41

Il magrissimo pilota francese del vecchio Sikorsky S-76 della LibreLift aveva una tosse ancora peggiore rispetto a qualche settimana prima, quando aveva trasportato Janson e Kincaid sul cargo dei trafficanti di armi. Dava l’impressione di un rantolo, quasi avesse un cancro alla gola. I vapori della costante perdita di carburante irritavano le mucose già infiammate. Il massiccio copilota angolano lanciava al collega sguardi preoccupati.

Gli accessi di tosse ovviamente interferivano con il pilotaggio e l’elicottero ondeggiava sfiorando le creste delle onde. Janson premette una mano sulla spalla di Ferdinand Poe per rassicurarlo. Le luci di Porto Clarence si affievolirono, seminascoste dalla foschia equatoriale. Davanti a loro, l’oceano si stendeva scuro e monotono.

Janson ascoltava il canale radio VHF marino, in attesa di un contatto sul canale 16, non appena un ufficiale di guardia attento avesse notato un segnale radar non identificato. Dopo quindici minuti di volo al buio a 130 nodi, il massimo consentito al vecchio elicottero perché le turbine non facessero fuori i rotori, all’orizzonte si cominciò a intravedere un tenue chiarore.

Si faceva sempre più vivido.

Erano a soli otto chilometri dalla sorgente di luce, quando ricevettero un segnale radio. «Velivolo a uno-tre-zero nodi su rotta uno-nove-quattro, qui è la Vulcan Queen. Mi ricevete?»

L’interrogativo era di routine. Il radar della nave trivella li aveva individuati, calcolando la velocità e la rotta dell’elicottero, ma non era in grado di stabilire con precisione la quota di volo senza ricevere un segnale dal loro transponder. L’ufficiale di guardia, non vedendo la risposta del transponder, avrebbe ipotizzato un guasto strumentale o un errore dell’operatore.

Janson controllò l’ora. Erano le 23:40. Come aveva sperato, sarebbero arrivati prima di mezzanotte. Il terzo ufficiale di coperta della Vulcan Queen, il più giovane e il meno esperto degli ufficiali della nave, sarebbe stato ancora di guardia nella fascia dalle otto a mezzanotte. L’andirivieni degli elicotteri della ASC avrebbe dovuto portarlo a concludere che anche il velivolo non identificato facesse parte dello straordinario traffico di quella notte. Ora tutto stava nel temporeggiare in modo da avvicinarsi il più possibile, ma non tanto da far innervosire l’ufficiale di guardia inducendolo a chiamare il capitano, probabilmente addormentato nella sua cabina sotto il ponte di comando.

Janson fissò la fune da discesa, la fast rope, nel portellone.

«Velivolo a uno-tre-zero nodi su rotta uno-nove-quattro, qui è la Vulcan Queen. Identificatevi e dichiarate le vostre intenzioni.»

«Pazzesco» commentò Poe. «Ci ritengono dei pirati. Ci spareranno addosso.»

«I pirati non si spostano in elicottero.»

A distanza ravvicinata, la nave brillava come un albero di Natale. C’erano lampade e fari accesi ovunque, e le alte ciminiere quadrangolari a poppa, le torri di trivellazione alte quaranta piani e la gigantesca cabina di comando a prua erano illuminate a giorno. Lo scafo, lungo trecento metri e alto venticinque, era talmente grande da creare un angolo morto per il vento. Sopravento, le onde s’increspavano sferzando la murata. Sottovento l’acqua era liscia come l’olio. Qui, ormeggiata sotto un braccio di carico, c’era una scialuppa di servizio, anch’essa in piena luce.

C’erano altre tre navi di servizio, in attesa del loro turno. Su tutte erano presenti numerosi sistemi antincendio, a ricordare che lo scopo primario dell’enorme officina galleggiante era lo sfruttamento di idrocarburi volatili altamente infiammabili. Anche la Vulcan Queen era dotata di numerose scialuppe di salvataggio di colore arancio vivo. Erano natanti sistemati in modo da poter scivolare in mare tramite alaggi quasi verticali.

Il tetto della plancia di comando a sei piani era punteggiato di cupole bianche. Servivano a proteggere le antenne satellitari per ricevere i dati GPS per il sistema di posizionamento delle eliche intubate e dei propulsori a capsule orientabili, in modo da mantenere la nave in posizione. Pur esposta al vento e al mare agitato, la Vulcan Queen non si spostava, rollio e beccheggio erano assenti. Di fatto, era immobile come un continente.

«Velivolo a uno-tre-zero nodi su rotta uno-nove-quattro, qui è la Vulcan Queen

Janson rispose fingendo un gergo da addetti ai lavori. «Crew Bird ASC 44, in arrivo con un carico di novellini.» I «novellini» erano i principianti, i lavoratori in servizio per la prima volta sulla nave.

L’elicottero era vicinissimo, e Janson riusciva a distinguere le torri di trivellazione e le numerose gru in azione. La nave era operativa sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro.

Gli operai si affaccendavano sugli argani di sollevamento. Alcuni movimenti sul ponte di coperta attirarono la sua attenzione. Una squadra di addetti alla sicurezza stava approntando il cannone sonico della nave e i cannoncini ad acqua: come potevano anche solo temere un’azione suicida di pirati del Golfo di Guinea lanciati all’attacco di un simile colosso del mare?

«ASC 44, il vostro transponder è ancora negativo.»

«È tutto il giorno che non funziona» si scusò Janson, battendo sulla spalla del pilota.

Il francese puntò dritto sulla piattaforma di atterraggio per gli elicotteri, sospesa sopra la prua della nave. La zona di atterraggio era a pochi metri dal centro di comando della Vulcan Queen, la zona nevralgica più vulnerabile.

La voce del giovane ufficiale alla radio si fece a un tratto venata di panico: «Negativo! Negativo! Non potete atterrare senza autorizzazione!».

«Ho un intero equipaggio di novellini» protestò Janson. «Cosa ne faccio di questa gente?»

Si tolse le cuffie e infilò i guanti per la fast rope. In preda a un violento accesso di tosse, il francese tenne l’elicottero sospeso a una quindicina di metri dalla piattaforma. Janson lanciò la fune e si calò rapidissimo. Quattro secondi dopo aver toccato l’area di atterraggio stava già scendendo una rampa di gradini metallici. Giunto sul pianerottolo, saltò il corrimano per atterrare sulla seconda rampa. Due addetti alla sicurezza in divisa gli si fecero incontro sulle scale. Alzarono i fucili a canna corta, pronti a scaricargli addosso una raffica di pallettoni.

Janson sparò per primo. La detonazione dell’MP5 silenziato fu ulteriormente attutita dal rumore sordo del rotore e dal sibilo acuto della turbina dell’elicottero che si allontanava nel cielo notturno.

Superò con un balzo le due guardie a terra e si introdusse nella plancia di comando da una porta laterale. Il locale, buio e silenzioso, era appena rischiarato dagli schermi dei computer e dagli strumenti di navigazione. Janson vi trovò solo due uomini, nessuno dei quali era un addetto alla security, e seppe di aver indovinato. I jet privati, la flotta di elicotteri, la gigantesca nave davano sicurezza agli uomini della compagnia petrolifera, anche se al sicuro non erano di certo.

L’operatore dell’unità di posizionamento dinamico e l’ufficiale di coperta con cui Janson aveva parlato via radio poco prima guardarono stupefatti le sue armi e il passamontagna calato a coprirgli il volto. L’operatore rimase al suo posto, davanti ai monitor e alla tastiera. Il giovanissimo ufficiale, non dimostrava più di vent’anni, corse verso l’uscita sul ponte in preda al terrore.

Janson lo precedette con l’MP5 spianato.

«Calma, ragazzo. Nessuno si farà male» gli disse spingendolo accanto all’operatore, rimasto chino sulla sua strumentazione. «Tu continua a fare il tuo lavoro» gli ordinò Janson. «Fa’ in modo di mantenere la nave in posizione. Non deve spostarsi di lato. È chiaro?»

«Sì, signore.»

Poi si rivolse di nuovo all’ufficiale: «Chiama il capitano Titus. Quando risponde, passami il ricevitore».

Il giovane ubbidì e porse il telefono a Janson con mano tremante.

«Capitano Titus, salga sul ponte ad accogliere il presidente della Isle de Foree.»

«Con chi diamine sto parlando?»

«Abbiamo preso il controllo del ponte della sua nave, capitano Titus» annunciò Janson, usando il «noi» per lasciar intendere di essere al comando di un nutrito gruppo di uomini. «Non tenti di comunicare con nessuno. E non faccia intervenire gli addetti alla sicurezza. Se vediamo uomini armati, incominciamo a sparare sui computer del posizionamento dinamico.»

«Ma siete impazziti? La nave…»

«La sua nave andrebbe alla deriva all’istante. Sarebbe del tutto fuori controllo e strapperebbe gli oltre nove chilometri di tubazioni verticali e di colonne di perforazione installate dalla American Synergy Corporation sul fondale al costo di cento milioni di dollari. Ora salga. Da solo. Usi le scale, non l’ascensore. Subito!»

Janson indietreggiò contro una paratia, da dove poteva tenere d’occhio al contempo l’ascensore, le scale e le uscite sulle ali di plancia. «Apri la porta al capitano» ordinò. Il giovane ufficiale eseguì. Janson sentì i passi di una sola persona sui gradini metallici. Poi qualcuno che avanzava nel corridoio di accesso alle cabine e infine il capitano irruppe in plancia. Era un uomo in divisa kaki dal collo taurino; aveva i capelli rasati e l’aria truce. Se trovandosi di fronte Janson armato fino ai denti e con il volto coperto si spaventò, non lo diede a vedere.

«E lei chi diavolo è? Cosa sta facendo sulla mia nave?»

«Abbiamo preso possesso della nave» ripeté Janson. «Nessuno verrà ucciso e non ci sarà alcun danno se farà esattamente quanto le verrà detto. In caso contrario, metterò fuori uso il posizionamento dinamico.» Fece un gesto al terzo ufficiale. «Contatta l’elicottero via radio; dagli l’autorizzazione all’atterraggio.»

Il giovane lanciò uno sguardo al capitano.

«Faccia come le dice!» gridò questi.

L’S-76 si avvicinò rumoreggiando dal cielo. Dopo un’attesa spasmodicamente lunga, Ferdinand Poe apparve alla porta dell’ala di plancia, sorretto dal copilota angolano. Questi lo aiutò a entrare, gli porse il mitra e si allontanò di corsa.

«Sta bene, signore?» gli domandò Janson.

«Benissimo» confermò Poe ansimando.

Janson riprese: «Capitano Titus, questo è il suo ospite, il presidente provvisorio della Isle de Foree, Ferdinand Poe».

«Chi cazzo credete di essere, per abbordare la mia nave in mezzo all’oceano? Siete solo dei dannatissimi pirati» ruggì Titus.

«Non siamo in mezzo all’oceano, capitano» lo corresse Ferdinand Poe in tono duro.

«Cosa?»

«Siamo sul territorio sovrano della Isle de Foree. Ed è lei a essere ospite del mio Paese.»

«La legge marittima…»

«La legge marittima vi consente di attraversare le nostre acque territoriali, nulla di più. Poiché siete ancorati ai nostri fondali tramite le tubazioni e le colonne di perforazione, vi trovate sulla proprietà della Isle de Foree.»

«Per staccarvi» incalzò Paul Janson «mi basta sparare una raffica su quei computer.» Puntò l’MP5 verso l’addetto all’unità di posizionamento.

«Ho capito, accidenti! Cosa volete?»

«Quanti sono i dirigenti della ASC a bordo?»

«Sono qui tutti. La metà del dannatissimo Texas.»

«Cosa mi sa dire del servizio di sicurezza?»

Il capitano Titus esitava.

Janson riprese in tono algido: «Questo è il posto meno adatto per una sparatoria. A bordo di questa nave ci sono duecento lavoratori, capitano, fra marinai, tecnici, addetti ai macchinari, capisquadra, operai specializzati, steward e personale di cucina. Faccia molta attenzione nel rispondermi».

«Dispongo di un’unità di sicurezza della ASC composta da quattro persone.»

«Quanti altri uomini ha portato con sé a bordo il signor Case?»

Il capitano lasciò ricadere le spalle in avanti. «Dieci.»

«Che tipo di gente è?»

«Milizia privata.»

Janson e Poe si scambiarono una rapidissima occhiata. Il capitano Titus raddrizzò di nuovo la schiena. Guardò Janson dritto negli occhi e parlò come un ufficiale abituato a mediare tra autorità e buon senso: «Signore, sono comunque più di voi e hanno una maggiore potenza di fuoco. Perché non risparmia a un mucchio di persone innocenti un bel po’ di sofferenza e non depone le armi?».

L'occhio della fenice
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