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Jessica Kincaid si fermò a un paio di metri dall’Audi e frugò nella borsa. Prese un pacchetto di Marlboro, l’aprì, scosse la testa disgustata, lo schiacciò in mano, girò sui tacchi e rientrò nel terminal, sostando all’ingresso per buttare il pacchetto in un cestino dei rifiuti.
Il terminal era piacevolmente fresco per l’aria condizionata, favorendo così la sosta dei passeggeri nei negozi. Come gli sportelli della Fantasy Line, in quel momento la maggior parte dei negozi erano chiusi per la pausa pranzo. Quelli aperti erano praticamente vuoti, c’erano solo i commessi annoiati.
Kincaid si diresse alla toilette. Sentì il rumore di un asciugamani ad aria all’interno. Bene, non era necessario entrare. Attraversò l’atrio dall’alto soffitto, entrò in uno dei negozi e acquistò un altro pacchetto di Marlboro e un accendino, poi chiese alla cassiera una confezione di ghiaccio istantaneo. Lo trovò tra le bende elastiche e le polsiere per le slogature e lo pagò alla cassa insieme a un quotidiano spagnolo.
Poi tornò alla toilette. La donna che si stava asciugando le mani stava uscendo in quel momento.
«Perdón.»
«No hay problema.»
Kincaid controllò che non ci fosse nessuno nelle toilette, tappò lo scarico del lavandino con della carta di giornale e fece scorrere l’acqua fredda. Ignorando le istruzioni che dicevano di non aprire la confezione di ghiaccio istantaneo, stampate in cinque lingue, la strappò e ne versò nell’acqua il contenuto, cristalli di nitrato di ammonio, fino a farli sciogliere. Immerse un foglio di giornale nella soluzione, lo lasciò sgocciolare per qualche secondo e lo tenne steso di fronte al getto dell’aria calda. La carta bagnata si strappava con facilità, e al primo tentativo le si sbriciolò tra le mani.
Ritentò, allontanandosi dal getto d’aria, e riuscì a far asciugare la carta completamente. Una volta asciutta era fragilissima e, per evitare di romperla, l’appoggiò con cura sopra un altro foglio di giornale, ripiegando il tutto a formare un rettangolo lungo una trentina di centimetri, largo tre e spesso circa un centimetro e mezzo.
Lo ripose nella borsa, uscì di buon passo dalla toilette, attraversò il salone e tornò sulla banchina. Si avvicinò con calma all’auto, guardandosi intorno come una turista. Aprì il pacchetto di Marlboro, si mise in tasca la strisciolina di cellophane e la copertura di carta stagnola. Poi picchiettò sul fondo della confezione e prese una sigaretta.
Non c’era nessuno in vista sulle barche ormeggiate nella darsena. Nessuno neppure nelle auto parcheggiate. In apparenza, nessuno guardava dalla nave. Ispezionò l’area con lo sguardo come avrebbe fatto se avesse dovuto posizionare gli elementi del Lambda Team. Avrebbe piazzato dei tiratori scelti sulle palme più vicine al centro, altri sui tetti dei palazzi affacciati sul lungomare, un altro su un furgone in sosta sul cavalcavia. Dalla sua postazione avrebbe usato il faro come punto di riferimento. Un tiro lungo, tenendo conto anche del riverbero dell’acqua e del vento, ma ce l’avrebbe fatta.
Se ci fossero stati davvero dei cecchini a quel punto lei sarebbe già morta. Se ci fossero stati i cecchini, non ci sarebbe stato un uomo grande e grosso nascosto nella sua auto, come aveva subito capito dalle sospensioni leggermente abbassate.
Lei era una donna. In fondo quello avrebbe potuto essere solo uno schifoso stupratore. Eppure ben pochi malintenzionati sarebbero stati in grado di entrare in un’Audi chiusa senza far scattare l’allarme. Il fatto che l’auto fosse ancora dove l’aveva parcheggiata confermava che chiunque fosse il tizio all’interno, non aveva intenzione di rubarla. No, il tizio stava aspettando lei.
Aveva notato anche un’altra cosa, uscendo dal terminal, una stranezza che non aveva analizzato a fondo, ma aveva attirato la sua attenzione: il marinaio che prima aveva fischiato al suo passaggio aveva lasciato le staffe e i bloccanti attaccati alla cima sulla quale si era arrampicato. Per recuperarli avrebbe dovuto risalire con lo stesso tipo di attrezzatura. Non aveva senso, a meno che non avesse un valido motivo per scendere molto in fretta. Per esempio introdursi furtivamente nella sua macchina.
Con tutta probabilità c’entrava il medico. Del resto quello era l’unico motivo della sua presenza a Cartagena. Il tizio nell’Audi doveva essere un agente operativo venuto a intercettare la Varna Fantasy e in qualche modo doveva averla collegata a Flannigan.
Donna o no, non poteva chiamare la polizia. Regola di Janson: mai coinvolgere innocenti in una sparatoria. Doveva presumere che quel tizio fosse un professionista: i malcapitati poliziotti sarebbero stati abbattuti prima ancora di rendersi conto di cosa stava accadendo.
Si avvicinò alla macchina, mise la sigaretta tra le labbra, schermò l’accendino voltandosi spalle al vento, cercando di individuare eventuali complici del suo avversario. Se ne aveva, erano del tutto invisibili. La darsena era fitta di barche. Avrebbero benissimo potuto tenerla d’occhio da una cabina.
Girò ancora lo sguardo verso il mare, come un visitatore riluttante a lasciare un bel posto. Sempre con l’accendino in mano, finse di dare una boccata alla Marlboro e s’incamminò lungo il molo, gettando l’occhio a bordo di diverse barche, come se stesse ammirando le cromature lucide e i legni verniciati, o stesse sognando di salpare per luoghi esotici. Non fumava una sigaretta da quando aveva sedici anni. La parte più difficile della messinscena era evitare di tossire.
Notò un paio di oggetti che facevano al caso suo nel pozzetto di una barca. Quindi tornò verso l’Audi a passo deciso. Si abbassò agilmente, infilò il rettangolo di carta di giornale impregnata di sali di nitrato di ammonio sotto la vettura, fece scattare l’accendino, avvicinò la fiamma al giornale e balzò indietro rapidissima.
Riuscì ad allontanarsi di tre metri prima che la bomba fumogena prendesse fuoco. In un istante l’Audi fu avvolta da una densa nube di fumo bianco. Kincaid saltò nel pozzetto della barca e afferrò un grosso estintore e un mezzomarinaio, un’asta uncinata lunga circa due metri.
L’uomo nella macchina era grosso e robusto. Non gli fu facile disincastrarsi dallo spazio tra i due sedili. Spalancò la portiera del lato passeggero e si gettò fuori, inciampando e tossendo nel fumo acre.
Kincaid lasciò cadere il mezzomarinaio. Poi gridò: «Al fuoco, al fuoco!», interpretando in modo convincente la parte della passante sveglia e pronta ad agire, nell’eventualità che qualcuno assistesse alla scena o la riprendesse, e puntò l’estintore contro l’uomo. Non aveva più gli occhiali da sole, e lo riconobbe mentre lo spruzzava con il liquido di raffreddamento pressurizzato: era il miliziano che copriva le spalle al presidente a vita Iboga durante la fuga dalla Isle de Foree.
Ed eccolo lì, spavaldo, un agente operativo altamente addestrato, veloce come un fulmine. Nonostante fosse accecato dal fumogeno e dall’Halotron liquido, estrasse dal marsupio un fucile d’assalto Tavor Micro TAR-21 e con il pollice impostò il selettore sul fuoco automatico.
Preso di sorpresa, senza riuscire a vedere chi avesse di fronte e quanti fossero, girava in cerchio sparando all’impazzata, senza mandare a segno neppure uno dei trenta proiettili del caricatore. Poi inserì un caricatore nuovo e sparò a chiunque si trovasse nei dintorni, senza sapere se fosse un assalitore o un passante casuale.
Kincaid gettò a terra l’estintore e raccolse il mezzomarinaio. Per ridurre al minimo il rischio di strappare le vele, l’uncino al termine dell’asta era smussato, e quest’ultima era troppo leggera per usare l’attrezzo come una mazza utile a sferrare colpi o a far cadere il fucile d’assalto di mano all’avversario.
Jessica decise di usarlo come un giavellotto.
Mirò agli occhi.
Ma quell’uomo era sorprendentemente veloce. Aveva i riflessi di un cobra e l’istinto di un toro da corrida. Alzò una mano per bloccare l’asta uncinata, deviandone la traiettoria, e si voltò. Il gancio di Kincaid mancò l’occhio, ma lo colpì alla tempia con una violenza sufficiente a stendere un uomo normale. Jessica aveva comunque ottenuto il suo primo obiettivo: fargli staccare il dito dal grilletto.
L’uomo si tuffò nella sua direzione.
Pesava quasi cinquanta chili più di lei. Aprì le braccia per bloccarla fra la mano libera e l’arma. Probabilmente era convinto di riuscire a soffocarla con il suo peso, un errore di valutazione molto comune degli avversari dal fisico più massiccio. Jessica invece indietreggiò ed estrasse allo stesso tempo un bisturi in fibra di carbonio da un fodero nascosto sotto l’ascella. Gli conficcò la lama, affilata, nell’incavo del gomito e la fece scorrere per tutta la lunghezza dell’avambraccio e poi giù fino al palmo, finché lui non aprì la mano con uno spasmo di dolore e lasciò cadere il Micro TAR-21. Era in tecnopolimeri e rimbalzò sul cemento. Kincaid lo afferrò al volo. Balzò indietro come un gatto, ruotò l’arma e gliela puntò contro il fianco, mise la leva del selettore in modalità semiautomatica e sibilò: «Chi cazzo sei?».
L’uomo alzò il braccio ferito. Pur essendo bianco come un cencio per lo shock, era stravolto dalla rabbia. Le avvicinò alla faccia un indice grondante sangue. «Tu sei morta.»
«Io? Io non sanguino come un maiale al macello. E non ho un fucile puntato addosso.» Gli appoggiò la canna sul ginocchio. «Chi sei?»
«Fottiti» replicò lui. Se lo shock e lo stupore non l’avevano costretto a rispondere, non sarebbe servita neppure la minaccia di sparargli nella gamba. Jessica provò allora a colpirlo nell’orgoglio, aggredendolo con la stessa ferocia con la quale gli aveva sfregiato il braccio.
«Fottiti tu. Dove hai imparato le tecniche di combattimento, all’asilo? Nessuno ti ha insegnato a servirti delle ossa? Avresti dovuto bloccarmi con il dorso dell’avambraccio, invece hai esposto la parte interna. Chi sei, un dilettante?»
Funzionò. Accucciato a terra come una recluta alle prime armi, con il sangue che continuava a scorrergli copioso dal braccio, non aveva intenzione di dimostrare alcunché a quella ragazzina di neanche sessanta chili sebbene lo avesse battuto. Borbottò una sola parola. Forse era «Sar». South African Republic?
«Sar? Cosa diavolo vuol dire?»
«Io sono un SAR. E tu sei morta.»
«Okay, questo l’ho capito. Ma cosa significa SAR?» lo incalzò con il fucile.
Lui guardò alle sue spalle, in direzione del terminal, e un’espressione di sollievo gli attraversò il volto. «C’è gente. Forza, sparami.»
Kincaid li aveva notati con la coda dell’occhio. Alcune coppie di mezza età venivano lentamente nella sua direzione. Erano ancora troppo lontani per sentire il TAR-21 silenziato, ma avrebbero sicuramente udito l’uomo gridare. Lui però approfittò della sua distrazione per balzare via con un movimento fluido e tuffarsi dal molo, esattamente come aveva fatto a Porto Clarence. Toccò l’acqua quasi senza alzare una goccia, agile come un delfino.
Kincaid si lanciò all’inseguimento. Questa volta non avrebbe avuto nessuno ad aspettarlo sotto il molo per aiutarlo nella fuga. Si fermò sul bordo, scrutando l’acqua per localizzare le bolle d’aria e tuffarsi in quella direzione. Il TAR-21 era impermeabile. Se si fosse avvicinata abbastanza, avrebbe potuto piantargli una pallottola in corpo. Poi lo vide. Spinse sugli avampiedi per darsi la spinta, ma in quel momento le parve di sentire la voce di Paul Janson. Chiara, come se fosse lì accanto a lei.
Mai farsi coinvolgere in un conflitto sbagliato.
E davvero non aveva alcun senso ingaggiare una lotta nell’acqua con un agente operativo di quella stazza, e per di più un esperto nuotatore: nonostante la concitazione del momento e il braccio squarciato si era tuffato in modo impeccabile, senza sollevare il minimo spruzzo. Si sarebbe servito del suo peso e della sua forza per trascinarla sott’acqua, come un procione che affoga un segugio.
Le coppie erano ormai vicine e stavano commentando la scena ad alta voce. Avevano visto l’uomo tuffarsi, oppure il fumo. Lei aveva ancora in mano il TAR-21, stretto al petto. Lo fece scivolare sotto alla macchina più vicina, raccolse da terra la borsa e ripose il bisturi nel fodero. Poi prese l’estintore e si diede da fare a spruzzare il liquido rimanente sull’Audi fumante.
I quattro arrivarono correndo nei sandali estivi, vociando in spagnolo e sbracciandosi come pazzi. Jessica Kincaid gesticolava a sua volta, fingendo di non capire lo spagnolo. Prese le chiavi e risalì in macchina con un sorriso. «Gracias, gracias.»
Avviò il motore, abbassò il finestrino per stringere la mano della donna più vicina. «Gracias. Grazie, è tutto a posto.» Fece in modo di guardarla negli occhi, stringendo in modo rassicurante la mano umida e grassoccia, salutò con un adios e un gesto della mano gli altri e si allontanò dal molo, seguendo le indicazioni sul Paseo de Alfonso XII per la AP-7, l’Autopista del Mediterráneo, nella speranza di averli convinti a non chiamare la polizia.
Sull’autostrada vide numerose pattuglie della stradale e altrettante postazioni di controllo radar. Non superò mai i centoventi chilometri orari e nessuno notò l’Audi rossa. Era sana e salva, e nessuno aveva avvertito la polizia.
A metà strada verso Valencia si fermò in un’affollata area di ristoro. Affamata, come sempre dopo un combattimento, riempì un vassoio di tramezzini con asparagi, carciofi, funghi e sardine e li divorò, iniziando a digitare un sms per Janson.
Doc sceso da nave forse a Dakar.
Si fermò a riflettere. Un fucile d’assalto TAR-21, per quanto «Micro», era pur sempre un’arma potente, troppo vistosa e riconoscibile per essere utilizzata in campo aperto. Aveva però il pregio di un’estrema precisione e silenziosità. In pratica, l’arma perfetta per sparare dall’albero della barca a vela un unico colpo a Flannigan nel momento in cui sarebbe sceso dalla nave.
In altre parole, riprese terminando il messaggio per Janson:
Tuffatore di Porto Clarence sulle tracce del Doc per eliminarlo.
Tornò al bancone per il dessert. Prese due porzioni di budino e un espresso doppio. Ritornò al tavolo e inviò un secondo messaggio:
Il tuffatore si è tuffato di nuovo. È amico di Iboga e nemico del Doc. È un agente SAR. SAR…?
Mangiò gli ultimi cucchiaini di budino e mescolò il caffè.
Poi digitò una domanda sul display:
Prossima mossa?