazzette da cento e li mise in mano al sudafricano. Era più di quanto Heinz e Kiluanji avrebbero guadagnato con il trasporto di armi e farmaci.
Janson gli tese la mano. «Grazie.»
«È strano.»
«Cosa?»
«Niente pattuglie. Niente guardia presidenziale e nemmeno i tizi che prendono soldi da noi. Non abbiamo incontrato un’anima.»
«Cosa significa?»
«Sono impegnati da qualche altra parte. Forse stanno organizzando un’offensiva.»
«Con i carri armati?»
«So soltanto che voglio andarmene in fretta, e voi dovreste fare lo stesso.»
«In altre parole, muoviamoci» tagliò corto Jessica.
Balzarono sulla banchina, attraversarono la strada di cemento e cominciarono a correre.
Più su, la fascia delle coltivazioni cedeva il passo a una giungla lussureggiante, dove il caldo e l’umidità erano insopportabili. Il carico di Jessica pesava trenta chili, quello di Janson quaranta. Sudando copiosamente, alternavano poco più di un chilometro di corsa a uno di marcia, sul sentiero sempre più ripido. Nella prima ora percorsero cinque chilometri e mezzo, nella seconda poco più di tre: correre non era più possibile, ora dovevano arrampicarsi.
L’aspetto positivo era un lieve abbassamento della temperatura e dell’umidità, poiché l’intrico soffocante della giungla aveva lasciato il posto alla foresta pluviale, con alberi alti e ombrosi. Decisero di concedersi una pausa. Si trovavano nella terra di nessuno dove i soldati di Iboga non si avventuravano. Poco più in là iniziava il territorio controllato dall’FFM, fino all’accampamento sulle pendici del Pico Clarence, guardato a vista.
Da quel punto in avanti avrebbero dovuto attendere la notte, quando i dispositivi per la visione notturna avrebbero consentito loro di vedere senza essere visti. Ma potevano permettersi di aspettare, se davvero il dittatore stava per lanciare un’offensiva? Fino ad allora tutto era andato liscio. Avevano colto al balzo le opportunità che si erano presentate, ma ora era il momento di rischiare. Così si rimisero in marcia.
Dopo neppure ottocento metri Jessica, che procedeva in testa, si bloccò all’improvviso. Non ebbe bisogno di avvertire Janson con un cenno o usando l’auricolare. Il suo linguaggio del corpo era eloquente: c’erano alcune sentinelle nascoste in agguato. Janson si fermò all’istante.