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«C’è una gran folla stasera, a Porto Clarence» osservò Jessica Kincaid portando l’Embraer sulla pista di rullaggio, poco lontano da quella di atterraggio della Isle de Foree spazzata dal vento.

Janson scrutò l’area di parcheggio, cercando l’aereo sul quale avrebbe potuto arrivare Iboga.

Era affollata sul serio. Quando era ripartito dall’isola, dopo aver accettato l’incarico di catturare il dittatore, l’unico aereo presente sullo spiazzo d’asfalto era il suo. Quella sera, davanti al lussuoso terminal fatto costruire da Iboga a memoria futura del suo governo, erano fermi tre Gulfstream bianchi e oro della American Synergy Corporation. Un Boeing 777 della portoghese EuroAtlantic Airways si apprestava a partire e un 737 della TAAG Angola Airlines si stava spostando verso la pista di decollo. Evidentemente Ferdinand Poe era riuscito a convincere le compagnie aeree che la sua isola era sufficientemente stabile da far loro riprendere il servizio commerciale per Lisbona e Luanda, come indicava la presenza di aeromobili passeggeri. Un risultato notevole.

Vide alzarsi in volo un S-76D, un elicottero nuovo di zecca con la livrea bianca e oro della ASC. Alcuni uomini in maniche di camicia e il solo bagaglio a mano aspettavano di salire a bordo di un secondo elicottero. Presumendo fossero dipendenti della ASC in attesa di essere trasportati al largo, a bordo della nave trivella Vulcan Queen per il cosiddetto «evento mediatico», Janson cercò con gli occhi la carrozzina superaccessoriata di Doug Case, ma non la vide. Forse era già partito con il primo trasbordo.

I funzionari del controllo passaporti della Foree, in servizio anche all’epoca della loro ultima visita, accolsero Janson con calore. Avendo chiesto dove si trovasse da Costa, il capo della sicurezza, ricevette una risposta sconcertante. «Si è appena imbarcato sul volo per Lisbona.»

«Da Costa sta per partire?» Com’era possibile, con Iboga a piede libero? «L’aereo per Lisbona è ancora sulla pista. Devo parlargli subito.»

«Venga con me! Faccia presto, forse riusciamo a raggiungerlo. Ai documenti penseremo dopo.»

Il funzionario guidò Janson nel terminal, quasi del tutto vuoto. I voli commerciali probabilmente non avevano ancora molti passeggeri. Le luci erano accese ovunque, ma solo alcuni sportelli erano in funzione e in fila al gate per il volo della EuroAtlantic diretto a Lisbona c’erano pochissime persone.

«Laggiù!»

Janson attraversò il salone a grandi falcate. Da Costa, la giacca sul braccio e un piccolo trolley, sembrò stupito di vederlo. «Cosa ci fa qui, signor Janson?»

«Dove sta andando?» lo apostrofò Janson.

«A Lisbona. Una piccola vacanza, in realtà.»

Janson disse: «Ho saputo della morte del capo dello staff Margarido».

«Una vera tragedia. Così giovane!»

«Non è un momento poco opportuno per andarsene in vacanza, dopo la morte improvvisa di un elemento così importante del governo?»

Da Costa rispose con un sorriso distaccato e in tono disinvolto. «Si tratta di un viaggio programmato da tempo. La saluto.»

«Si rende conto che Iboga potrebbe approfittare di questo momento per ritornare sull’isola?»

«Lei non è riuscito a catturarlo, questo lo so. Addio, Janson. Devo andare.»

«Mi faccia un ultimo regalo» replicò Janson.

«Un regalo?» Da Costa gli lanciò un’occhiata curiosa. «Non sono un uomo ricco.»

«Non le sto chiedendo una mazzetta, ma un gesto capace di farla sentire un po’ meglio.»

«Cosa dovrei fare?»

«Prima di partire, dia ordine alla guardia presidenziale di Poe di disporsi davanti al palazzo.»

È impossibile. Sono impegnati nelle manovre all’interno dell’isola.»

«Non c’è nessuno a guardia del palazzo?»

«Alcuni sono rimasti.»

«Allora, per favore, mi conceda l’autorizzazione ad atterrare a palazzo in elicottero.»

Il capo della sicurezza prese il cellulare. Sembrava sollevato di poter contribuire in qualche modo. «Questo posso farlo. Quali sono le insegne dell’elicottero?»

«LibreLift, con il prefisso “TR”, corrispondente al Gabon, prima del numero di registrazione.»

Da Costa fece una rapida telefonata. Poi, rivolto a Janson, disse: «Fatto».

«Grazie. Sicuro di non voler rinviare la sua vacanza?»

Da Costa fissò Janson dritto negli occhi. Sulla guancia gli vibrava un muscolo. «Sono sopravvissuto facendo la spia nella roccaforte di Iboga affidandomi all’istinto. E ora l’istinto mi dice di imbarcarmi su quello che potrebbe essere l’ultimo volo per Lisbona. La prego, non mi guardi con disprezzo. Non è facile abbandonare il proprio Paese.»

«Lo so» annuì Janson. «È difficile quasi come non abbandonarlo.»

Il capo della sicurezza sembrava imbarazzato. Disse, in un sussurro: «Chi mi ha dato soldi per andarmene crede che abbia accettato per avidità. No, lo faccio per salvarmi la vita. Qui è finita. Iboga tornerà al potere. Se rimanessi, sarei un uomo morto».

«Chi è stato a pagarla?»

Da Costa si allontanò senza rispondere. Era quasi arrivato al gate, quando si fermò e tornò indietro.

Janson gli andò incontro. «Ha cambiato idea?»

«No» disse da Costa. «Però le faccio un altro regalo: se fossi in lei, controllerei lo schermo con l’elenco degli arrivi.»

Janson si guardò intorno in cerca del monitor più vicino. Quella sera era atteso un unico volo, proveniente dall’Angola. Il volo 224 della TAAG Angola Airlines da Luanda, in arrivo per le 21:00, era contrassegnato «In ritardo» e avrebbe dovuto atterrare a mezzanotte.

Janson capì tutto all’istante dal sorriso dolente di da Costa. Iboga, di origini angolane e veterano delle guerre civili in quel Paese, era stato aiutato dai suoi amici di Luanda a imbarcarsi sul volo diretto alla Foree.

Presero tre taxi per raggiungere il palazzo presidenziale: due per gli spagnoli con le custodie degli strumenti e uno per Janson, Kincaid e i loro borsoni.

«È la prima volta che entro in azione in taxi» borbottò lei, tetra. «Dove sono andati tutti? Non c’è nessuno per strada.»

Nel palazzo regnava una calma surreale. Ai cancelli c’era un unico uomo in divisa, armato con un fucile d’assalto e una pistola; li fece passare e diede a Janson un biglietto da visita macchiato di grasso, con la dicitura LIBRELIFT.

Janson mandò Jessica a parlare con il pilota francese anoressico e trovò Ferdinand Poe nello studio, insieme ad alcuni anziani e a un ragazzo di quattordici anni. Il presidente provvisorio indossava un completo di lino bianco, gli altri erano in tuta mimetica. Erano tutti armati. Lo stesso Poe aveva sulla scrivania un FN P90, un mitra belga compatto, con una pila di caricatori di riserva. Era una vista piuttosto insolita, se non si ricordava che meno di un mese prima Poe era nascosto in un accampamento di ribelli nelle grotte del Pico Clarence.

«Il mio esercito?» Poe ripeté in tono risentito la domanda di Janson. «Alcune unità sono partite per una serie di “manovre” programmate all’improvviso, insieme alla mia guardia personale. Altre sono in caserma, in attesa di vedere cosa succederà.»

«Sono neutrali?» chiese Janson.

«Per il momento sì. Hanno paura di Iboga, ancora più di me. Non hanno intenzione di farlo arrabbiare finché non si capirà da quale parte soffia il vento, e non ci vorrà molto per vedere che mi sta soffiando contro.»

«Dove si trovano gli ex ufficiali di Iboga?»

«Nel carcere di Black Sand, dove si meritano di restare» rispose Poe.

«Chi c’è a sorvegliarli?»

«Alcuni uomini fidati.»

«Be’, almeno è un buon inizio» commentò Janson. «Finché sono sotto chiave non possono sollevare l’esercito contro di lei.»

«Il mio timore è che Iboga arriverà con forze sufficienti a prendere la prigione e liberare i suoi ufficiali. Loro raduneranno gli ex soldati, e quando succederà sarà tutto finito, tranne le stragi.»

«Molto probabilmente in questo momento si trova su un volo della Angola Airlines. Sarà a Porto Clarence a mezzanotte.»

«Maledetti angolani! Gli avranno tenuto pronto un aereo, sperando nel crollo di questa nazione così il nostro petrolio non farà concorrenza al loro.»

«Concordo con la sua analisi.»

«E senza dubbio gli avranno permesso di sistemare nella stiva un bel carico di armi.» Ferdinand Poe prese il suo mitra. Lo fissò, lo impugnò con mano esperta e disse, quasi parlando tra sé: «Non avrei mai pensato di diventare un soldato. O di morire da soldato».

«Questo forse è un po’ prematuro» osservò Janson. «Alla prigione lei ha degli uomini fidati, altri sono qui.» Indicò con un cenno del capo i militari attempati e il ragazzo. «E io ho con me un’unità piccola, ma temibile, per aiutarvi. Iboga non può fare niente, finché non riesce a liberare gli ufficiali.»

«Per quanto tempo sarò in grado di difendere il mio palazzo? Un’ora, due? Forse tre. Più volte ho dimostrato di essere più forte di quanto pensassi.»

«Non deve nemmeno provare a resistere qui. Consolidi le sue forze e porti i suoi uomini a proteggere la prigione di Black Sand.»

Poe scosse la testa brizzolata. «Organizzerò la resistenza qui.»

«Ma così farà il gioco di Iboga. Se si concentra sul palazzo, anziché sul carcere, gli ex ufficiali riusciranno a evadere e a sollevare l’esercito.»

«Lo vede anche lei, il dilemma. Anche con il suo aiuto, non ho uomini sufficienti per difendere il palazzo e la prigione.»

«Non c’è alcun dilemma. Deve soltanto resistere a Black Sand abbastanza a lungo perché io riesca a neutralizzare Iboga.»

«No. Non posso andare alla prigione.»

«Perché no?»

«Non posso farlo e non lo farò.»

«Non capisco» disse Janson.

Intervenne uno dei soldati anziani. «Il presidente provvisorio Poe ha sofferto molto, a Black Sand. Lei non può neppure immaginare il terrore e le torture che ha subito lì dentro.»

«Me lo immagino benissimo» replicò Janson.

«Ogni uomo ha il suo limite» riprese Poe. «Questo è il mio. Non posso tornare in quel posto. Combatterò qui, nel palazzo presidenziale.»

«Lei morirà, nel palazzo presidenziale» ribatté Janson.

«Se sarà necessario lo farò. Non ho paura di morire.»

«Se morirà non aiuterà il suo Paese, signor presidente.»

Jessica Kincaid, che era rimasta in ascolto sulla soglia, entrò nello studio. «Potremmo portarla via di qui, a Lisbona, o a Londra. Ci occuperemo noi di difendere la prigione e di catturare Iboga.»

«Buona idea» approvò Janson.

«No.» Poe scosse il capo. «Se me ne andassi dall’isola non sarei più nessuno, solo una sorta di pretendente al trono. Devo restare al comando di un territorio sovrano.»

«Potremmo tornare sulle montagne» suggerì uno dei suoi fedelissimi.

«Non siamo abbastanza forti per nasconderci sulle montagne. Nella migliore delle ipotesi, sarei isolato. Nella peggiore, sarei braccato come un animale.»

«L’abbiamo già fatto.»

«Allora eravamo in tanti» spiegò Poe con pazienza. «Mi dispiace. Quella volta abbiamo avuto il tempo di costruire delle opere di difesa, di ricevere aiuti dall’esterno, finanziamenti, armi. Iboga ci aveva sottovalutati. Questa volta non rifarà lo stesso errore e non ci lascerà il tempo di organizzarci.»

Kincaid fece un cenno a Janson per parlargli in privato. Gli disse a bassa voce: «Sta parlando di difendere l’indifendibile, Paul. Io non voglio morire per questo».

«Sono d’accordo.»

Il ragazzo propose un’altra idea. «Potremmo chiedere alla Nigeria di inviarci in aiuto i loro soldati.»

«La Nigeria mai!» esclamarono tutti all’unisono. Subito dopo scoppiarono a ridere, e per un momento la tensione si allentò.

«Forse c’è un altro modo» intervenne Janson.

Poe lo interruppe seccamente. «Avere valore agli occhi dei giganti è una maledizione.»

«C’è un altro modo» ripeté Paul Janson.

«E quale sarebbe?»

Sentì gli occhi di Jessica fissi su di lui.

«Hanno fatto rifornimento all’elicottero?» le chiese.

«Fino all’orlo.»

«Freddy, tu ci sei?»

Freddy Ramirez fece un passo avanti dal corridoio, stagliandosi sulla soglia.

Janson parlò ai presenti nello studio. «Ascoltate! Tutti gli uomini armati, alla prigione. Bisogna difenderla a ogni costo. Muoviamoci!» Si rivolse di nuovo a Jessica. «Prendi il tuo fucile.»

«Sì, signore.»

«Presidente Poe, lei viene con me sull’elicottero.»

«No» protestò Poe. «Dove ha intenzione di portarmi?»

«Andiamo ad abbattere i giganti.»

«Ma dove?»

«Nell’unico posto in cui il presidente della Isle de Foree può essere al sicuro, visibile e avere la situazione totalmente sotto controllo.»

L'occhio della fenice
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