2.

«Allora?» domandò Kamala. «Com’è andata?»

Amina e Akhil la fissarono, ammutoliti. Non erano soltanto la tuta dall’aria plasticosa o i capelli che non formavano una treccia ma erano stati raccolti in una coda alta, e nemmeno le scarpe da tennis che Kamala portava ai piedi, bianche, pulite e ben allacciate come marshmallow intergalattici. Era il suo sorriso. Nelle ultime otto ore, non si sa come, Kamala era diventata vispa. Occhi e labbra scintillavano di rosa e viola mentre si appoggiava al bancone della cucina.

«Ti piacciono i tuoi professori?» domandò con un cenno del capo.

«Sì» rispose Amina, rispondendo automaticamente con un altro cenno.

Akhil sbuffò. «Cosa ti sei messa in faccia?»

«Sono andata al reparto trucco di Dillard’s».

«Così?»

«Come, così? Ho forse bisogno del tuo permesso?»

«E quelli cosa sono?» domandò Amina.

«Pantaloni da paracadutista!» Kamala si guardò le gambe come se appartenessero davvero a un militare dell’aeronautica. «Sono all’ultima moda».

Akhil era così stupefatto che sua madre scoppiò a ridere, incurvando gli zigomi color bronzo. Le sue ciglia si mossero come le ali annerite di una farfalla degli inferi e Amina si stupì della precisione della spessa riga nera sotto i suoi occhi fino a quando non si rese conto che la madre la stava guardando con crescente preoccupazione.

«Sei fantastica» disse Amina, e una smorfia di imbarazzo velò i lineamenti di Kamala.

«E i tuoi professori? Sono bravi?»

«Fanno schifo» disse Akhil, guardandosi intorno come se negli armadietti della cucina si annidassero ulteriori cambiamenti.

Kamala si strinse allegramente nelle spalle. «Ah be’, niente di nuovo, eh? C’è chi vince, c’è chi perde».

Amina annuì. C’è chi vince, c’è chi perde. Certo. Sua madre si voltò verso una pentola che bolliva sul fornello. La portò nel lavandino, lasciando uscire l’odore fangoso delle patate bollite, e poi aprì un cassetto e si mise a frugarci dentro. «Perché non cominciate a fare i compiti? Vostro padre sta per tornare a casa, quindi mangeremo presto».

«Papà?» Akhil spalancò gli occhi. «E quale sarebbe l’occasione?»

«Il primo giorno di scuola, stupido». E si sventolò il viso per allontanare il vapore.

«E allora?»

«E allora? Non se lo vuole perdere».

«E da quando?»

«Da adesso, signor Bisbetico!»

«Hai una crisi d’identità?» domandò Akhil.

«Non capisco di cosa stai parlando». Kamala tirò fuori lo schiacciapatate e lo sollevò come se fosse un trofeo. Poi sorrise. «Adesso perché tu e le tue idee politiche di estrema sinistra non andate di sopra fino all’ora di cena?»

Akhil uscì dalla cucina senza aprire bocca. Lo sentirono salire le scale pestando i piedi. Amina sedette su una sedia e guardò sua madre affaccendarsi in cucina. Davvero incredibile. I pantaloni lucidi le fasciavano i fianchi e da dietro sembrava una qualsiasi allieva della Mesa Prep.

«Sei così diversa».

«Brutta?» Kamala si guardò riflessa nel forno a microonde.

«No, solo diversa».

«Mi sono struccata quasi del tutto. Ma mi sono comprata un rossetto».

«Posso vederlo?»

Kamala indicò la sua borsa, Amina l’aprì e lo tirò fuori.

«Delizia di fragola?»

«Oh, non saprei» disse sua madre con una risata imbarazzata. Aprì un cassetto ed estrasse un coltello. «Allora, ti piace la scuola?»

«Ho lezione sempre con Gina Rodgers».

«La saputella».

«Sì».

«Ah. Poverina. Nessuno se la sposerà mai».

«Mamma! Ha la mia età».

«Non adesso, stupida, più avanti. Avevo un’amica così, all’università, Ranjini Mukerjee. Quella ragazza era una scocciatura! Nessuno voleva sposarsela».

«Eh, già».

Queen Victoria, un pastore tedesco con l’artrosi e dal comportamento costantemente indifferente, entrò in cucina fiutando in direzione dei pantaloni da paracadutista e poi si sdraiò sul pavimento.

«Ma è una bella scuola, no?» domandò Kamala. «Così grande!»

«Non è male».

«E Dimple che ne pensa?»

«Non ne ho idea».

«Non avete lezione insieme?»

«Solo biologia».

«Be’, probabilmente è una buona cosa, no?»

Amina sospirò. «Se lo dici tu».

«Oh, Ami, non fare la tragica. Hai solo bisogno di un po’ di tempo da sola per trovare gli amici giusti». Tagliò le due estremità della cipolla e poi la aprì in mezzo. Prese una metà e la affettò in una serie di arcobaleni acromatici, mentre negli occhi le salivano le lacrime. «Le persone a volte hanno bisogno di stare sole per poi tornare insieme, sai».

Com’è che lo sapevano tutti? Era così ovvio? Ad Amina si contrasse la gola, come se qualcuno le avesse stretto una vite nella laringe.

Sua madre si asciugò gli occhi con il dorso della mano maledicendo le cipolle. «Comunque, quella ragazza è un po’ bacata nella testa. Ha preso dalla famiglia di Bala, sai, illusioni di grandezza, eccessiva vanità. Ce l’hanno tutte le donne. Perché credi che le abbiano dato quel ridicolo nome da stella del cinema?»

«E perché voi mi avete dato un ridicolo nome musulmano?»

«Non è ridicolo, è beneducato! Amina e Akhil sono nomi da bravi ragazzi!»

Amina scese dallo sgabello. «Vado di sopra».

Nel letto si stava bene. Era morbido, caldo e, anche se profumava troppo di Jean Naté, comodo. Amina si girò sulla schiena. Il suo poster degli Air Supply era abilmente incastrato tra la seconda e la terza colonna del baldacchino, ben nascosto agli sguardi sprezzanti di Akhil e Dimple. Amina adorava gli Air Supply. Adorava l’album The One That You Love con la mongolfiera sospesa in un cielo azzurro smalto; adorava cantare Lost in Love anche se le avevano ripetuto più volte di non farlo; adorava il modo in cui i cantanti Russell Hitchcock e Graham Russell condividevano un nome e due voci tremolanti e lacrimose come se si fossero schiantati in mille pezzi in mezzo al deserto, come se anche loro avessero perso tutto il loro universo in una lunga estate calda.

«I’m all out of love» sussurrò rivolta al poster. E poi le accadde quella cosa che le succedeva da tutta l’estate: il dolore sordo in fondo alla gola scomparve mentre pensava alla sua macchina fotografica. La sua macchina fotografica! Dov’era? E dov’era il suo compito per la settimana? Pochi secondi dopo li aveva tirati fuori entrambi dallo zaino, e li aveva piazzati l’uno accanto all’altra sul copriletto.

Compito 1: LUOGHI, SPAZI, COSE.

Usa questa settimana per mostrarci il tuo mondo e soprattutto i luoghi che abiti: una classe, una camera da letto, un posto in cui ti senti a casa. Questo compito NON RIGUARDA LE PERSONE, ma le stanze e gli spazi in cui ti muovi. Pensa alla luce in ciascuno spazio, e al modo in cui contribuisce all’atmosfera dell’immagine. Pensa all’onestà che può essere racchiusa in una serie di COSE. Sperimenta con l’apertura e la velocità del diaframma (per ulteriori dettagli vedi il libretto).

Amina prese la macchina fotografica e si guardò intorno. Il colore della parete era stato un errore. Quell’anno andava di moda il lavanda, le altre ragazze di quarta continuavano a ripetere quella parola come se appartenesse a una lingua straniera, e lei per sbaglio aveva creduto che le si confacesse. La toeletta e la scrivania, comprate a due diversi mercatini dell’usato, erano l’una accanto all’altra. Sulla superficie della toeletta si ammucchiavano elastici per i capelli, forcine, mollette e parecchi prodotti Jean Naté, mentre lì accanto la superficie piatta e lucida della scrivania era vuota. Sugli scaffali: bamboline indiane, dischi, cubi di Rubik costantemente bloccati sui colori sbagliati, i tristi sguardi di plastica degli animali di peluche che non amava più, ma che non riusciva a decidersi a buttare via. Chiaramente non poteva scattare una fotografia degli oggetti presenti nella stanza.

«Che cosa fai?»

Sempre con la macchina fotografica attaccata all’occhio, si girò verso la porta dove c’era Akhil. «Imparo a usare questa cosa».

«Oh». Lui entrò e prese una forcina dalla toeletta. «Be’, se vuoi puoi farmi delle foto».

«Il compito parla di cose, non persone».

«Quali cose?»

«Le cose che ti rendono… insomma, te stesso. Le tue cose».

«Che stronzata».

«No, non è vero. È onesto». E zoomò sulla faccia di Akhil.

«Allora scatterai delle foto a quel poster gay degli Air Supply?»

«Non ricominciare». E premette il pulsante dell’otturatore.

Akhil si accigliò. «Che ne dici di quella Marie Osmond giù di sotto?»

«Io la trovo carina».

«Io la trovo fasulla».

«Cristo, Akhil, si è solo truccata un po’. Non farla tanto lunga». Giocherellò con la messa a fuoco fino a quando suo fratello non fu una macchia indistinta di pelle e luce.

«La mercificazione della bellezza è una trappola economica studiata per schiavizzare la donna moderna».

Amina allargò il diaframma di due tacche. L’otturatore si chiuse. «Non ho la più pallida idea di che cosa stai dicendo».

La luce vorticò dove avrebbe dovuto trovarsi l’occhio di lui. «Ovvio».

Qualche ora dopo, erano seduti in cima alle scale e guardavano la luce nell’ingresso sottostante. L’assenza di rumori dalla cucina confermava che Kamala aveva da un bel po’ smesso di spignattare, ma qualche tentativo di iniziare la cena era stato subito respinto dalla sua eccessivamente allegra insistenza: sosteneva che Thomas sarebbe arrivato nel giro di qualche minuto! Ne passarono altri quarantasette. Erano pronti a mangiarsi perfino i cuscini.

«Credo che dovremmo scendere» sussurrò Amina.

Akhil guardò l’orologio e sospirò.

«Credi che dovremmo scendere?» domandò lei.

«Credo che avrebbe dovuto essere qui un’ora fa».

«Sì, lo so, ma…»

«Mamma, per favore, possiamo mangiare?» urlò Akhil, interrompendola.

Nessuna risposta.

«Mamma! Possiamo…»

«Certo! Mangiamo!» gridò lei di rimando.

Al piano di sotto, il tavolo di cucina era stato apparecchiato con i piatti del servizio buono e la brocca di cristallo ricoperta di condensa era posata su un centrino di stoffa. Sopra i tovaglioli, le posate d’argento scintillavano.

«Che cos’è questa roba?» domandò Akhil.

«Stufato e purè di patate!» esclamò Kamala tutta orgogliosa.

Amina si sedette, prese un forchettone e infilzò quell’ammasso marrone. Odorava pesantemente di ristoranti americani, di carne coriacea non arricchita di spezie autentiche. Capì che sua madre la stava guardando e sorrise. «Ha un bell’aspetto».

Kamala annuì rivolta al piatto da portata. «Assaggialo, ti piacerà».

Amina infilzò la carne. Opponeva resistenza.

«A me non piacerà» disse Akhil, respingendo il piatto. «Non posso avere un po’ di pollo al curry?»

«Questa sera non ho cucinato indiano».

«E per papà?»

«Nemmeno».

Amina e Akhil si scambiarono un’occhiata. Kamala si faceva sempre un punto d’onore di cucinare cibo indiano per Thomas, anche se ogni tanto per i ragazzi provava qualche piatto nuovo.

Akhil cercò di prendere una cucchiaiata di purè, ma mentre la sollevava quella pappa iniziò a filare, come se non volesse mollare il cucchiaio.

«Ma cos’è questa roba qui?» domandò.

«Purè di patate».

«È gommoso».

«E aspetta di averlo assaggiato!» esclamò Kamala tutta allegra. «Ci ho messo del burro in più».

Akhil guardò Amina, che scosse appena la testa. Non dire niente. Kamala tornò in cucina.

«E tu non mangi?» le gridò dietro Akhil.

«No, no. Io aspetto».

Mangiarono mentre lei aspettava. O meglio, cercarono di mangiare mentre il cibo cercava di non farsi mangiare. Lo stufato mantenne la forma originaria nonostante il vigoroso lavorio delle mandibole, mentre a ogni tentativo di inghiottire il purè si ritrovarono la lingua incollata al palato. Disperati, senza aprire bocca si divisero il contenuto dell’insalatiera, bene attenti a non farsi vedere da Kamala, troppo impegnata a lucidare il fornello e i ripiani, già perfettamente puliti. Approfittarono della sua breve puntata in bagno per raccogliere ciò che avevano nel piatto in un tovagliolo di carta e seppellirlo nella spazzatura, precipitandosi poi a tavola con i piatti vuoti mentre si udiva lo scroscio dello sciacquone. Quando Kamala tornò in cucina, aveva i capelli ben lisciati e si era rimessa il rossetto. Si avvicinò al lavello, riempì la tazza di metallo che teneva sempre lì accanto e inclinò la testa all’indietro, lasciando che l’acqua le ricadesse in bocca con un getto potente. Quando la posò, le sue spalle si abbassarono un poco.

«Com’è?» domandò, senza voltarsi.

«Buono» disse Akhil, e Amina mormorò qualche parola di apprezzamento.

«Ai piatti ci pensiamo noi» si offrì Amina.

«No, no. Voi salite di sopra. Dovete essere stanchi».

Sparecchiarono. Akhil mise da parte un piatto per suo padre mentre Amina passava la spugna sui ripiani bianchi della cucina. Quando ebbero finito, entrarono con molta cautela in soggiorno e si sedettero ai lati della madre a guardare un episodio di Hill Street giorno e notte e poi il notiziario delle dieci. Con la coda dell’occhio, perché avevano deciso di non guardarla in faccia, si accorsero che perdeva lentamente esuberanza, prima nell’umore e poi nell’atteggiamento. Alle undici si era profondamente addormentata sul divano, la coda storta, la bocca aperta in una smorfia rilassata.

«La svegliamo?» sussurrò Amina.

«Casomai dovrebbe svegliarla lui, cazzo» disse Akhil.

Amina si chinò e le strinse la mano. Le palpebre viola si sollevarono con un fremito.

«Cos’è successo?» Sua madre si rizzò a sedere, l’alito inacidito dal sonno.

«Dovresti andare a letto».

Kamala si guardò intorno e il suo sguardo si posò sulla poltrona vuota.

«Che ore sono?» domandò.

«È tardi» disse Akhil.

Formarono una strana processione in corridoio, Akhil guidava la fila, Kamala lo seguiva quasi in stato di sonnambulismo, Amina chiudeva la marcia cercando di guidare sua madre senza eccedere in tenerezza. Queen Victoria li seguiva fiutando il pavimento. Akhil aprì la porta della stanza dei suoi e Kamala superò la soglia come se fosse a bordo di una canoa alla deriva.

«Buonanotte, mamma». Akhil chiuse piano la porta alle sue spalle.

Amina lo guardò. «Credi che uno di noi due dovrebbe stare con…»

«No» disse Akhil tranquillo, ma in tono determinato. «Io, no».

Doveva scendere? Amina se ne stava distesa a letto e sbatteva le palpebre al buio, in ascolto della zanzariera che si apriva e si chiudeva sulla porta d’ingresso. Thomas era tornato a casa. Dal rumore degli sportelli degli armadietti capì che si stava preparando il suo drink notturno. Sicuramente non voleva compagnia.

Scese lo stesso.

«Papà?»

Da dietro, poté soltanto vederne la testa al di sopra della poltrona di vimini, come un sole sfocato all’orizzonte. Quando lui non disse niente, aprì la porta e uscì cauta sotto il portico.

«Papà?»

Suo padre era seduto, ancora con il camice da chirurgo, e una bottiglia di whisky tra le gambe. «Ti ho svegliato?»

«No». Amina restò su un piede solo, non voleva muoversi né respirare né fare nulla che potesse spingerlo a dirle di tornare a letto. Si guardò intorno in maniera discreta alla ricerca di un punto dove sedersi. Queen Victoria premette il naso umido contro la zanzariera, inspirò profondamente e starnutì.

«Lasciala entrare» disse suo padre.

Amina obbedì, il cane corse da Thomas e gli ficcò il muso nel ventre. Lui si chinò su di lei, dondolando. Restò in quella posizione così a lungo che Amina pensò che si fosse addormentato.

«Perché sei sveglia?» domandò con la testa ancora affondata nel collo di Queen Victoria.

«Io…» Amina gli guardò i piedi, le scarpe eleganti ficcate in un paio di soprascarpe azzurre. «Ero già sveglia. Non riuscivo a dormire».

Thomas raddrizzò la schiena. «Brutta abitudine. Cerca di non prenderla».

Amina annuì e suo padre allungò la mano verso un barattolo da marmellata pieno di ghiaccio. Se lo mise tra le ginocchia e prima di versare inclinò la bottiglia di whisky verso la luce. Quindi bevve un lungo sorso. Queen Victoria si sistemò tra le sue gambe e poi si sedette, guardando Amina con aria stanca.

Le parve pericoloso osservare Thomas così da vicino. Per mesi, era stato una sagoma indistinta che andava e veniva dall’ospedale. Amina non riusciva a stare ferma, ma si sforzò di sembrare a suo agio.

«Allora, come va?» domandò lui.

«Tutto bene. Primo giorno di scuola».

«Oggi?»

«Sì».

Suo padre richiuse gli occhi e scosse la testa. «Merda».

Le borse che aveva sotto gli occhi erano più scure del solito, color fegato e piene di grinze.

«Allora l’estate è finita» disse dopo qualche minuto.

«Già».

Poi si guardò le ginocchia. «Com’è andata? A scuola?»

«Benissimo» disse Amina. «Cioè, insomma, è la Mesa. Non mi è sembrata del tutto uno schifo».

«Che materie hai scelto?»

«Inglese, storia, francese, algebra, biologia, fotografia. Quest’anno si può scegliere fotografia, se alle medie hai fatto arte».

«Ti piace l’arte?»

Amina annuì. Suo padre tacque. Poi allungò le gambe davanti a sé.

«Com’è?» disse Amina indicando il whisky.

Thomas alzò il bicchiere e guardò i cubetti di ghiaccio da sotto. «Quanti anni hai?»

«Quattordici». Avrebbe voluto aggiungere che aveva già bevuto della birra insieme a Dimple, e ogni tanto qualche bicchierino di Baileys con zia Sanji, ma non lo fece.

«Mmh». Lui agitò il liquido nel bicchiere. «Lo vuoi assaggiare?»

Sì, lo voleva assaggiare. Lui si protese e le offrì il bicchiere. Era ghiacciato. Lei lo guardò e rabbrividì. Dall’alto il whisky sembrava bellissimo, il ghiaccio pieno di crepe aveva il colore di un tramonto limpido, il liquido fumava tra le fessure.

«Trattieni il fiato».

Lei inclinò il bicchiere e se lo portò alla bocca. Deglutì e inghiottì. Il primo impatto fu come aria acida, come il sapore metallico che restava in bocca dopo una visita dal dentista. Il calore si diffuse in maniera deliziosa dalle guance alla fronte. Quando espirò, una fiammata la percorse, si spostò dal ventre al cervello e le uscì dalla bocca con un ansito. Deglutì. Respirò ancora. Non si sentiva più le guance. Inspirò tremante e costrinse il proprio corpo a restare immobile.

Suo padre sorrise. «Ti piace?»

Amina gli restituì il bicchiere. «No».

Lui scoppiò a ridere, sorprendendola. Era una bella risata profonda che echeggiò sotto il portico e nella notte; Queen Victoria, che era distesa, si rizzò di scatto, attenta.

«Allora, ti piace la nuova scuola, eh?» Accavallò le gambe e Amina annuì, non voleva rovinare quel momento. Suo padre sembrava compiaciuto. «Che cosa ti piace?»

Lei si guardò intorno e vide le ombre delle falene punteggiare le pareti. «Il campus è carino, direi. Grande. Edifici di mattoni. I professori sembrano forti».

«Bene. Caspita, sei al liceo. Ormai sei grande, eh?»

«Thomas?» Alzarono lo sguardo verso la voce fioca che proveniva dalla porta. Kamala fece una smorfia, insonnolita. «Cosa stai facendo?»

Il sorriso di lui si spense. «Niente. Me ne sto qui seduto».

«Amina, perché sei sveglia?»

Amina si strinse nelle spalle.

Sua madre sospirò.

«Mi dispiace di non essere venuto a cena» disse infine suo padre. «È arrivato un ragazzo. Me l’hanno mandato dal Grants. Ematoma subdurale».

Qualche fruscio, silenzio.

«Non fare quella faccia. Kamala, ho detto che ci avrei provato, non ho promesso niente».

Kamala scoppiò in una risata sottile. «Tu non prometti mai niente».

«Cosa vuoi che ti dica?»

«Avevo detto ai ragazzi che saresti venuto».

«Allora dirò ai ragazzi che mi dispiace».

«Quando?»

«Quando? Quando ne avrò voglia. Non farne un affare di stato».

«È un affare di stato».

«Kamala, basta. Ho avuto una giornata difficile».

Kamala lo guardò, il dolore sul suo viso era così violento che fu difficile capire come fosse potuto scomparire nel giro di qualche istante, quando i suoi lineamenti si appiattirono nella consueta, quotidiana delusione. Si girò senza pronunciare parola, si allontanò, e il suo corpo scomparve nel buio. Amina si alzò.

«Buonanotte» disse Thomas mentre lei se ne andava, e lei lo salutò poco convinta con un gesto della mano, perché non voleva vedere il viso triste del padre o mostrargli il proprio.