10
Mario Margarido, capo dello staff di Ferdinand Poe, attendeva nell’atrio in giacca e cravatta. Solo quella mattina, Janson l’aveva visto con un giubbotto antiproiettile gonfio di caricatori di AK-47. «Vi siamo grati per tutto quanto avete fatto per il ministro Poe.»
«Non deve ringraziarmi» rispose Janson. «Ma forse lei potrebbe concederci le autorizzazioni perché il nostro aereo venga da Libreville a prelevarci? Ora vorremmo tornare a casa.»
«Potete rimanere come nostri ospiti a Porto Clarence.»
«È molto gentile da parte sua, ma è stata una missione lunga e faticosa e vorremmo davvero fare ritorno negli Stati Uniti.»
Janson osservò Mario Margarido soppesare la sua richiesta, nel momento in cui si rendeva conto che la vittoria gli attribuiva nuovi poteri, grandi e piccoli. In quanto capo dello staff del presidente, poteva accordare a un aereo il permesso di atterrare, oppure poteva chiudere lo spazio aereo. Doveva essere esaltante sapere di avere il potere di concedere agli altri di andare e venire.
«Forse sul suo aereo c’è posto per alcuni dei nostri agenti di stanza nel Gabon? Così potrebbero unirsi a noi per i festeggiamenti.»
«Sarebbe un piacere» disse Janson con un sorriso.
«Naturalmente il vostro aereo da Libreville è il benvenuto.»
Janson contattò Ed e Mike sul telefono satellitare e tre ore dopo l’Embraer toccava terra all’aeroporto internazionale della Isle de Foree, dove la popolazione in festa aveva abbattuto l’enorme insegna con la scritta PRESIDENTE A VITA IBOGA.
«Non spegnete i motori» li avvisò Janson. «Ripartiamo subito.»
Salirono a bordo, chiusero il portellone e Janson diede l’ordine di decollo.
«Cinture di sicurezza, signore.»
«Sì, certo. Cos’abbiamo per cena?»
«Secondo lei? Aragosta.»
«E…?»
Ed sorrise, orgoglioso. «Bistecca di manzo texana frollata a dovere, rucola angolana, pomodori del Gabon, pane francese e pasticceria italiana. Abbiamo barattato le aragoste con tutti i piloti di charter incontrati a Libreville. Abbiamo perfino lo champagne.»
«Prima però dobbiamo farci una doccia. Vado io per primo, Jesse. Faccio presto.» Sapeva che se si fosse fermato anche solo un minuto, si sarebbe addormentato. Si fece una rapida doccia e la barba, godendosi l’acqua e il sapone, e indossò pantaloni comodi e una camicia. «Prego, è tutto tuo.»
Poi prese un telefono, camminando avanti e indietro nel piccolo abitacolo. Chiamò Zurigo, Cape Town e Tel Aviv, lasciando a tutti lo stesso conciso messaggio: «Come posso fare a procurarmi un caccia a decollo verticale?».
Trevor Suzman, il vicecapo della polizia sudafricana, lo richiamò da Cape Town in tempo record, chiedendo compiaciuto: «Forse un biposto da addestramento?».
«Non ti sfugge niente, vecchio mio» rispose Janson. «Per caso hai sentito da dove potrebbe essere decollato?»
«Solo delle voci.»
«Ti andrebbe di riferirle anche a me?»
«No, non so niente di certo. Però gli Harrier hanno un’autonomia di volo molto ridotta, ti ricordo. Non può essere venuto da troppo lontano.»
«Da nove Paesi costieri o da una nave di modeste dimensioni. La scelta è piuttosto ampia» osservò Janson. «Raccontami di quelle voci.»
«Domani, quando senz’altro ne saprò di più» tagliò corto Suzman.
«Allora ti richiamo domani.»
Janson continuò a passeggiare avanti e indietro, ora del tutto sveglio, meditando su chi aveva inviato il Reaper. Ma non sapeva a chi telefonare per chiedere come procurarsi un drone da guerra. Naturalmente avrebbe potuto fare dei tentativi, ma la sola domanda avrebbe suscitato una valanga di interrogativi e indagini indesiderati.
L’Aeronautica degli Stati Uniti aveva dei droni da combattimento. Lo stesso valeva per la CIA. E anche per la Marina e l’Esercito. Forse un corpo delle forze armate americane appoggiava un intervento segreto nella guerra della Isle de Foree?
Rabbrividì a un pensiero improvviso e terribile. Forse anche le Operazioni Consolari disponevano di Reaper? Sarebbe stata un’alleanza diabolica: superspie con un’arroganza illimitata, dotate dell’arma più spaventosa del pianeta.
Fu costretto ad ammettere che la questione Reaper andava affrontata con la massima cautela. Chiunque si fosse impossessato della sua potenza distruttiva non vi avrebbe rinunciato senza combattere.
Jesse lo raggiunse al tavolo mentre Ed serviva la prima portata, aragosta fredda con maionese. «Grazie, Ed. Al vino ci penso io.» Janson stappò la bottiglia e riempì i bicchieri.
«Prima di brindare alla vittoria, facciamo un rapido debriefing.»
Janson e Kincaid avevano l’abitudine, acquisita nei servizi segreti, di fare una valutazione critica degli aspetti positivi e negativi dell’operazione. I colleghi del Delta Force con ironia la chiamavano autoanalisi, altri la definivano semplicemente report, ma a prescindere dal nome aveva lo scopo di rivedere un’azione nei dettagli, con l’obiettivo di non commettere lo stesso errore due volte.
Come al solito cominciò Kincaid: «Dunque, io sono rimasta troppo a lungo sull’albero, questo lo sappiamo già. Avrei dovuto seguire gli ordini, in quanto tu ti trovavi in una posizione da cui avevi una panoramica su situazioni che io non vedevo».
Janson era ancora alterato per quel comportamento e non intendeva lasciargliela passare. «Quando abbiamo iniziato a collaborare mi hai fatto una promessa. Te lo ricordi?»
«Me lo ricordo.»
«Qual era la promessa?»
Kincaid lo guardò dritto negli occhi e rispose a denti stretti. «Testuali parole: “Insegnami tutto. Sarò la tua migliore allieva”.»
«E io cosa ti ho risposto?»
«“Gli allievi prediletti di Paul Janson hanno la brutta abitudine di farsi ammazzare.”»
«È un mestiere pericoloso. Se ti dico di muoverti, devi farlo subito, senza discutere.»
«Sissignore.»
«C’è altro?» domandò Janson.
«Per ora mi sembra tutto… aspetta!» Sgranò gli occhi. «Cristo, Paul, e il guardaspalle di Iboga, quello che si è tuffato dal molo? Al momento questo dettaglio mi era sfuggito, ma non portava il fazzoletto giallo al collo come gli altri membri della guardia presidenziale.»
Janson rivide mentalmente i due tiratori prendere un caricatore dopo l’altro. «Hai ragione. Nemmeno io avevo messo a fuoco questo elemento… È come se quel tizio avesse consegnato Iboga all’Harrier e avesse detto: “Okay, missione compiuta”.»
«Un tipo tosto, se ha avuto il coraggio di tuffarsi nel porto del nemico.»
«C’era qualcuno ad aspettarlo con l’attrezzatura da sub, ci scommetto.»
«E tu? La Macchina ha commesso qualche errore?»
Janson la guardò negli occhi. «Uno, molto grave. La decisione di avvicinarsi all’accampamento dell’FFM nelle ore diurne è stata quasi fatale. Avremmo fatto meglio ad aspettare, per sfruttare al meglio i dispositivi per la visione notturna. La sentinella non ci ha sparato solo perché l’hai individuata per prima e non ti sei fatta vedere.»
«Cos’altro?»
«Di sicuro domattina mi verranno in mente molte altre cose, ma per stasera festeggiamo. Il medico è stato recuperato e, tra parentesi, abbiamo assistito alla vittoria di una giusta rivoluzione.»
Jessica Kincaid alzò il bicchiere e lo guardò negli occhi. «Ai medici liberi e a Foree libera!»
Brindarono e sorseggiarono lo champagne.
«Straordinario. Cos’è?» chiese lei.
Janson sciolse il tovagliolo legato intorno al collo della bottiglia e le mostrò l’etichetta. «Autentico Mumm.»
«Mai provato niente di più buono.»
Mangiarono un po’ di aragosta, insalata, pane, un pezzetto di bistecca, accompagnata da un Malbec argentino, e tutti i pasticcini sul vassoio. Ed sparecchiò la tavola e chiuse la porta della cabina.
«Stanco?» domandò Jessica.
«Nel corpo tanto, di testa no. E tu?»
«Ora no, ma potrei dormire due giorni di fila, immagino… ti sei fatto male da qualche parte?»
«Un po’» disse Janson. «E tu?»
«Vuoi vedere i miei lividi?»
«Puoi giurarci.»