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Dai suoi informatori Janson venne a sapere che tra i mercanti d’armi fornitori dell’FFM c’era un gruppo ben organizzato di angolani e sudafricani. Per questo motivo erano riusciti più volte a forzare il blocco dell’isola. Gli angolani erano uomini tenaci, addestrati e induriti dalle guerre civili sin dall’epoca della Guerra Fredda.

Con i proventi del traffico di diamanti da parte dei ribelli e la vendita del petrolio governativo avevano finanziato l’acquisto di carri armati, elicotteri e jet da combattimento. Erano esperti nell’uso delle armi, delle tattiche di fuga e di evasione più di chiunque altro nel continente africano. Forse solo i sudafricani, i mercenari più ambiti per esperienza e armamenti, potevano batterli.

A occuparsi materialmente della consegna delle armi ai ribelli erano due giovani audaci fino alla sconsideratezza, Agostinho Kiluanji e Augustus Heinz, detti «i Due A», dei quali si sapeva ben poco, se non che Kiluanji era probabilmente un nome di battaglia ispirato a un eroico difensore locale contro gli invasori portoghesi del Sedicesimo secolo. Janson conosceva il genere: uomini poveri e ambiziosi, disposti a rischiare la vita pur di diventare trafficanti di armi in proprio. Con loro occorreva parlare il linguaggio del denaro.

Ma, prima ancora dell’atterraggio dell’Embraer in Nigeria, arrivò una telefonata in cui si comunicava che i Due A non erano interessati a scortare una coppia di agenti segreti nell’accampamento dei ribelli.

«Aumenta l’offerta» ordinò Janson.

Il suo intermediario a Luanda eseguì e riferì di nuovo che non erano interessati. «Temono di poter avere brutte sorprese.»

«Metti sul piatto i missili Starstreak.»

Quando l’intermediario richiamò sembrava ansioso. «Cosa succede?» chiese Janson.

«Hanno rifiutato gli Starstreak.»

«E…?»

«Se glielo chiedo un’altra volta mi ammazzano, hanno detto.»

«Mi piacciono, quei due» commentò Janson.

«Cosa?»

«Non sono avidi. Sali sul primo aereo in partenza e vieni via dall’Angola. Ci penso io.»

Kruger, l’uomo di Zurigo, gli aveva segnalato il nome di un noto trafficante di armi libanese, un certo Hagopian, fornitore delle armi consegnate all’FFM da Augustus Heinz e Agostinho Kiluanji. Janson ne fu sorpreso.

Vendere armi di contrabbando ai ribelli africani, pur essendo un’attività molto redditizia, era rischioso. Janson conosceva bene Hagopian perché era stato una figura centrale nel settore sin dai tempi in cui vendeva armi a Saddam Hussein contro l’Iran per conto degli Stati Uniti. Forse Hagopian aveva pronosticato la vittoria dell’FFM e sperava di diventare il fornitore ufficiale del nuovo Stato, aggiudicandosi un flusso costante di denaro. O forse aveva bisogno di liquidi. Janson ricordò una magnifica proprietà sulle coste mediterranee e una sontuosa dimora a Parigi, entrambe dotate di sofisticati servizi di sicurezza, e di una moglie ugualmente costosa. In passato era stato soddisfatto dei suoi rapporti con Hagopian.

Janson diede quindi istruzioni al suo informatore in Europa di cercare Hagopian e individuare un punto debole nella sua corazza. Il libanese aveva mantenuto ottimi contatti nell’intelligence americana, per poter operare in modo relativamente trasparente e non comparire sulla lista dei ricercati di nessun governo legittimo. Eppure quello degli armamenti era un settore infido e in rapida evoluzione. L’informatore riferì a Janson che Hagopian aveva due figli: uno era in attività con lui, l’altro, Il’ič, era un «piantagrane».

«E cioè?» domandò Janson. «Quali grane potrebbe mai piantare il figlio di un trafficante di armi? Per caso si è fatto prete?»

«No» rispose il francese al telefono, senza cogliere la battuta. «Il figlio si è accordato con dei ladri.»

Janson carpì al francese qualche altro particolare, quindi chiese conferma ad altri suoi contatti in Europa. Infine telefonò a un beneficiario della fondazione Phoenix e gli chiese il suo aiuto.

Tutti i «diplomati» della Phoenix avevano telefoni dotati di un chip per criptare le conversazioni con Janson rendendole impenetrabili alle intercettazioni. Non tutti i beneficiari sapevano che dietro la fondazione ci fosse Paul Janson, ma Micky Ripster, come Doug Case, era un vecchio amico.

«Perché proprio io?»

«Mi serve una persona in grado di fare immediatamente una cosa a Londra, e tu sei a Londra.»

«Non è molto lusinghiero, ti pare? La geografia è più importante delle mie abilità.»

«Ti sbagli. È una fortuna che tu sia proprio lì. Nessun altro potrebbe farcela.»

«Ti sei dimenticato di avermi dato dei soldi perché andassi in pensione.»

«Io pago per la tua riabilitazione, non per mandarti in pensione. Non preoccuparti, è per una buona causa.»

«E ti aspetti il mio aiuto nell’uccidere qualcuno per “una buona causa”? Non sono iniziati così tutti i nostri problemi? Cosa c’è di diverso adesso, perché dovrei uccidere per le tue buone cause?»

«La differenza c’è, ora si seguono le regole di Janson.»

«E sarebbero?»

«Niente tortura. Niente vittime civili. Non si uccide nessuno, se non sta cercando di uccidere te.»

«Niente tortura?» ripeté Micky Ripster. «Niente vittime civili? Non si uccide nessuno, se non cerca di uccidere te? Janson, sto cercando di trattenere le risate.»

«Tu sei in debito con me» rimarcò Janson, in tono improvvisamente gelido. «Sono venuto a riscuotere.»

Ci fu una lunga pausa. «Ciò che Janson dà, Janson riprende, è così?»

«No, non è così. La Phoenix recupera quanto ha dato, perché qualcun altro ne possa beneficiare.»

Ripster sospirò. «E va bene, Paul. Chi devo uccidere?»

«Nessuno.»

«Pensavo…»

«Non ti chiedo di uccidere nessuno. È un lavoro da giocatore, e non conosco nessuno migliore di te. L’intelligence siriana è ancora convinta che siano state le bombe di Israele a distruggere la loro riserva di plutonio a Dayr az-Zwar.»

«Ah, be’» replicò Ripster con esitante modestia, «lo credono perché gli conviene crederlo.»

Janson espose le sue richieste.

Ripster domandò: «E io cosa ne ricavo? Oltre al piacere di quella che, ammetto, è una sfida interessante».

«La soddisfazione di fare la cosa giusta. E la tua tariffa giornaliera quintuplicata.»

«Molto generoso da parte tua.»

«Per niente. Hai solo un giorno per farlo, a cominciare da ora.»

Il’ič Hagopian – il nome gli veniva dalla madre russa, che lo adorava – era in sella a una vecchia bicicletta Raleigh con il cestino di vimini, e girava in tondo già da un po’. Hagopian era giovane e attraente, con un piccolo broncio da bambino viziato. Sulle spalle aveva appoggiato un golf di cachemire giallo, con le maniche annodate sul davanti. Le poche persone sedute sulle panchine del parco di Berkeley Square, a Londra, probabilmente pensavano che fosse il modello di uno spot pubblicitario, intento a provare la bici prima dell’arrivo del fotografo. Era una giornata perfetta per uno shooting fotografico.

Il cielo del pomeriggio era terso e azzurro, la luce del sole filtrava tra le foglie dei platani e brillava sulle case di pietra chiara e sull’erba color smeraldo. Sembrava di essere ai tempi della regina Vittoria, se non si faceva caso al rumore di sottofondo del centro città, prodotto dai taxi, dai furgoni per le consegne e dalle motociclette.

A poca distanza, in New Bond Street, una guardia giurata e un commesso si apprestavano ad aprire la porta dell’esclusiva gioielleria Graff con una certa agitazione. Se il tipo appena sceso da una BMW nera che si stava dirigendo verso di loro con una bionda ingioiellata al braccio non era Mick Jagger, gli assomigliava davvero parecchio. Aprirono la porta e fecero accomodare all’interno la leggendaria rock star e la sua elegante accompagnatrice. Da vicino Jagger aveva la pelle del viso stranamente grinzosa, anche per un cantante che era sulla scena dagli anni Sessanta. Ma la loro attenzione, così come quella della ragazza, cadde all’improvviso sulla pistola nella sua mano guantata. Il commesso disse in seguito che la donna avrebbe potuto essere un travestito.

La guardia, un Royal Marine in congedo, provò a reagire. Afferrò la pistola, ma desistette, sempre secondo quanto riferì il commesso, quando Mick Jagger sparò un colpo nella moquette. Poi tutto si svolse molto rapidamente. I rapinatori riempirono dei sacchetti di velluto con i pezzi più pregiati tra collane, bracciali, anelli e orologi. La guardia giurata e il commesso furono fatti stendere a terra dietro il banco, e in pochi istanti i due erano già fuori dalla porta e filavano via sulla BMW.

L’auto nera sfrecciò a tutta velocità su New Bond Street, svoltò a destra in Bruton Street e di nuovo a destra in Bruton Place e in Berkeley Square.

Scesero in fretta, gettando a terra maschere di lattice, armi e parrucche, urtarono un ciclista in attesa di attraversare la strada, si scusarono educatamente e salirono su un taxi nero in attesa. L’autista si immise nel traffico di Berkeley Street in direzione di Piccadilly. Il ragazzo in bici slegò le maniche annodate del suo golf di cachemire e lo mise nel cestino.

Quando le sirene della polizia cominciarono a riecheggiare nelle strette strade del centro, proseguì con la bici a mano, attraversando Berkeley Street e la piazza. Alle sue spalle, una Smart gialla e blu della polizia svoltò l’angolo di Bruton Place e si fermò accanto alla BMW abbandonata.

Il ragazzo in bici osservò con occhi curiosi e innocenti la confusione passando senza fermarsi, sempre con la bici a mano. Una macchina del Pronto Intervento, una Volvo di grossa cilindrata con le sirene spiegate, percorse Berkeley Street a tutta velocità. Ne balzarono fuori alcuni specialisti di rapina a mano armata, con la pistola in pugno, e sbirciarono nella BMW vuota. Alcuni pedoni indicarono a gesti in direzione di Piccadilly e la Volvo ripartì a tutto gas.

Dopo aver attraversato la piazzetta, Il’ič Hagopian si accingeva a risalire in sella alla Raleigh quando due uomini, uno in completo gessato e l’altro in jeans e giacca a vento, si alzarono dalla panchina dov’erano seduti e lo afferrarono per le braccia.

«Non gridare, altrimenti chiamiamo la polizia» gli dissero.

«E gli mostriamo quello che hai nel cestino.»

Un furgone accostò al marciapiede, con lo spazio sufficiente per caricare la bicicletta. Fecero scattare un paio di manette al suo polso destro e alla bici, impedendogli così anche solo di pensare di saltare giù dal furgone al primo semaforo rosso. Poi presero il sacchetto di velluto dal cestino e ne suddivisero il contenuto in diverse buste imbottite. Quando Il’ič Hagopian lesse le etichette con l’indirizzo prestampato pensò di non aver letto bene:

Ufficio oggetti smarriti
Gioielleria Graff
New Bond Street
London W1

Il furgone si fermò. L’uomo col gessato scese, infilò le buste in una cassetta postale e si allontanò a piedi. Il furgone ripartì. Il giovane Hagopian, confuso, notò le insegne per la M4 e Heathrow e, una volta in aeroporto, verso le Spedizioni merci.

«Dove mi state portando?»

«A casa da mammina.»

L’Embraer di Paul Janson era in vista di Luanda, in Angola, a millesettecento chilometri da Port Harcourt, in Nigeria. Atterrarono all’aeroporto Quatro de Fevereiro con Mike e Jessica seduta al posto del secondo pilota, prestando molta attenzione alle alte torri di sollevamento del petrolio che svettavano nel cielo. L’aereo rullò sulla pista tra numerosi cargo 747 e charter passeggeri aziendali di diverse compagnie petrolifere.

L’agente in Angola di Hagopian, spacciandosi per interprete dal portoghese, raggiunse Janson al terminal e lo accompagnò a uno sportello del controllo passaporti. Era un uomo di mezza età, alto e prestante, dai modi cortesi, mezzo portoghese e mezzo angolano, della tribù Fang. Una volta in macchina, si mostrò stupito dell’alta considerazione in cui il suo principale teneva Paul Janson: «Il signor Hagopian mi ha raccomandato di trattarla col massimo riguardo, “come tratteresti me” ha aggiunto. Le confesso, signore, che non l’ho mai sentito usare parole del genere per nessuno».

«Mi dispiace per il disturbo che la mia presenza le procurerà, ma non si preoccupi, mi tratterrò pochissimo.»

Dopo una ventina di minuti erano al Cantinho dos Comandos, un ristorante della Città Vecchia, situato al piano terra di un edificio tutto stucchi rosa, sede del Circolo Ufficiali angolano.

I trafficanti di armi non erano presenti, ma venivano rappresentati da un giovane in giacca di pelle da pochi soldi. A Janson sembrava il gestore di un locale notturno o un venditore di automobili. Aveva l’aria ansiosa di piacere ed esordì dicendo: «Le sono debitore, signore. Soddisfare ogni sua richiesta è per me un onore».

«Grazie mille» rispose Janson. «Voi sapete cosa mi serve. Non vi creeremo alcun problema, avete la mia parola. Voi dovete soltanto portarci sull’isola, poi ce ne andremo per conto nostro. Non vi ostacoleremo in alcun modo e nessuno saprà mai della nostra collaborazione.»

Il giovane allargò le braccia con aria tormentata. «Se solo potessi aiutarvi, lo farei. Ma la barca è già partita.»

«Quando?»

«Ieri. In questo momento sarà già arrivata alla Isle de Foree.»

«Perché non ci ha aspettati?»

«Il capitano ha deciso…» L’uomo non terminò la frase. Janson scambiò un’occhiata con l’agente di Hagopian, il quale sembrava mortificato dall’inconveniente o dal voltafaccia, non era del tutto chiaro.

Il giovane riprese a parlare. «È così, amico, la situazione sull’isola è cambiata. Iboga ha acquistato un carico di carri armati.»

«Che tipo di carri armati?»

«T-72 anfibi, dotati di prese d’aria.»

Un attacco con i carri armati alla roccaforte dell’FFM, pensò Janson. Non c’era tempo da perdere, se volevano portare via di lì il medico. «Dove si sono procurati i nigeriani i T-72?»

L’agente di Hagopian ammise: «L’intelligence militare nigeriana ci ha messo lo zampino, per così dire».

«Non credo che vi piacerebbe essere là quando arrivano i carri armati» disse il trafficante.

«Io voglio essere là.»

«Come ho già detto, se posso fare qualcosa per rendermi utile…» Allargò ancora di più le braccia, verso l’agente di Hagopian. «Qualunque cosa. Deve solo chiedere. Ma la nave è già partita.» Si rivolse nuovamente a Janson.

«Qualsiasi cosa.»

«Ti prendo subito in parola» disse Janson, strappando al giovane un debole ed esitante: «Se posso…».

«Puoi, sì, e lo farai. Comunica via radio al capitano di aspettarci, noi lo raggiungeremo sulla nave. Digli di fermarsi a cinquanta miglia dalla costa finché non arriviamo.»

La nave doveva trovarsi ormai ben oltre le acque territoriali della Isle de Foree.

«Non so quanto tempo può stare fermo. Ci sono degli appuntamenti, dei programmi.»

«Può attendere otto ore» stabilì Janson, e l’agente di Hagopian annuì seccamente, confermando l’accordo.

Sulla via dell’aeroporto, in macchina, Janson rimase in silenzio fino a quando l’agente del libanese parlò. «E i carri armati?»

«In quali condizioni sono, secondo lei?» domandò Janson.

«Utilizzabili» rispose l’uomo. «E, come certo saprà, sull’isola ci sono ottimi meccanici.»

Janson assentì.

«Chi li guiderà?»

«La milizia presidenziale è formata da veterani angolani. Conoscono bene i mezzi blindati russi.»

Janson rifletté. Non stava cercando lo scontro con le forze armate del dittatore, ma doveva essere preparato anche a quell’eventualità.

«Posso dirle cosa penso?» riprese l’agente.

«Prego.»

«C’è la possibilità che il signor Hagopian conosca un individuo rispettabile e di fiducia, in grado di fornire un certo numero di RPG-22…»

«Sarebbe meglio se conoscesse qualcuno in grado di procurarsi degli AT-4.» L’AT-4 della Saab era un potente lanciarazzi anticarro senza rinculo, capace di fermare i T-72 di fabbricazione russa. Sei testate e i lanciarazzi pesavano poco più di quaranta chili, il massimo trasportabile a piedi, oltre all’equipaggiamento.

«Dubito fortemente che sia possibile trovare degli AT-4 in tempo per l’arrivo sulla nave, tra otto ore» replicò l’agente.

«Forse ce ne sono già alcuni a bordo?»

«Purtroppo no. Non è un arsenale, ma una nave da trasporto per carichi autorizzati.»

Però i russi producevano un’arma analoga, anche se meno potente, l’RPG-26, e certo in Angola non mancavano armi russe e addirittura sovietiche. «È possibile avere degli RPG-26?»

«Non in questo carico. Ci sono solo pistole mitragliatrici, munizioni e farmaci antimalarici e anti-infiammatori.»

«E il signor Hagopian conosce qualcuno in Angola in possesso di RPG-26?»

L’agente si strinse nelle spalle. «Forse una o due persone.»

«Dotati di HEAT?» Si trattava di testate a carica cava in grado di perforare i mezzi blindati.

«Sì. Ma il suo uomo forse sarà costretto a completare l’ordine con degli RPG-22.»

Era una versione più vecchia, fuori produzione dai tempi in cui Jessica frequentava le elementari. Janson si accigliò. L’agente del libanese aggiunse: «In perfette condizioni, appena usciti dalle casse e revisionati completamente».

«Non mi aspettavo niente di meno da un interlocutore fidato come il signor Hagopian» commentò Janson, asciutto.

Venticinque minuti dopo erano di nuovo all’aeroporto e Janson diede le istruzioni per il decollo.

«Port-Gentil, appena abbiamo finito di caricare.» Era una città portuale sulla costa del Gabon, a nord del Congo, e abbastanza vicina alla Isle de Foree. Ed e Mike avevano già impostato la rotta. Dopo un’ora esatta, un rumoroso camion frigorifero raggiunse in retromarcia l’Embraer in attesa. Sull’asfalto, all’ombra dell’aereo, furono impilate sei casse gocciolanti e i due piloti cominciarono a caricarle a bordo.

«Forse queste aragoste sono un po’ troppe, capo.»

«Non c’è niente come i crostacei dell’Angola» sentenziò Janson.

Dopo aver caricato le casse, il portellone fu chiuso e iniziarono i preparativi per il decollo con destinazione Gabon. «Come va?» chiese Janson.

«Ho trovato un elicottero. E tu?» replicò Jessica.

«Ho scoperto che il dittatore ha dei carri armati.»

L'occhio della fenice
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