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Kincaid superò a sua volta le transenne e si lanciò all’inseguimento di Van Pelt.
Alle Operazioni Consolari, quando la invitavano a sovrintendere alla scelta dei nuovi agenti, spiegava sempre alle donne quale fosse l’unico loro vero svantaggio: «Possiamo essere più veloci dei maschi e più leali, ma non abbiamo la loro prestanza». In quel caso era ancora più vero. L’agente della Sécurité Referral era almeno trenta centimetri più alto di lei e in condizioni fisiche almeno pari alle sue. Kincaid saliva due gradini alla volta, Van Pelt ne superava tre o quattro, guadagnando sempre più vantaggio. Arrivò in cima alle scale e si trovò su un passaggio pedonale protetto da una rete metallica sormontata da tre giri di filo spinato, per scoraggiare i suicidi. Il sudafricano era sparito. Si arrampicò sul corrimano per vedere meglio. Il ponte e i piloni di pietra erano illuminati a giorno. Luci orlavano l’immenso arco che si curvava nel cielo notturno, potenti riflettori illuminavano le bandiere e le nuvole basse riflettevano il bagliore dei palazzi cittadini, sulle due rive opposte del porto.
Si aggrappò alla rete metallica per scrutare il ponte, largo oltre quarantacinque metri. Il traffico era scarso. Sulle sei corsie della strada a scorrimento veloce passavano poche auto e furgoni. Un treno procedeva su una delle due linee ferroviarie. Lungo la pista ciclabile pedalavano alcuni ciclisti e sul lato opposto vide un secondo passaggio pedonale protetto da alte reti metalliche. A differenza di quello dove si trovava lei, era percorribile. Probabilmente Van Pelt era ancora dalla sua parte, ma in quale direzione stava andando? Oltre il ponte, verso il Central Business District, oppure… eccolo!
Nell’alone di luce di un riflettore piazzato di fronte al pilone, lo vide correre verso l’acqua. Saltò giù dal parapetto e riprese l’inseguimento.
La visuale, lungo il passaggio pedonale, era bloccata dai lavori in corso e continuava a vederlo apparire e sparire dietro baracche di lamiera, piattaforme di lavoro e pile di materiali. Poi lo scorse di nuovo. Ma non aveva speranze, era troppo lontano. Il Central Business District era ormai a poco più di un chilometro, oltre il ponte. Appena avesse raggiunto le scale dall’altra parte, sarebbe scomparso nelle vie cittadine.
All’improvviso si bloccò. Kincaid accelerò l’andatura, dimezzando rapidamente la distanza tra loro. Davanti a lui vide un lampeggiante azzurro sul passaggio pedonale. Forse Van Pelt temeva che fossero poliziotti. Saltò sulla rete e iniziò ad arrampicarsi. In cima, nel punto in cui la rete si curvava all’interno, sotto due giri di filo spinato, il sudafricano si fermò di nuovo. Con un balzo da trapezista si issò in precario equilibrio sul filo spinato. Sospeso nel vuoto, con l’acqua scura sciabordante sessanta metri più in basso, si allungò ad afferrare la putrella sopra la sua testa, si tirò su e scomparve nell’intrico metallico di tiranti, montanti e piastre dell’arco.
La luce lampeggiante, sempre più vicina, era quella di due poliziotti in bicicletta. Jessica ebbe solo un istante per agire prima di essere vista. Si arrampicò sulla rete come aveva fatto Van Pelt, si issò sul filo spinato, prese lo slancio verso l’alto e con un balzo portò le mani protese fino alla putrella. Dalla sua parte però l’acciaio era verniciato di fresco, scivoloso sotto le dita e perse la presa. Con un guizzo disperato si aggrappò al grande cartello in lamiera d’acciaio che, ironicamente, le ricordava il divieto di arrampicarsi sulla struttura. Si era ferita le dita in profondità, strinse i denti e si sollevò sulla putrella.
All’interno di quel labirinto d’acciaio regnava una strana tranquillità, ed era molto più buio. La scarsa luce proveniva dai fasci dei riflettori che penetravano dagli spazi tra i montanti e le piastre d’acciaio. A un tratto sentì un rumore sopra la sua testa: era Van Pelt. Aveva trovato una scala di servizio interna, che zigzagava nella struttura. Jessica lo seguì sugli stretti gradini. A intervalli regolari, la rampa terminava ai piedi di una scala a pioli metallici, per salire al livello superiore e imboccare la successiva rampa di scale.
Con tutta probabilità Van Pelt era convinto che lei fosse un’altra poliziotta australiana. E, se pensava di essere stato preso in trappola, doveva presumere che ci fossero poliziotti ovunque. Così sembrava dal suo comportamento. Non perdeva tempo nemmeno per guardarsi alle spalle. Meglio così, pensò Jessica. Gli avrebbe fatto una sorpresa. Anzi, due. La seconda sarebbe stata la scoperta di avere una pistola scarica.
Sentiva i passi pesanti dell’uomo rimbombare sul metallo. In quel momento la sua taglia minuta era un vantaggio, viste le dimensioni delle scale; riusciva a salire più in fretta di lui. Lo sentì gridare di dolore: probabilmente aveva sbattuto la testa contro un gradino sporgente o uno dei tanti bulloni d’acciaio della putrella. Anche lei ne aveva sfiorato uno passando da una rampa all’altra, ma non poteva rallentare, altrimenti non l’avrebbe mai raggiunto.
I suoi occhi si stavano adattando alla scarsità di luce. O forse, salendo verso l’alto non era più così buio. Al termine dell’ennesima scala a pioli girò intorno a uno stretto angolo formato da grosse lastre d’acciaio imbullonate. Là, in piedi, c’era Van Pelt, rivolto verso le scale. Teneva il braccio sinistro premuto sul torace, nella classica posizione del tiratore che protegge i propri organi vitali. Nella mano destra impugnava la Glock, puntata contro Jessica. Lei si tastò la tasca per recuperare l’arma.
Lui tirò due volte il grilletto.
«La prossima volta portati i proiettili, stronzo.»
Van Pelt si riprese all’istante dallo shock di ritrovarsi davanti la sua nemesi e di aver sparato con una pistola scarica.
«Pensi di riuscire a fermarmi con quella?» ringhiò balzando verso di lei.
«Posso sempre spararti al ginocchio» lo sfidò Jessica, stringendo tra le mani sporche di sangue la piccola arma e facendo fuoco due volte. Lui gridò, ma riuscì ad assestarle un colpo scagliandole addosso la pistola. Lei si abbassò e l’arma le rimbalzò sulla testa, ferendola al cuoio capelluto. Non riuscì a sparare di nuovo, perché Van Pelt aveva già svoltato l’angolo e imboccato un’altra rampa di scale. Sapeva di averlo colpito, ma evidentemente non al ginocchio, altrimenti non avrebbe potuto correre così. Scivolò su una chiazza umida e cadde malamente. Si rialzò e capì cosa le aveva fatto perdere l’equilibrio: il sangue del sudafricano. Non sarebbe andato troppo lontano.
Poi, a un tratto, rampe e scale a pioli terminarono. Jessica guardò in alto e vide, stagliata contro il cielo, la sagoma di Van Pelt mentre si arrampicava, aggrappandosi ai tiranti e alle sbarre arcuate della travatura d’acciaio. Il vento che fischiava nel labirinto d’acciaio all’improvviso tacque e per un momento Jessica sentì solo il respiro irregolare dell’uomo. Ma procedeva rapido, indifferente anche alla nuova ferita, e in quell’intrico di metallo non c’era un punto adatto per sparare.
Rimise in tasca la pistola e affrontò la salita dietro di lui. Si era arrampicata già per qualche metro quando qualcosa le fece bruciare gli occhi. Dapprima pensò che lui stesse perdendo sangue; poi si accorse che era lei a sanguinare dalla ferita alla testa. Si ripulì alla meglio con la manica e riprese a salire, ansimando per la fatica.
Sentì delle voci. Tante voci. Aveva le allucinazioni? Sembravano i richiami allegri di un gruppo di amici. Non erano poliziotti, non c’erano inseguimenti. Quella era gente che si divertiva. Forse aveva davvero le allucinazioni. La testa le faceva male ed era a corto di ossigeno per lo sforzo. Si stava arrampicando in verticale, mani e piedi, come Spider Man, senza però i superpoteri da ragno. Calma, concentrati, si esortava.
Si sforzava di pensare solo al singolo istante, a continuare ad alzare a ritmo regolare braccia e gambe ormai di piombo, senza distrarsi un attimo. Doveva costringersi a guardare in alto. Molto più su, Van Pelt sembrava un nuotatore sul punto di emergere dall’acqua. Era arrivato in cima all’arco e stava uscendo dal reticolo metallico. Jessica sentì di nuovo le voci, ora spaventate. Grida, un gemito di dolore, poi il trapestio di Van Pelt: aveva ripreso a correre.
Sbucò in cima anche lei. Saltò per passare dalla trave d’acciaio a uno stretto cornicione spazzato dal vento. Alle sue spalle, qualcuno urlava. Si girò e vide che il gruppo si trovava tra lei e la sommità dell’arco: otto persone, tutte con la stessa tuta e imbracatura. Portavano delle cuffie radio ed erano agganciati a un cavo di sicurezza accanto al cornicione. Arrampicatori, si rese conto.
Aveva visto la pubblicità dell’ascensione al Sydney Bridge in aereo e all’aeroporto. I turisti più avventurosi venivano accompagnati a gruppi fino alla sommità del ponte, a godere di una vista mozzafiato sulla città e a farsi scattare delle foto per ricordare l’avventura. Due persone giacevano sulla passerella. Van Pelt le aveva fatte cadere e dopo averle scavalcate correva a tutta velocità verso la sommità.
Nel vedere Kincaid, una ragazza strillò: «Ne arriva un altro!».
Jessica la superò senza fermarsi, fece segno dalla parte dove intendeva passare e gridò, per farsi sentire sopra il rumore del vento: «Fate largo!».
Il gruppo si strinse, atterrito alla vista di una ragazza che correva con la faccia coperta da rivoli di sangue.
Il mercenario era a soli quindici metri da lei e filava come il vento. Quel bastardo correva senza nessun problema apparente per la ferita, e ancora una volta la stava distanziando, essendo molto più forte e veloce di lei. All’improvviso davanti a loro si materializzò un altro gruppo di turisti. La guida stava dicendo qualcosa in un walkie-talkie. Senza un attimo di esitazione, il sudafricano saltò dalla passerella alle travi d’acciaio poste di traverso sul ponte e iniziò ad attraversarle per raggiungere l’arco opposto, camminando in equilibrio a parecchie decine di metri sopra la strada e la ferrovia.
Kincaid gli andò dietro, speranzosa. Aveva migliori capacità di equilibrio e riusciva a procedere più veloce sul reticolo di travi. In realtà, se avanzava rapidamente era anche più facile mantenere l’equilibrio. Lui procedeva più piano, incerto e rigido, timoroso di cadere. Era solo a sei metri da lui quando il mercenario raggiunse l’arco opposto e si arrampicò sulla passerella. Aveva la visuale libera. Non c’era niente fra lui e la sommità; quando l’avesse raggiunta per iniziare la discesa, sarebbe andato ancora più veloce. Jessica non mollava: raggiunta la passerella, scavalcò il parapetto e continuò l’inseguimento.
Proprio sulla sommità dell’arco c’era una figura solitaria. Kincaid strizzò gli occhi, respirando a bocca aperta, accecata dal sangue e confusa. Le voci dei turisti le erano sembrate delle allucinazioni, ma ora vedeva qualcosa che le parve ancora più strano.
Chino sul display di un cellulare, intento a consultare attraverso gli occhiali da lettura il bagliore di una schermata di Google Maps, la figura solitaria aveva tutto l’aspetto di un turista che si fosse perso, rimasto indietro dal suo gruppo, sul punto più alto dell’arco, a centoquaranta metri sopra l’acqua del Sydney Harbour. Alzò lo sguardo dal cellulare al rimbombo dei passi di corsa sul metallo e si tolse gli occhiali, come per osservare meglio il massiccio Van Pelt arrivare alla carica sulla stretta passerella, dritto verso di lui. Infilò gli occhiali in una tasca, il cellulare nell’altra e drizzò la schiena.
«Janson!» La vista della sua figura così familiare e delle sue spalle ampie le inviò una benefica scossa di adrenalina nelle braccia e nelle gambe. Non aveva alcuna intenzione di lasciare a Paul Janson l’onore della cattura. Chiamò a raccolta le energie per l’ultimo sforzo e placcò Van Pelt alle caviglie. Questi cadde pesantemente a faccia avanti, battendo la spalla destra. Gli sfuggì un urlo disumano, un ululato da animale braccato e ferito. Slanciò il braccio sinistro in una mossa da wrestling, caricato di tutta la sua potenza.
Paul Janson s’inserì nell’arco descritto dal pugno del mercenario e in quel momento Jessica capì di aver perso la gara. Ma dovette ammettere che il colpo da pugile professionista, scelto dal socio dal suo ampio repertorio di tecniche di combattimento, era di un’eleganza stupefacente. In una rapidissima successione di gioco di gambe, rotazione dell’anca e spostamento del peso del corpo, la mano che pochi secondi prima aveva infilato in tasca il cellulare si chiuse a pugno e partì con un’energia diretta precisamente al bersaglio, e calò sulla mandibola dell’uomo producendo uno scricchiolio raccapricciante, mandandolo a finire contro il parapetto e poi giù, nel vuoto.
Il sudafricano cadde con un grido quasi sorpreso. Per sette lunghissimi secondi e centoquaranta metri di altezza, scomposto e agitato come un aquilone al vento, Hadrian Van Pelt precipitò verso l’acqua, mulinando con le braccia mentre attraversava i fasci luminosi dei riflettori che illuminavano l’arco.
Con le mani sulle ginocchia, piegata in due per cercare di riprendere fiato, Jessica disse ansimando: «Ce l’avevo quasi fatta».
Paul Janson rise, felice e sollevato di averla ritrovata sana e salva.
«Cosa diavolo pensavi di fare con lui, anche se l’avessi preso? Peserà almeno cinquanta chili più di te.»
«Aveva una pistola scarica… Gesù santo, guarda quel figlio di puttana!»
Mentre il corpo in caduta libera di Van Pelt attraversava l’ultimo fascio di luce, lo videro rigirarsi in aria con una capriola. Con le braccia tese sopra la testa e i piedi puntati verso il basso, s’infilò nell’acqua scura dritto come un fuso, senza sollevare un solo schizzo.
Janson prese immediatamente il cellulare, uscì da Google Maps e sfiorò l’ultimo numero chiamato.
«Sono di nuovo io. Un uomo è appena saltato dall’Harbour Bridge, esattamente dal centro. È entrato nell’acqua in verticale con i piedi, quindi potrebbe essersi salvato… alto, capelli biondi, spalle larghe, il braccio destro fasciato. Ti sarei grato se mi dessi una conferma.»
Spiegò a Jessica: «Il mio amico alla Commissione anticrimine australiana dice che da quando a Sydney hanno eliminato l’inquinamento delle acque sono tornati gli squali. Il nostro uomo si è appena tuffato in un porto pieno di squali toro e grandi squali bianchi».
«Poveri squali.»
«Ecco la motovedetta della polizia portuale.»
«Bene. Questa volta voglio vedere un corpo.»
Dalle rive di North e South Sydney erano partite due pilotine con i lampeggianti azzurri, dirette verso il centro del braccio di mare di circa un chilometro e mezzo tra Milsons Point e il Central Business District. Janson prese dalla tasca del giaccone una bottiglietta d’acqua e la passò a Kincaid. Mentre lei beveva a grandi sorsi, inumidì un fazzoletto e cominciò a pulirle il sangue dalla faccia.
«Fa’ sparire quella pistola, se dovessero venire i poliziotti.»
Kincaid lanciò la Tomcat di Mikie nell’acqua del porto. «Adesso dove andiamo?»
«A Canberra. Il mio amico della Commissione anticrimine ha localizzato il dottor Flannigan insieme a un gruppo di turisti. Stanno tenendo il suo hotel sotto controllo.»
Scesero dall’arco fianco a fianco, sfiorandosi le spalle come una qualsiasi coppia.
«Paul?»
Il vento fischiava fra le travi d’acciaio e Janson si chinò verso di lei per sentire meglio. «Cosa c’è?»
«Non ti pare che quelli della Sécurité Referral si stiano dando troppo da fare per una semplice rappresaglia? Hanno organizzato il mio rapimento coinvolgendo almeno tre persone per potermi consegnare al sudafricano. E poi, pensa a quello che hanno fatto ai nostri telefoni… Nessun professionista sprecherebbe tante energie solo per vendetta.»
«Potrebbero farlo per soldi. Magari qualcuno ha ingaggiato la SR per darci la caccia.»
«Chi?»
«Gli stessi che pagano la SR per catturare il medico.»
«D’accordo, ma perché?»
Janson si faceva quella domanda da quando la SR si era introdotta nei loro cellulari. «Evidentemente noi due rappresentiamo una minaccia per qualcuno.»
«Noi siamo stati assunti per trovare Iboga. Quindi siamo una minaccia sia per Iboga sia per la SR.»
«Sì, ma Iboga non ha i mezzi per darci la caccia.»
«Mentre la SR li ha di sicuro.»
«Già, e se la SR fosse soltanto ciò che sembra, ossia un gruppo di mercenari pagati per fare un lavoro?»
«Come noi.»
«In pratica sì» concordò Janson. «Noi siamo pagati da Ferdinand Poe per catturare Iboga, e dalla ASC per recuperare il medico. La Sécurité Referral è pagata da qualcuno per proteggere Iboga e uccidere il medico.»
«Sia noi sia il medico potremmo essere una minaccia per le stesse persone. Lo pensi anche tu?» chiese Jessica.
«Io sono sempre della stessa idea. Possiamo prendere due piccioni con una fava, ritrovando il medico. Anche se non sa chi gli stia dando la caccia, il dottor Flannigan non può ignorare perché è tanto prezioso, o pericoloso, per qualcuno. Facciamocelo spiegare da lui e scopriamo chi sta dietro tutto questo.»