1.

Poco dopo avere rischiato di provocare la morte precoce di Amina e la sua, Akhil dormì per tre mesi. Naturalmente non consecutivi. Fu però un sonno persistente, un’improvvisa febbre da sfinimento che durò da dicembre a febbraio e lo spingeva a spaparanzarsi su poltrone, divani e tappeti non appena rientrava da scuola, gli occhi che ruotavano inarrestabili sotto la seta delle palpebre. Il perenne muro di parole scomparve, sostituito da una sonnolenza infantile, da occhi che, aperti, a malapena mettevano a fuoco, da una bocca che si apriva soltanto per mangiare o russare. Era troppo stanco per pensare, diceva quando gli veniva rivolta una domanda, e la cosa era fin troppo ovvia.

La prima settimana, né Amina né Kamala riuscirono a capire di che si trattasse. Le sue prolisse invettive erano state sfiancanti, ma quell’improvviso silenzio era davvero bizzarro.

«Anche a scuola è così?» domandò Kamala, la mano premuta sulla fronte del figlio.

«Non ne ho idea». Amina si strinse la coda di cavallo e incrociò le braccia. Era una mezza bugia per cui era stata pagata. Il giorno dopo “l’episodio della macchina”, come lo chiamavano lei e Akhil, erano giunti a una specie di accordo. Ora Amina lo svegliava dopo la siesta postprandiale, controllava che non chiudesse gli occhi mentre era al volante e non ne parlava con nessuno. Akhil le dava quattro dollari e mezzo la settimana. Comunque era un tipo di sonno nuovo, diverso dagli abituali brevi stordimenti. Ed era preoccupante. Amina guardò suo fratello, la caverna puzzolente della bocca, il naso che si increspava.

«Dev’essere influenza» disse Kamala, e Amina annuì in modo da non essere costretta a dire nulla di incriminante.

Durante la seconda settimana del Grande Sonno, si ritrovarono a condurre strani esperimenti. Il martedì, Amina gli sferrò una serie di calci alle caviglie fino a quando lui non aprì gli occhi e la spinse via. A cena, il giovedì, Kamala urlò: «Che ne dici di questa teoria del trickle down?» nel disperato tentativo di costringerlo a fare conversazione. Il venerdì fecero a turno per svegliarlo a furia di scrolloni.

«Ma che cazzo?» gracchiò Akhil con la gola secca e gli occhi incrostati di sonno.

«Cosa succede?» chiese Kamala, ma la domanda le uscì male, in un tono troppo allegro che mal si accordava alla sua espressione ansiosa.

Akhil tuttavia non se ne accorse e rotolò giù con un tonfo tale che il divano vibrò.

Kamala guardò suo figlio come se fosse un vasetto dal contenuto imprecisato sul ripiano del frigo. «Almeno mangia».

Era un eufemismo. La quantità di cibo che Akhil ingurgitava ogni sera a cena aveva del fenomenale. Durante i pasti scomparivano montagne di riso, torri di chapati, mucchi di iddly e polli interi. Amina l’aveva visto divorare un sacchetto di arance in un colpo solo.

Alla fine della terza settimana, Kamala si protese sul bracciolo del divano. «E lui che ne dice?» domandò ad Amina, come se fossero nel bel mezzo di una conversazione.

«Di cosa?» Amina girò la pagina del libro, con il senso di colpa che trasudava dal labbro superiore e dalle ascelle.

Kamala puntò il dito nello spazio sopra la testa di Akhil. «Di questa storia che dorme sempre».

«Non dice niente». Era vero. Le tre volte che lei aveva cercato di affrontare l’argomento delle sue nuove abitudini, Akhil aveva acceso la radio, l’aveva ignorata o l’aveva accusata di cercare di estorcergli altri soldi «inventandosi qualche cazzata».

«Credi che sia depresso?»

«È sempre depresso».

«Non è vero! È sempre arrabbiato». Kamala si tolse un granello di polvere dalle ciglia, lo studiò e poi lo gettò via. Akhil non si mosse. «Gli è successo qualcosa di brutto, ultimamente?»

«Intendi a parte Salem?»

Kamala risucchiò il labbro e allargò le narici. Guardò Amina sbattendo le palpebre e dopo un po’ esclamò: «Non è successo a lui».

«No, lo so, ma…»

«Non è successo ad Akhil. E nemmeno a te». Kamala si avvicinò alla poltrona di Amina e si chinò, sorprendendola con un bacio sulla testa.

«State benissimo tutti e due» aggiunse, stringendo un istante il braccio della figlia prima di passare in cucina.

Stranamente, pronunciare quelle parole ad alta voce cambiò qualcosa in Kamala. Le quattro settimane diventarono cinque, si avvicinavano le vacanze e a un tratto lei diventò più leggera, si affaccendava in cucina, cucinava teglie di biscotti e halva che Akhil divorava a manciate prima di svenire, le labbra coperte di briciole. Una volta sorprese Amina china sul divano e la spinse via dicendo: «Basta», come se Amina l’avesse infastidito.

«Cazzo, forse è posseduto» suggerì Dimple il giorno di Natale, imitando meglio che poteva Mindy Lujan, sebbene le vacanze le avessero costrette a separarsi per ben ventiquattr’ore. Lei e Amina erano in piedi nella stanza di Akhil e lo guardavano dormire. «Che ne pensa tuo padre?»

«È impegnatissimo al lavoro. E in genere succede soltanto di pomeriggio, come adesso, quando papà non c’è, quindi lo vediamo soltanto io e mamma».

«E cosa dice Nostra Signora della Suprema Intolleranza?»

«Crede che stia benissimo perché non è depresso».

«Fico». Gli occhi di Dimple vagarono verso la finestra di Akhil. «Lo sai dove nasconde le cicche?»

Ma non era affatto fico. Mentre le auto dei Kurian e dei Ramakrishna uscivano a marcia indietro dal vialetto, mentre Thomas borbottava che doveva ancora fare il suo turno all’ospedale e Kamala divideva gli iddly rimasti in sacchetti di plastica da infilare nel freezer, Amina restò seduta sulla poltrona a sacco di Akhil e da sopra le pagine del suo libro sbirciò il fratello che russava. La settimana successiva si agitò ancora di più. Era normale per qualcuno che non fosse un gatto dormire sedici ore al giorno?

«Credo che stia male» annunciò a voce alta il lunedì successivo, dopo cena. Era ora di finirla. Le vacanze invernali erano passate, e invece di migliorare Akhil stava peggiorando: appena arrivava a casa puntava dritto al divano come un alcolizzato che corre alla bottiglia.

«L’hai detto tu che a scuola va benissimo» disse Kamala, scrostando i fornelli con gran gusto.

«Guardalo, mamma. Ti sembra che stia benissimo?»

Guardarono Akhil. In realtà, più che stare male sembrava scomodo, aveva un braccio ripiegato sotto di sé e l’altro, ad angolo, penzolava dall’orlo del divano.

«Non è normale» disse Amina.

Quella parola restò sospesa nell’aria e si diffuse ovunque come un odore di sigarette. Amina vide le spalle di sua madre abbassarsi e sollevarsi. Kamala andò in cucina, prese il telefono e compose un numero.

«Vieni subito! Tuo figlio sta male e non si sveglia più!» annunciò dopo un secondo. Poi sbatté giù il telefono.

Quello squillò quasi immediatamente. Lei ascoltò.

«Niente ambulanza!» E sbatté di nuovo giù.

Mezz’ora dopo Thomas imboccò a tutta velocità il vialetto in un vortice di polvere. Lasciò lo sportello dell’auto spalancato e i fari accesi e si precipitò alla porta.

«Dov’è?» domandò a Kamala, senza fermarsi.

«In soggiorno». Kamala, Amina e Queen Victoria lo seguirono in corridoio.

«Cos’ha esattamente?»

«Non si sveglia».

«Da quanto tempo è svenuto?»

«Non è svenuto, dorme! Da quando è tornato a casa!»

«Oggi ha subito qualche trauma alla testa? È caduto, l’hanno colpito, qualcosa del genere?»

Kamala guardò Amina.

«Non che abbia visto io» disse Amina.

Erano entrati in soggiorno. Thomas trasse un respiro profondo e s’inginocchiò sul tappeto peloso. Scacciò il cane e sollevò le palpebre di Akhil, rivelando gli occhi bianchi e in continuo movimento. Poi gli afferrò un polso.

«Akhil?» esclamò ad alta voce.

Akhil si rigirò. «Mnff».

«Akhil, svegliati!»

Akhil si accigliò ma non aprì gli occhi.

Thomas si guardò l’orologio. «Il battito è regolare e il respiro sembra normale». Mise la mano sotto il naso del figlio, poi dalla tasca pescò un termometro che gli infilò nell’orecchio. «Quindi sta dormendo da circa cinque ore?»

«No, si è svegliato per cenare» disse Kamala.

«Credevo che avessi detto che dorme da quando è tornato a casa».

«Si è svegliato per cenare e poi si è subito riaddormentato» disse Kamala. Si protese e sussurrò con aria saputa: «Forse si droga».

«Aveva appetito? Che cosa ha mangiato?»

«Cinque porzioni di pollo al curry, nove chapati, due cucchiai di insalata di patate, una scodella di riso e dahl, una bottiglia di RC Cola».

Thomas spalancò gli occhi. «Davvero? Tutto quanto?»

«Come sarebbe a dire? Gli piace la mia cucina».

«E la cena quando è finita?»

Kamala guardò l’orologio alla parete e alzò le dita per calcolare. «Due ore e mezzo fa».

«Non ha preso droghe» disse Amina.

Il termometro emise un bip, Thomas lo tirò fuori e lo osservò a lungo. «Quindi durante la cena era perfettamente cosciente?»

«Per niente» rispose Kamala con una lieve nota di trionfo nella voce. «Io ho detto che sono a favore delle Guerre Stellari e lui non ha ribattuto!»

Thomas guardò Amina per farsi tradurre.

«Dai, la nuova politica di difesa di Reagan. Mamma ha detto che è favorevole e Akhil non ha replicato».

Amina vide l’informazione filtrare nella mente del padre e la sua fronte ricoprirsi di rughe. «Kamala, ti rendi conto che ero con un paziente?»

«E quindi?»

«E quindi questo poteva anche aspettare».

«Sono due mesi che rimando! Quanto ancora avrei dovuto rimandare?»

Thomas si staccò lo stetoscopio dal collo e si infilò le estremità bianche nelle orecchie. Amina e sua madre restarono immobili mentre inclinava la testa e chiudeva gli occhi. Quando ebbe finito, allargò gli archetti auricolari e si piegò all’indietro sui talloni, osservando la stanza. Guardò gli zaini buttati sul pavimento, il tappeto coperto di scarpe e giornali, la televisione che trasmetteva gli applausi di un telequiz. Sollevò leggermente le sopracciglia davanti allo “snackumento” – una torre di cracker e formaggio spray che Amina amava costruire e mangiare – prima di concentrarsi su Vanna White che, sullo schermo, rigirava una serie di esse bianche.

«Be’?» domandò Kamala.

Thomas si alzò, tirò fuori dalla tasca un grosso parallelepipedo dotato di antenna e lo posò sul tavolo davanti al divano. «Bisognerà vedere che succede».

«Non pensi che dobbiamo portarlo in ospedale?»

«Non ancora». Si diresse verso l’armadietto dei liquori.

«Quando? Domani?»

«Credo che dovremmo osservarlo per un poco». Tirò fuori un bicchiere da whisky.

«Ma l’abbiamo osservato! Te l’ho già detto! Non è più lui!»

«Per favore, Kamala». Il liquido scrosciò nel bicchiere. «Non possiamo mandarlo in ospedale perché non ti risponde per le rime. Dormire qualche ora a metà serata non è strano per un ragazzo della sua età».

«Ma non è solo questo! Amina, diglielo!»

Gli occhi dei suoi genitori puntarono su di lei, cercando ciascuno di perorare la propria causa. Amina guardò l’uno e poi l’altra.

«C’è qualcosa che non va» disse alla fine, e suo padre fece una faccia delusa. «No, davvero, dorme sempre. E poi…» Si sforzò di pensare a qualcosa che non mettesse nei guai Akhil. «Anche quando è sveglio, è come se non lo fosse. A volte deve accostare quando è al volante. Dorme durante il pranzo. Poi torna a casa e mangia come un animale impazzito e famelico. E Dimple pensa che sia posseduto».

Suo padre sospirò. «Tutto qui?»

Amina annuì, sentendosi stupida.

«Non è tutto qui!» intervenne Kamala. «Dobbiamo portarlo da un altro medico! Subito! Andiamo!»

«Ho detto che non…» iniziò Thomas.

«E INVECE SÌ. TI DICO DI SÌ».

«Sì che cosa?» domandò Akhil, la voce soffocata dal sonno. Si girarono verso di lui, ma nessuno disse niente.

«Cosa succede?» fece Akhil.

«Sei sveglio». Thomas, per nulla stupito, bevve un sorso di whisky.

«Sì».

«Che giorno è?»

Akhil lo fissò confuso. «Cosa?»

«Il giorno della settimana. Lunedì, martedì…»

«Giovedì».

«La data».

Akhil si accigliò. «Cos’è, un test?»

«Sì» rispose Thomas.

Akhil sbatté le palpebre parecchie volte prima di rispondere: «12 gennaio 1983».

«Perché dormi così tanto?» domandò Kamala.

Akhil guardò Amina e il suo viso si scurì, pieno di accuse. «Sono nei guai?»

«No, certo che no» disse Thomas.

Akhil ricadde sul divano. Guardò suo padre, preoccupato. «Cosa ci fai qui?»

«Come sarebbe a dire?»

«È presto».

«Mi ha chiamato tua madre».

«Perché?»

Nessuno disse niente. Kamala si morse le labbra e respirò attraverso il naso.

«Cosa sta succedendo?» Akhil guardò prima l’uno e poi l’altra con aria stanca. Amina si strinse nelle spalle.

«Tu hai qualcosa che non va!» urlò Kamala.

Akhil sbarrò gli occhi. «Cosa?»

«Kamala!»

«Io ho qualcosa che non va?»

«Tua madre era preoccupata e adesso non lo è più» disse Thomas. «Lascia perdere».

«Non mi dire quello che devo fare!»

«Kamala, basta. Lo stai spaventando».

«Io non sto spaventando nessuno! Reagan potrebbe espellerci tutti domani mattina e lui dorme come un bambino!»

«Ci espellono?» domandò Akhil.

«Senti, sta benissimo…»

«Non sta benissimo! Dorme tutto il tempo come una specie di neonato! Gli si sta rammollendo il cervello! Si sta trasformando in un pezzo di mobilio! Tu sei troppo impegnato all’ospedale con i tuoi preziosi pazienti – degli sconosciuti! – mentre qui tuo figlio sta morendo e tu non…»

«Io sto morendo?» Akhil scattò a sedere.

«STA CRESCENDO!» urlò Thomas, e la sua voce colpì il soffitto. «Oddio, Kamala, non ha niente che non va, è un ragazzo normale nel bel mezzo di un processo di crescita! Tu e il tuo ridicolo torcerti le mani e invocare il Signore, non ci vuole un medico per capire queste cose, basta guardarlo!»

Amina seguì il braccio di suo padre, la freccia accusatrice che terminava in un dito tremante, puntato dritto su Akhil. Guardò suo fratello. Lo guardò bene. E per la prima volta, vide che aveva le braccia dimagrite e più lunghe, come se qualcuno l’avesse tirato, e mentre affondava nel divano le nocche sfioravano il tappeto. E le gambe. Le cosce erano ingrossate e sembravano belle toste, come panche gemelle agganciate al torace. Passò a esaminargli la faccia imbronciata e vide che l’acne era stata assorbita dalle guance, lasciandosi dietro minuscoli crateri. E gli zigomi. A un tratto erano troppo grandi, rigonfi, formavano archi che indurivano il viso dandogli un aspetto nuovo, come una superficie lunare. Lui sbatté le palpebre e si alzò. Amina indietreggiò.

«Finito?» La voce di suo fratello era tesa di rabbia.

«Sì» disse Thomas.

Akhil attraversò la stanza barcollando. Qualche istante dopo, i suoi piedi si trascinarono su per le scale. Sopra di loro, la porta della sua camera sbatté. Kamala fissò il marito. Aprì la bocca per dire qualcosa e poi la richiuse.

«Kamala, l’hai spaventato…»

La mano aperta di lei lo zittì. Kamala si girò e uscì dal soggiorno, la sari che frusciava sul pavimento nudo. Udirono sbattere un’altra porta.

Thomas si versò il resto del whisky in bocca e deglutì. Si avvicinò al divano e ci sprofondò. «Se vuoi andare, vai».

Amina rimase.

Suo padre puntò i gomiti sulle ginocchia e si prese la fronte tra le mani. Al collo aveva ancora appesa una mascherina. Il camice era macchiato di sangue. Alzò lo sguardo sul televisore. «Cos’è questo programma?»

«La ruota della fortuna. Stanno cercando di indovinare un’espressione».

«Ah». Pareva confuso.

«Un modo di dire. Tipo, “lacrime di coccodrillo”. O “dall’alba al tramonto”».

Sedette accanto a lui sul divano e alzò il volume, ma suo padre stava pensando ad altro.

«Cos’è questo?» gli domandò indicando la scatola con l’antenna.

«Un telefono».

«Dov’è il cavo?»

«Non c’è. È una cosa nuova, un telefono che ti segue ovunque. Dicono che presto ci saranno anche per le auto».

«Perché dovrebbe essere necessario chiamare qualcuno dall’auto?»

Thomas si strinse nelle spalle. «Per chiedere indicazioni?»

«Oh».

Per un attimo, tacquero.

«E questo cos’è?» disse lui indicando il piatto.

«Uno snackumento. Cracker Ritz e formaggio spray. Si mangia».

«Un formaggio da spruzzare?»

Amina afferrò la bomboletta. «Dammi un dito».

«Domani è un altro giorno!» annunciò una voce allegra e un frullo di tessere illuminate tintinnò nel televisore.

Suo padre le porse il dito e Amina lo decorò con ghirigori di cheddar giallo. Vanna rigirò le tessere luminose. Il concorrente vinse un’auto nuova e una vacanza a Phoenix, Arizona. Quando Amina ebbe finito, suo padre alzò il dito verso la luce, rigirandolo di qua e di là per farlo scintillare.

«Le meraviglie dell’America» disse. Poi s’infilò il dito in bocca e succhiò.