1.
Se sua madre si era stupita nel vedere Amina tornare dall’aeroporto, non l’aveva dimostrato: aveva guardato un po’ accigliata l’auto di Monica ferma sul vialetto e poi era tornata dritta in cucina, dove aveva aperto il frigo e tirato fuori la pastella per i dosa e le patate per il pranzo.
«Allora ti fermi?» Kamala versò una cucchiaiata di pastella bianca in una padella e la livellò lentamente fino a formare un cerchio sempre più sottile.
«Sì, per poco» disse Amina sedendosi al bancone, affamatissima, la borsa ai suoi piedi. «Almeno qualche settimana. Ho appena parlato con Monica, che dice…»
«Poi preparo del manzo e un po’ di pollo» aggiunse Kamala raddrizzandosi la treccia con uno strattone secco.
«Come?»
«Devi mangiare, no?»
«Sì. Giusto». Amina bevve un sorso d’acqua, come se potesse riempire il suo stomaco rombante. La fame le rendeva difficile pensare.
«Poi potrai fare le foto al matrimonio dei Bukowsky» disse Kamala.
«Cosa?»
«La figlia di Julie! Te l’avevo detto! È questo fine settimana».
Amina guardò sua madre, smarrita.
«Jenny Bukowsky è una delle infermiere della sala operatoria. Si sposa sabato e dobbiamo andarci comunque. Tu potresti fare qualche foto. Te le compriamo e gliele regaliamo». Con una sola abile mossa Kamala fece saltare la crêpe su un piatto, aggiunse al centro un grumo di patate grosso come un pugno e la ripiegò. Poi la porse ad Amina. «Vuoi del chutney?»
«Sì, grazie».
Kamala gliene rovesciò sul piatto una quantità generosa e poi si girò di nuovo verso i fornelli. Mentre rimetteva il mestolo nel contenitore della pastella disse: «Ho annullato la cena con Anyan. Mangia».
La crêpe scrocchiò sotto le dita di Amina liberando uno sbuffo di vapore che odorava di curcuma e peperoncino, dandole un sollievo così profondo da cancellare tutto il resto. Mangiò un dosa e poi un altro, vagamente consapevole che sua madre le metteva sul piatto dell’altro chutney e le riempiva il bicchiere d’acqua. Finalmente, a metà del terzo, si lasciò andare contro lo schienale della sedia per respirare, la bocca che pizzicava. Sapeva che avrebbe dovuto raccontare a Kamala di Monica, dell’auto, della conversazione ma invece si ritrovò a dirle: «Domandagli se gli va bene mercoledì».
Sua madre si guardò per un istante alle spalle. «Come?»
«La cena. Il dottor George».
«Davvero?»
«Sì». Amina provò un momentaneo senso di colpa a causa del piacere che vide diffondersi sul viso di sua madre. «A proposito, davvero delizioso».
«Te ne faccio un altro».
«No! Cristo, mi farai ingrassare se continui a ingozzarmi così».
«Non nominare Cristo» la rimproverò dolcemente Kamala. Sollevò la padella dal fuoco e la piazzò nel lavello, poi aprì il rubinetto e quella si mise a fischiare finché non si raffreddò. Ripose i vasetti di chutney, uno per uno, nello sportello del frigo e si girò. Si avvicinò ad Amina e le diede un abbraccio così rapido e violento che ormai era già uscita dalla cucina quando ad Amina venne in mente di ricambiare.
Il sabato sera successivo, al matrimonio dei Bukowsky si presentarono mezza Corrales e quasi tutto il personale della sala operatoria dell’ospedale. Stivali da cowboy appena lucidati scortarono caviglie coperte da gonne lunghe per il parcheggio disseminato di sterco di cavallo e poi nella sala da ballo, uno spiazzo di terra battuta in mezzo a un boschetto di pioppi. Lì vicino, sul cassone di un camion, i Lazy Susannah suonarono bluegrass a tutto volume sotto un cerchio di lampadine natalizie, mentre cani e bambini facevano lo slalom tra le sedie pieghevoli e Johan Bukowsky si cincischiava la camicia.
«Sto benissimo!» proclamò a voce alta e più volte, suscitando nella folla ululati di approvazione. «Doveva succedere prima o poi, no? È solo che non pensavo che sarebbe stato così presto».
Tutti scoppiarono a ridere visto che i sette anni di fidanzamento di Jenny Bukowsky erano stati abbondantemente citati durante la cerimonia e Jenny, scuotendo la testa, si annidò tra le braccia dello sposo. Amina si spostò sulla pista da ballo, scattando una foto e poi arretrando mentre il fotografo ufficiale le invadeva l’inquadratura.
«Li hai presi?» domandò ansiosa Kamala alle sue spalle. «Devi scattarne un’altra?»
«No». Amina puntò l’obiettivo sui suoi genitori, particolarmente eleganti e fuori posto nei loro abiti di seta migliori, come attori di Bollywood ritrovatisi per sbaglio sul set di un film western.
«Non noi!» Kamala si asciugò il labbro superiore tamponandolo con l’orlo della sari. «Devi fotografare gli sposi in piedi che si baciano! E poi uno di quelli che se ne stanno accanto all’altare tutti in tiro senza fare niente. E la torta! Non dimenticare la torta!»
«Ci penserà il fotografo vero» le ricordò Amina. «Io sono qui solo per farvi un favore, ricordatelo».
«Non sarebbe un vero favore se non venissero fuori delle belle foto».
«Non è meraviglioso?» gracchiò Thomas. «Incredibile».
Se non altro, la sua incapacità di non versare una lacrima a un matrimonio era ancora intatta. Amina scattò qualche immagine delle lucine natalizie riflesse negli occhi di suo padre e delle sue mani che si sollevavano mentre ballava. Non era stato difficile convincerlo che alcuni impegni lavorativi le erano saltati e all’improvviso si era ritrovata con un po’ di tempo libero. Era stato più difficile convincere Jane che doveva restare, e che avrebbe dovuto trovare dei freelance per sostituirla per tre settimane. O, come li chiamava Jane, «gente che vorrebbe prendersi il tuo lavoro». La risata che aveva aggiunto per smussare i toni non aveva fatto che rendere Amina ancora più nervosa.
Amina si fece largo tra l’anello di persone che guardavano gli altri ballare e si diresse verso il cortile posteriore. Mastelli di birra brillavano come boe nell’oscurità della sera. Qualche gruppetto ancora immerso nelle chiacchiere aveva deciso di sistemarsi per la notte e lei scattò alcune immagini prima che si accorgessero della sua presenza. Una bambina con i capelli scuri, non ancora nell’età dei grandi imbarazzi, stava cercando di ballare con un labrador nero, mettendosi le zampe dell’animale sulle spalle, e Amina fece un passo indietro per trovare l’angolazione giusta, rendendosi conto soltanto dopo aver scattato di avere premuto il sedere contro le mani, peraltro immobili, di qualcuno.
«Santo cielo!» Si rigirò di scatto e vide un uomo anziano, alto, con un completo enorme, che la guardava vagamente stupefatto. «Mi…»
«Scusi» balbettò l’uomo, abbassando lo sguardo. «Non volevo…»
«No, no, è stata colpa mia, non ho fatto attenzione». Si rese conto che stava arrossendo e alzò la macchina fotografica. «Foto!»
«Capisco. Okay».
Poi, guardandolo meglio in faccia, si rese conto che non era affatto vecchio. Era la calvizie che l’aveva spiazzata. In realtà il viso era più giovane, tutto sopracciglia folte e rughe profonde. L’uomo le rivolse un sorriso di scuse e Amina guardò automaticamente nel mirino, le piacevano la forma del suo cranio e la curva del tronco di pioppo alle sue spalle.
«Oh, no, non lo faccia» disse lui, uscendo dall’inquadratura, ma non prima che lei fosse riuscita a catturare qualcosa. Un lampo d’occhi infossati. Una bocca femminile. A un tratto le venne in mente la copertina della sua copia di Cuore di tenebra, al liceo, e abbassò l’apparecchio.
«Jamie Anderson».
Il sorriso era lo stesso, una specie di smorfia. «Ciao, Amina».
«Non ti avevo riconosciuto».
«Lo so».
«Sei calvo». Poi le sue spalle ebbero un guizzo, come se soffrisse di sindrome di Tourette. «Scusami! Non… cioè, insomma, una volta avevi…» Amina allargò le mani ai due lati della testa. «Capelli».
«D’estate mi rapo a zero». Jamie si strofinò l’orecchio, che era di un rosa acceso. «Meno problemi».
La sua testa riluceva come un piatto di porcellana e Amina dovette resistere all’impulso incontrollabile di leccarla. Il tempo l’aveva reso più alto, un po’ più massiccio, con le spalle e il viso più pieni. Ma quella bocca non era cambiata affatto, le labbra grosse, petulanti, lievemente dischiuse come se fossero pronte a mettersi a discutere. Amina la fissò, rendendosi a malapena conto che lui le stava parlando.
«Come?»
Jamie indicò la macchina. «Sei la fotografa?»
«Sì. Cioè, non la fotografa ufficiale, ma una fotografa. In generale. Di lavoro». Non stava nemmeno più parlando inglese. Abbassò lo sguardo e accarezzò la macchina come se fosse un cagnolino da grembo.
«Ah». Jamie bevve un sorso di birra. «E cosa fotografi? In generale. Di lavoro».
Amina arrossì e si schiarì la voce. «Non posso credere che vivi ancora qui».
«Sono tornato solo sei mesi fa. Insegno all’università».
«Sei un professore?»
«Antropologia».
«Davvero? Cioè, è fantastico».
Jamie la guardò con aria curiosa e un mezzo sorriso. «Quindi sei tornata anche tu?»
«Sono in visita. Per un poco. Qualche settimana. Mio padre ha qualcosa che non va». Ma perché diavolo aveva detto una cosa del genere? Il viso di Amina si riscaldò mentre Jamie la guardava con una preoccupazione un po’ superiore a quella che le faceva piacere cogliere nei quasi estranei. Distolse lo sguardo. Al di là del cortile, una donna magra sedeva sola su una sedia pieghevole, con un piatto pieno di enchiladas sulle ginocchia. Amina sollevò la macchina fotografica e rapidamente le scattò una foto.
«Una cosa grave?» domandò Jamie.
«Non lo so». Amina era a disagio, e si vedeva.
«Scusami, non volevo essere indiscreto…»
«Non lo sei. Cioè, lo sei ma non importa». Amina giocherellò con il flash in cima all’apparecchio. «Comunque, dovrei mettermi di nuovo al lavoro. Ho promesso a mia madre che le avrei scattato delle foto».
«Oh. Certo, va bene». Jamie arretrò per lasciarla passare e lei puntò dritto verso il bar.
«Mi ha fatto piacere rivederti!» le gridò lui e lei lo salutò con la mano, troppo nervosa per voltarsi.
Ridicola. Era stata ridicola. Aveva detto un sacco di sciocchezze ed era ancora affascinata dalla parte inferiore della sua faccia. Il vino che il barista le aveva appena dato era un po’ troppo dolce, ma lo sorseggiò comunque, e soltanto quando fu quasi finito osò voltarsi e guardare la festa. Jamie aveva attraversato il prato e ora era chino a baciare la sposa su una guancia.
«Tesoro!»
Amina si girò e vide Monica che le si precipitava incontro, le braccia mulinanti e i capelli che sfuggivano a ciocche da una treccia alla francese. Durante l’abbraccio le fece sgocciolare un po’ di vino sulla schiena.
«Merda! Ti ho bagnato?»
«Un poco».
«Perdonami, amore. È stata una settimana spaventosa». Quel tono di voce implorava una richiesta di chiarimenti, ma Amina fece finta di nulla. «Come stai?»
«Benissimo» rispose. Il gruppo innestò la marcia, i banjo si fecero squillanti e sulla pista da ballo si formò un cerchio pieno di mani che battevano.
Monica si avvicinò e abbassò la voce. «Novità?»
«Non ancora, ma ho un piano. Voglio parlarne con Anyan George».
«Il dottor George?» Monica pareva preoccupata.
«Lo so, ma stammi a sentire: abbiamo bisogno d’aiuto. E meglio lui di chiunque altro».
«Sì, immagino che tu abbia ragione. Brava. Cavolo, sono felice che tu sia a casa». Monica le gettò un braccio sulla spalla e Amina fu investita dal profumo fiorito del suo deodorante e dall’aroma di vino bianco. A un tratto trasalì felice. «Oddio! Guardalo! Quand’è stata l’ultima volta che l’hai visto così?»
Sporgendo prima un’anca poi l’altra, con un balzo Thomas si era spostato al centro del cerchio, le braccia incrociate sul petto come un ballerino russo. Tre calci suscitarono tre grida sonore da parte del pubblico e all’ultimo lui scattò in piedi, i palmi aperti in aria, il mento puntato verso il cielo, i riccioli che sobbalzavano. Amina lo inquadrò nel mirino. Un sorriso si aprì sul viso di suo padre, illuminandolo della luce di un tramonto.
«Andrà tutto bene» disse Monica, bevendo un sorso di vino, e Amina scattò più volte, desiderando con tutto il cuore che avesse ragione.