6.
Se avesse saputo che sarebbe stata un’umiliazione totale, Amina non sarebbe andata al ballo. Si ritrovò seduta in un vortice di luci da discoteca cercando di non osservare ogni persona della scuola (Akhil compreso, Dimple compresa) limonare con qualcuno. Non era facile. Dio solo sapeva se aveva già esaminato gli spalti che fiancheggiavano le pareti della palestra, gli altoparlanti giganteschi che galleggiavano sopra una coltre di fumo puzzolente, la palla di specchi che roteava come l’occhio di un ciclope. Only the Lonely usciva a tutto volume dagli amplificatori, come una specie di cosmica presa in giro.
Lo detestava. Detestava le luci e le sue scarpe e i suoi capelli e il fatto che la malinconica voce del cantante le facesse venire voglia che scoppiasse una guerra nucleare o si scatenasse un terremoto o qualunque cosa potesse far venire in mente a qualcuno di baciarla.
«A cosa stai pensando?» Una faccia punteggiata di stelle bianche si chinò sulla sua e Amina scattò irrigidendo la schiena, rischiando di andare a sbattergli contro. Accanto a lei c’era Jamie Anderson, il collo del giubbino di jeans sollevato e sotto una specie di camicia di tessuto vellutato. Le luci colorate illuminavano la sua enorme palla di ricci, facendolo sembrare un soffione candito.
«Cosa?»
«Hai l’aria di una che pensa a qualcosa».
«Alle bombe» disse Amina, pentendosene subito.
Jamie annuì, come se il fatto che lei pensasse alle bombe fosse ovvio. «Quelle sulla montagna?»
Amina lo guardò cauta.
«Alla base aeronautica di Kirtland» spiegò. «Lo sai benissimo di cosa parlo».
Lei invece non ne aveva la più pallida idea e non sapeva perché lui le stesse rivolgendo la parola, visto che dopo il suo exploit iniziale a inglese non aveva parlato con nessuno. La stupì ancora di più sedendosi accanto a lei. Da sotto il giubbino le arrivò il suo odore. Sapeva di jeans e deodorante.
«Una delle montagne Manzano è stata scavata e riempita di testate nucleari. Credevo che in città lo sapessero tutti».
«Immagino che noi ritardati non abbiamo ricevuto il promemoria».
Jamie fece una smorfia e sorrise, poi si guardò alle spalle e Amina si asciugò le mani sui jeans cercando di non farsi vedere. Sudava. Stava sudando.
«Cosa ci fai qui?»
«È il ballo della scuola».
Non era una gran risposta, ma Jamie annuì. «Fico».
Amina cercò di ignorare la coppia davanti a loro, nasi che si strofinavano contro i colli, mani che si intrecciavano sui culi.
«Lo sai che se scoppia una guerra noi saremo i primi a partire?» disse Jamie. «E comunque scommetto che i russi non ci ammazzerebbero nemmeno se potessero. Scommetto che laggiù sono uguali a noi, in balia dei loro leader…»
Amina si alzò. «Hai una sigaretta?»
Lui represse uno sguardo stupito. «Sì, certo».
Lei si girò e iniziò a scendere le scale. «Dammela e basta. Non c’è bisogno che venga anche tu, se non vuoi».
Lui la seguì. «E se voglio?»
«Puoi smetterla di parlare di bombe?»
«Perché ti fa paura?»
«Perché mi sembri mio fratello».
Lui non aprì più bocca mentre scendevano con gran fracasso il resto degli spalti. Arrivarono in fondo alla fine della canzone, quando la massa dei volti che avevano davanti si divise, alcuni con espressione sognante, altri bavosa.
«Vieni» disse Jamie, prendendola per mano. Lei abbassò lo sguardo, ipnotizzata da quella mano pallida nella sua, e si lasciò condurre attraverso i corpi accaldati e le zaffate di sudore, colonia Polo, lucidalabbra alla frutta e lacca per capelli. Sotto i suoi piedi il pavimento di legno diventò linoleum e l’aria rinfrescò mentre Jamie spalancava la porta della palestra. Lo seguì verso una serie di archi a poche centinaia di metri dalla palestra e distolse lo sguardo mentre lui frugava nel taschino del giubbotto e poi nelle tasche posteriori dei pantaloni.
«Allora, dimmi di tuo fratello» fece lui, infilandosi in bocca due sigarette. «È un tipo piuttosto fico, no?»
«Lo conosci?»
Jamie soffiò sulla punta di una delle due e gliela porse. «Non proprio. Lo vedo in giro. La settimana scorsa ha partecipato alla manifestazione all’università contro le scorie nucleari».
«Ci sei andato?»
«Con i miei e mia sorella».
Amina guardò altrove, confusa. Era quello che facevano le altre famiglie? Un’auto entrò sgommando nel parcheggio. Lo sportello si spalancò e tre ragazze si districarono dal sedile anteriore, scesero e attraversarono il parcheggio tubando.
«Quindi tu sei di Chicago, giusto?» gli domandò.
«Sì. Ci siamo trasferiti qui l’estate scorsa».
«Ah-ah». Amina scrollò la sigaretta come Akhil, facendo scattare il pollice contro il filtro. «Hai nostalgia?»
«Sì. Non come mia sorella, ma mi manca».
Tutto tornava. Le poche volte che Amina aveva incontrato Paige durante l’ora di pranzo, l’aveva vista fissare intensamente oltre il campus, come se un mondo intero l’attendesse sospeso al di là dei cancelli.
«Perché è stata sbattuta fuori dalla St Francis?»
«Chi ti ha detto che è stata sbattuta fuori?»
«Non è così?»
Jamie soffiò sulla punta della sua sigaretta. «Hanno beccato me che mi facevo alla festa di Natale».
«Oh». Amina cercò di far finta di nulla, ma non conosceva nessuno studente del primo anno che si facesse, o quanto meno, che avesse sballato al punto da farsi espellere. In quella storia c’era qualcosa che la eccitava terribilmente. Avrebbe voluto trascinare di nuovo Jamie sotto le luci e controllargli le pupille e i riflessi, e magari fargli un test per la memoria.
La porta della palestra si spalancò e prima che si richiudesse ne sgusciò fuori il gemito acutissimo di una chitarra elettrica.
«Comunque, sono sicuro che l’anno prossimo ci tornerà» disse Jamie. «Sta cercando di iscriversi alla Northwestern».
«Perché non ti piace Tipton?» domandò Amina.
Jamie scrollò le spalle. «È come se tutti gli leccassero il culo».
«Be’, se stai cercando di farti sbattere fuori di nuovo, sarà tutto inutile. Qui il peggio che possono farti è metterti nell’angolino e non lasciarti partecipare alle discussioni».
Lui sbuffò. «Sì, sarebbe proprio una palla».
Perché non riusciva a staccare lo sguardo da lui? In una scuola piena di ragazzi con le mascelle affilate e i capelli a spazzola, non si poteva certo considerare bello. Aveva gli occhi troppo infossati e le sopracciglia troppo evidenti. Eppure, insieme alle guance rosate e alle labbra troppo femminili, gli davano una fisionomia stranamente androgina che in classe Amina aveva dovuto costringersi a ignorare. Ora la smorfia su quelle labbra le suscitò un brivido lungo la schiena.
«Io non sono una leccaculo» disse.
«Come?»
«Non sono una leccaculo solo perché intervengo in classe».
«Non ho detto questo».
«Sì, certo, come no».
«No, davvero. Mi piace quello che dici in classe» disse. «Cioè, sei sveglia».
«No, invece».
Perché aveva detto una cosa del genere? Ormai non sapeva più nemmeno cosa stava dicendo o come avrebbe potuto allentare il groppo che le si stava indurendo in gola. Guardò al di là del parcheggio, dove uno dei pick-up sembrava ballonzolare un poco, cosa piuttosto sconcertante. Sentì che lo sguardo di Jamie accompagnava il suo e i capelli sulla nuca le si rizzarono come se qualcuno l’avesse accarezzata contropelo. Si concesse di guardarlo. I capelli gli si irraggiavano dalla testa formando una nuvola meravigliosa e sentì che il suo viso si avvicinava, come il centro di un fiore dalla strana bellezza.
«Come?» esclamò, e per la sorpresa fece un balzo indietro.
Lui le guardò la mano. «Quella la fumi?»
In cima alla sua sigaretta c’era un cilindro di cenere lungo tre centimetri. La scrollò, se la infilò tra le labbra come se fosse una cannuccia e succhiò. Nella trachea le scivolò un gatto con gli artigli sfoderati. Per un attimo trattenne il fiato, osservando la curiosa espressione sul viso di Jamie, poi tossì e buttò fuori tutto, fumo e lacrime e saliva che le esplosero dalla faccia. Jamie fece un salto indietro.
«Cristo santo!»
Lei boccheggiò e ricominciò a tossire, ma stavolta affondò la faccia nell’incavo del braccio così lui non poté vederla. Sbuffò, scatarrò. Sentì la mano di lui darle dei colpetti alla schiena come se potesse servire a qualcosa e imprecò muta per tutta la durata di quell’accesso di tosse, che si concluse con qualche respiro irregolare e un tentativo di deglutire.
«Tutto bene?»
Lei annuì, non si fidava di usare la voce. Stava per ruttare e non sapeva bene se sarebbero usciti fumo o aria.
«Non fumi, vero?»
Lei scosse la testa, facendolo scoppiare a ridere. Lei lasciò cadere il resto della sigaretta e lo schiacciò con la scarpa.
«Perché me l’hai chiesta?»
«Volevo soltanto uscire di là».
«Oh. Ovvio». Si girò a guardare la palestra e fece un passo in quella direzione, poi si girò di nuovo. «Vuoi andare a fare una passeggiata?»
«No».
«Intorno al campo di calcio, una cosa così» disse lui indicando un punto lontano come se non sapesse bene dove. «Poi possiamo tornare dentro».
Gli irrigatori avevano appena smesso di funzionare e l’erba umida le solleticò le caviglie mentre seguiva la linea tracciata con il gesso. Jamie la precedeva di poco.
«Ma allora, che cos’ha fatto Paige?» domandò lei.
«Come?»
«Per essere sbattuta fuori?»
«Non è stata sbattuta fuori. Ha chiesto ai miei se poteva cambiare scuola perché trova che i programmi scolastici delle scuole cattoliche siano troppo retrogradi».
Raggiunsero un angolo e mentre svoltavano Amina lo sfiorò con la spalla. La mano di Jamie dondolava accanto alla sua, lasciandosi dietro una lieve traccia di calore, e Amina pensò che se fosse stata Dimple l’avrebbe afferrata come se, cazzo, fosse stata la cosa più normale del mondo.
«Quindi voi siete indù, giusto?»
«Cosa?» replicò Amina stupefatta. «No. Siamo cristiani».
«Oh». Pareva deluso.
Amina accelerò un poco. «Già. Cioè, in realtà nella mia famiglia nessuno è niente. Nostra madre ci ha portato a messa tipo due volte. Ma non siamo indù. Però pare che quelli che si sono convertiti al nostro tipo di cristianesimo fossero bramini, nel 50 d.C., quando san Tommaso è andato in India fondando la nostra religione, anche se tutti danno per scontato che sia una cosa derivata dalla colonizzazione britannica».
Stava blaterando? Stava blaterando. Represse l’invincibile bisogno di raccontargli che una volta lei e Akhil avevano trovato una vipera nel giardino della nonna, o che quand’era piccolo Thomas vedeva sempre i roghi di cadaveri sulle rive del fiume. Svoltarono un altro angolo e Amina notò con delusione che le luci della palestra erano accese. Gruppi di ragazzi stavano cominciando a uscire dalle porte.
«Dovremmo tornare» disse Jamie, attraversando il campo. Lei lo seguì.
«Caz-zo. Caaaa-zzzoooooo».
Mentre si avvicinavano alla station-wagon, videro Akhil che, aggrappato al tettuccio, sbatteva ripetutamente la testa contro il parabrezza.
«Cosa c’è?» domandò Amina, desiderando soltanto che suo fratello conservasse almeno un briciolo del fascino che Jamie gli aveva attribuito poco prima.
«Le chiaaaa-viiiii» disse Akhil, senza perdere il ritmo. «Sul sediiiiiiiii-leeeeeeee».
Amina lo spinse da parte. Eccole là, che luccicavano dietro il finestrino e lo sportello ben chiusi.
«Oddio».
«Hai chiuso le chiavi nell’auto?» domandò Jamie e Akhil, confuso, guardò prima lui poi Amina.
«Pare proprio di sì» rispose.
«Torno subito» disse Jamie, si girò e si diresse verso le porte della palestra, dove la gente continuava a uscire a gruppetti sudati.
«Cosa ci fai con quel tizio?»
«Niente. E adesso come torniamo?»
«Boh».
«E Mindy?»
«L’ho accompagnata a casa. Ci siamo lasciati».
Amina guardò l’auto e arricciò il naso. Detestava entrarci e cogliere l’odore surriscaldato di Mindy (Giorgio Beverly Hills, mentolo, lievito) ancora appiccicato ai sedili. «Fantastico».
«Hai chiuso le chiavi dentro?»
Amina e Akhil si girarono e videro Paige avvicinarsi con piglio deciso seguita da Jamie.
«Già».
«E non avete un attaccapanni, per caso?» Due fossette le spuntarono ai lati della bocca increspata in un sorriso.
«No» rispose Akhil ingrugnato.
«Scherzavo» disse lei. «Stavo scherzando. Credo di averne uno in macchina».
«Non preoccuparti, non voglio che ti disturbi».
«Nessun disturbo» rispose Paige. «Lo faccio sempre».
«È brava» disse Jamie, mentre la osservavano raggiungere il suo monovolume giallo all’altro capo del parcheggio. «La più veloce».
«A proposito, io sono Akhil» disse Akhil, tendendo la mano per stringere quella di Jamie. Jamie si presentò a sua volta, poi entrambi sciolsero la stretta e si cacciarono le mani in tasca, imbarazzati da quelle improvvise formalità.
«Siamo nella stessa classe» disse Amina. «Inglese».
«Davvero, con Tipton?» Akhil fece un sorrisetto. «Che ne pensi?»
«Cerco di non pensarci».
«Bella risposta».
Paige riemerse dall’auto agitando trionfante la mano.
Guardare Paige Anderson disfare un attaccapanni di fil di ferro mentre studiava la serratura, ne memorizzava le dimensioni e calcolava la traiettoria che avrebbe guidato la sua mano armata di un’estremità dell’attaccapanni era uno spettacolo quanto meno mozzafiato. Lo modellò a forma di piccola U e poi lo infilò attraverso la fessura del finestrino manovrando prima in alto e poi in basso. Si morse la lingua con gli incisivi e agganciò la serratura. Poi perse la presa.
«Merda» sibilò, scrollando le mani. «Datemi un minuto».
«Noi non andiamo da nessuna parte» disse Akhil e lei prese un respiro profondo, infilò di nuovo il gancio e stavolta lo spostò di lato. La serratura si aprì con uno scatto.
«Grande» disse Akhil con un sorriso.
«Grazie» disse Paige, un po’ compiaciuta. Aprì lo sportello e gli diede le chiavi.
«Straordinario». Akhil non guardava nemmeno le chiavi, ma Paige, e il suo viso si modificava in base a emozioni che Amina non gli aveva mai visto esprimere; sulla sua superficie passarono meraviglia, desiderio e una felicità pura e semplice.
«Dovremmo andare» disse Jamie, rompendo quello che era stato un silenzio anche troppo lungo.
«Giusto» disse debolmente Paige, arretrando. «Devo recuperare la mia borsa, è rimasta dentro. Puoi prendere la macchina, intanto, e aspettarmi?»
«Okay». Poi tese le mani. Lei gli lanciò le chiavi.
«Sai guidare?» domandò Amina.
«Solo nel parcheggio» disse Jamie e si avviò; era già a una decina di metri quando Amina riuscì a salutarlo.
«Bene» disse Paige ad Akhil. «Immagino che ci vedremo lunedì».
«Già». Akhil la osservò andarsene, con quel sorriso pazzo che ad Amina faceva venir voglia di prenderlo a calci o di coprirgli la testa con un sacchetto di carta. «Aspetta!»
«Sì?» Paige si fermò.
Lui si schiarì la gola. «Be’… come ti chiami?»
Paige lo guardò a lungo, per alcuni lunghi secondi che diventarono sempre più imbarazzanti. Alla fine rispose: «Siamo insieme nel club di matematica, ti ho appena aperto la macchina e fai finta di non sapere come mi chiamo?»
«Be’…» fece Akhil, ma lei si era già allontanata, e lo salutava agitando le dita. Era arrivata a metà strada dalla palestra, la sua schiena morbida entrava e usciva dai fasci di luce, quando Akhil riuscì finalmente a tirare il fiato. I suoi lineamenti si contorsero per il panico. «Merda. Dovrei…?»
«Non chiederlo a me…» fece Amina, scocciata, ma prima che avesse finito lui era già scattato, la camicia piena di vento, le gambe che rallentavano in una corsa rilassata e poi in un passo rapido con cui sarebbe riuscito a raggiungere Paige prima che arrivasse alla porta della palestra. Amina lo guardò darle un colpetto sul braccio e poi ritrarsi, passarsi una mano tra i capelli e dirle qualcosa che non riuscì a sentire. Un secondo. Una pausa. Un istante di silenzio tra loro che in seguito Amina avrebbe identificato come l’attimo in cui ciò che è dimenticabile diventa straordinario. Poi Paige gettò indietro la testa e scoppiò a ridere, rivelando una striscia di denti bianchi, la lunga curva del collo e un destino al quale Akhil non aveva la minima possibilità di resistere.