Capitolo ventidue

Joseph aveva sonnecchiato a intervalli, senza mai smettere di tenere d’occhio il ragazzino addormentato. Al minimo movimento o gemito dal letto, si svegliava completamente nel giro di un nanosecondo. Se volevi sopravvivere nelle forze speciali imparavi a fare pisolini ma restare vigile, e durante gli anni passati lontano dal mondo aveva appreso a meditare, il che lo rinvigoriva più di quanto avrebbe mai potuto fare un’oretta di sonno.

Fuori in reparto poteva sentire le infermiere fare avanti e indietro, i campanelli che suonavano e di tanto in tanto qualche voce, mentre nella stanza singola c’era silenzio. Gli ultimi giorni erano stati un’inaspettata altalena di emozioni, ed era bello poter riprendere fiato.

Guardò il petto del ragazzino alzarsi e abbassarsi a ritmo regolare, e decise che aveva fatto bene a trasferirsi a Greenborough. La sua nuova squadra gli piaceva, anche se il capo l’aveva definita disfunzionale. E poi c’era l’ispettore Galena in persona. Non era per nulla quello da cui l’aveva messo in guardia il tamtam. Sì, aveva una lingua al vetriolo, e sì, poteva infastidire la gente in un batter d’occhio, ma era una donna complessa. In lei c’erano parti profonde, oscure e intricate, ma anche intelligenza, accortezza e, soprattutto, compassione. Non affiorava troppo spesso, però era di certo presente. Joseph sorrise e pensò a Dave. In genere veniva considerato un poveretto pigro e trasandato, ma l’ispettore Galena si era impegnata a scavare più a fondo, ed era per quello che adesso Dave lavorava per lei. Joseph non conosceva i dettagli, le sue ipotesi erano una moglie o una madre disabile, ma l’uomo aveva dei serissimi impegni familiari che lo lasciavano esausto e senza il tempo di occuparsi di sé. Se l’ispettore fosse stata davvero la dura megera che così tanti pensavano, non si sarebbe presa la briga di salvare Dave Harris. Poi, certo, c’era Cat Cullen. L’ispettore la prendeva in giro, ma rispettava in maniera sincera i suoi punti di forza, e Joseph aveva visto che effetto aveva avuto sulla ragazza una sua parola di elogio, poche ore prima. Era stata molto importante. Quindi d’accordo, erano una combriccola disfunzionale, e includeva se stesso nella definizione, ma li preferiva rispetto alla maggior parte della gente con cui aveva lavorato. Fece un respiro profondo, espirò lentamente e si chiese se avrebbe avuto la possibilità di restare a Greenborough. Nonostante il caos che lo circondava, quel posto iniziava a piacergli.

Verso le dieci e mezza fece capolino dalla porta e chiese a uno degli agenti di portargli un caffè forte. Per qualche motivo, si sentiva di colpo irrequieto riguardo a Mickey Smith, e voleva mantenersi il più allerta possibile.

Si risedette appoggiandosi allo schienale e sorseggiò, esitando, il liquido bollente. Forse era la consapevolezza che Mickey aveva dei segreti a renderlo tanto nervoso. Se lo sapeva lui, dovevano saperlo anche altri. Forse erano stati proprio quei segreti a farlo finire in Terapia Intensiva. E in quel caso, cosa diavolo sapeva per cui valeva la pena di rischiare una condanna per omicidio?

Il ragazzo si mosse, scomodo, poi urlò, di dolore e paura.

«No! Mi dispiace! Non farmi male! Mi dispiace!».

«Ehi, va tutto bene, Mickey. Adesso sei al sicuro».

«Sergente Joe! Non lasciare che mi faccia male di nuovo».

«Non lo permetterò a nessuno, figliolo».

Le urla si smorzarono in singhiozzi.

«Chi ti ha fatto del male, Mickey?»

«L’uomo per cui lavora il mio amico», sussurrò lui.

«Chi è questo amico?»

«Marcus. Marcus Lee».

«E sai come si chiama l’uomo per cui lavora Marcus?»

«Si fa chiamare Fluke». S’interruppe e fissò con aria addolorata il suo nuovo amico. «Il nome vero non lo so, ma so dove vive».

Joseph fece un respiro profondo, riempiendosi i polmoni di ossigeno. Naturale che fosse in pericolo! «E Marcus, ha aiutato anche lui Fluke a farti del male?».

Le lacrime sgorgarono di nuovo. «No, sergente Joe. Ha cercato di fermarlo. All’inizio credeva che Fluke volesse darmi solo una bella scrollata, penso, perché avevo fatto una cretinata con le maschere, ma quando ha visto cosa stava facendo, ha provato ad aiutarmi».

Joseph si sentì scorrere un brivido lungo la schiena, da una scapola all’altra. «E cosa è successo a Marcus?».

Prendendo boccate d’aria nel tentativo di non piangere, Mickey disse: «Fluke l’ha colpito con qualcosa. Qualcosa di pesante. Lui è caduto e non si è più mosso. Poi l’uomo è tornato da me… e aveva… un coltello…». Mickey iniziò a tremare in modo incontrollabile.

«Basta così, ora. Cerca di riposare. È tutto finito. Lascia il resto a noi. Dimmi solo dove vive Marcus, e poi troveremo il tuo amico e faremo in modo di trovare anche questo Fluke».

Joseph andò alla porta e disse a uno degli agenti di entrare. «Resta con lui. Non lasciarlo neanche per un secondo. Io devo fare un paio di telefonate urgenti».

Nikki alzò la cornetta al primo squillo. «Cosa ha detto?», esclamò.

«Sì, non conosce il vero indirizzo di Fluke, ma dice che potrebbe portarci da lui».

«Merda! Non possiamo aspettare. Può convincerlo a descriverle dove sta?»

«Ci proverò, signora, ma dorme di nuovo e gli infermieri non sono troppo contenti che si sia agitato tanto, prima. L’ultima esternazione l’ha proprio messo al tappeto, povero ragazzino».

«Ma dobbiamo trovare questo Marcus Lee, chiunque sia. Potrebbe essere gravemente ferito, forse morto o agonizzante. Dannazione! Finirà mai questa storia?»

«Se ha dei precedenti sarà negli archivi della polizia, ma non se è pulito. Perché non risparmia tempo e chiama Archie? Scommetto quello che vuole che saprà perfettamente dove vive Lee».

«Buona idea, sergente. Ora torni dal suo protetto. A parte tenerlo al sicuro, al momento vale tanto oro quanto pesa. E faccia il possibile per scoprire l’indirizzo di Fluke. Mickey potrà dormire per giorni e avere tutti i fumetti che vuole, dopo che ci avrà aiutato a inchiodare il suo aggressore».

«Lo faccio subito, signora».

Nikki intercettò il commissario nell’istante in cui stava andando via. Lo aggiornò e promise di chiamarlo se fosse successo qualcosa di significativo. Lui si offrì di fermarsi, ma a Nikki non piacque il suo pallore innaturale e decise che l’uomo aveva bisogno di dormire.

Dopodiché telefonò ad Archie, ottenne l’indirizzo di Marcus Lee e poi, dopo averlo ringraziato profusamente, chiamò Yvonne Collins al cellulare.

«Sei riuscita a trovare il tuo informatore?»

«Nessuno sembra averlo visto dall’ora di pranzo, signora». L’agente suonava stanca e preoccupata.

«Ascolta, mi spiace sommarmi ai tuoi problemi, ma potreste fare un salto in via ufficiosa al 201 di Bristow Street? Abbiamo fretta di localizzare un giovane uomo che vive lì, un certo Marcus Lee. Crediamo che possa essere ferito, forse gravemente. Con molta, molta discrezione, Collins, per favore. Non vogliamo allarmare la famiglia in caso si rivelasse un’informazione inaffidabile, d’accordo?»

«Siamo da quelle parti proprio adesso, signora. La richiamerò. Oh, signora, questa sera nel quartiere tira una brutta aria».

«In che senso?»

«Difficile capirlo, è molto inquietante».

«Informerò il sergente della lieta novella, come se non fosse già abbastanza stressato! Ci sentiamo presto». Chiuse la chiamata e percorse a grandi passi il corridoio diretta verso l’ascensore. Se Mickey aveva ragione, quella era la prima volta che Fluke mostrava le carte e veniva effettivamente identificato. Non che avesse previsto che Mickey sarebbe rimasto in giro abbastanza a lungo da puntare il dito. Nikki si fermò di scatto. Era indispensabile che Fluke non scoprisse che Mickey era sopravvissuto all’aggressione! Rifletté per un istante. Quel caso era già costellato d’inganni, che male poteva fare uno in più?

Riprendendo a camminare, scese nell’ufficio principale per riferire le osservazioni di Yvonne Collins sull’atmosfera nel Carborough, poi si affrettò a tornare nel proprio.

Si trattava di un grosso rischio, ma se la situazione familiare di Mickey Smith era brutta come le avevano fatto credere, poteva essere la soluzione. Si sedette appoggiata allo schienale e rifletté sui passi da compiere. L’unica cosa di cui era abbastanza sicura era che il sergente Easter l’avrebbe sostenuta fino in fondo. Sì, per salvare la vita del ragazzino, avrebbe fatto spargere la voce che Mickey non era sopravvissuto. Poi l’avrebbe nascosto in qualche posto sicuro, finché non avesse sbattuto dentro Fluke.

Un piccolo sorriso si allargò sul suo volto. Sentiva nelle ossa che si stavano avvicinando, e se avessero trovato lui, grazie a Dio, avrebbero trovato anche Frankie Doyle.

«Non è a casa, signora. E la sua famiglia non sembra troppo preoccupata per lui. Marcus ha diciannove anni, e a quanto pare fa quello che gli gira. Gli abbiamo lasciato scritto di telefonare in centrale, se e quando tornerà a casa, ma sospetto che il messaggio sia già nella spazzatura.

«Grazie del tentativo, Yvonne. Continuerete la ricerca del tuo informatore?»

«Dicono sia stato spaventato, capo. E guardando il quadro generale ci sono questioni più urgenti; in più abbiamo bisogno entrambi di dormire».

«Saggio. Andate a casa, e grazie». Chiuse la comunicazione, e s’interrogò su Marcus Lee. Era scappato e si stava leccando le ferite da qualche parte? O Fluke aveva deciso di non lasciare altre questioni in sospeso? Avevano davvero bisogno del suo indirizzo.

Aprì il telefono, poi lo richiuse. Joseph l’avrebbe chiamata non appena avesse avuto qualcosa da dirle, non aveva senso stressarlo, e irritare al tempo stesso il personale ospedaliero.

Iniziò a fare avanti e indietro sul pavimento. Si sentiva come una tigre messa in gabbia. Aveva bisogno di essere in giro a fare qualcosa, non di ritrovarsi bloccata in ufficio ad aspettare lo squillo di quel dannato telefono. Lanciò un’occhiata all’orologio. Si era persa il telegiornale dell’ora di cena, e il commissario aveva preso accordi perché la famiglia Anderson, be’, il signor Anderson, facesse un appello chiedendo che Kerry tornasse sana e salva.

Accese il computer e trovò il canale di repliche dell’emittente televisiva. Già che aspettava, tanto valeva scoprire com’era andata.

Cinque minuti dopo lo rispense. Anderson era stato eloquente e apparentemente distrutto. Sua moglie era rimasta seduta in silenzio al suo fianco, e per tutta la durata dell’intervista era riuscita a sembrare un coniglietto spaventato sorpreso dai fari. Il commissario aveva un volto solenne, in tutto e per tutto un ufficiale superiore con il peso del mondo sulle spalle. E come avrebbe potuto non esserlo? Non c’era stato un solo avvistamento confermato di Kerry nell’intera zona, e niente da nessuna delle altre contee.

Kerry Anderson era uscita nella notte ed era scomparsa senza lasciare traccia.

Nikki andò nell’ufficio del Dipartimento di Investigazione Criminale e fissò la lavagna trasparente delle prove con scritte le parole GIOVANE MASCHIO BIANCO NON IDENTIFICATO.

Mickey Smith. Poteva essere il loro bambino d’oro. Era giovane, curiosissimo, solitario e indagatore. Passava quanto più tempo possibile fuori di casa, ed era quasi sicura che sapesse più cose sul Carborough e sui suoi abitanti di Archie Leonard.

Con lo sguardo percorse la lavagna e si fermò su una foto che la faceva rabbrividire ogni volta. Raffigurava una giovane donna, alta circa un metro e settantacinque, non scheletrica ma di certo neanche sovrappeso. Aveva i capelli corti, di un generico castano grigiognolo, e occhi di un colore cattivo, qualunque esso fosse. Sotto c’era il nome FRANKIE DOYLE: la donna che aveva sospeso la vita di sua figlia, forse per sempre.

Nella stanza c’erano ancora degli agenti al lavoro. I telefoni stavano squillando e le stampanti ticchettavano e ronzavano, ma Nikki era persa in un luogo privato, dove Hannah era l’unica cosa a occupare la sua mente. Conosceva i tristi dati riguardanti lo stato vegetativo persistente, e sapeva che se si fosse protratto ancora a lungo l’ospedale le avrebbe posto quella domanda terribile. La domanda che non riusciva a prendere neanche in considerazione.

C’erano stati miracoli in passato, quindi perché non un miracolo per Hannah? Dove c’era vita c’era sicuramente speranza. Era quello che dicevano tutti, ed era certa che Joseph sarebbe stato il primo ad abbracciare quel vecchio proverbio. Anche se non sembrava ritenerlo applicabile alla propria figlia, Tamsin.

Joseph. Nikki corrugò la fronte, e si chiese perché desse importanza alla sua opinione. Lo conosceva da pochissimo, eppure, no, non era il momento. Rivolse la schiena alla lavagna e tornò di corsa in ufficio. Mentre apriva la porta, il telefono si animò con uno squillo.

«Ispettore Galena. Spero proprio che sia lei, Joseph Easter!».

«Strano a dirsi, ma è così, signora».

Nikki sentì l’eccitazione nella sua voce. «Quindi, cos’ha per me?»

«Prima di tutto, una descrizione precisa di Fluke».

Lei scarabocchiò tutto quello che diceva. «E che altro?»

«Ho ristretto il suo indirizzo al raggio di due o tre case».

«Fantastico! Spari, e manderò subito un agente e una squadra armata».

«D’accordo, questo è quello che dice Mickey. Dopo il semaforo di Main Ridge, bisogna scendere lungo Haltoft Lane, poi entrare in Fishmere Crescent. Lì c’è una piccola strada senza uscita, non ricorda come si chiama, ma ci sono solo sei o sette casette a schiera. Fluke sta in una di quelle centrali. Ha una porta d’ingresso blu».

«Parla delle case di Carson Villas. Un posto discreto, nascosto, perfetto!». Nikki sospirò di sollievo. «Se quel ragazzino fosse qui, lo abbraccerei!».

«Con tre costole rotte, lui non la ringrazierebbe».

«Joseph, mi serve la sua opinione su una cosa».

«Mi dica, signora».

Nikki si lasciò cadere contro lo schienale e gli parlò della “finta morte” di Mickey Smith.

Per un po’, Joseph non fece commenti, portandola a pensare che forse si era sbagliata sul suo conto, poi disse: «Chiederò al dottore quando sarebbe orientativamente sicuro spostarlo. Non è soltanto una buona idea, signora, ritengo che sia essenziale metterlo al sicuro». Fece una pausa, poi aggiunse: «E a essere sincero, non penso che qui lo sia».

Nikki irrigidì le spalle. «Perché?»

«Istinto, signora».

«Giusto. Per me è sufficiente. Faccia cambiare il nome negli archivi dell’ospedale, e parli col dottore, in via strettamente confidenziale, capito? La stampa non deve essere aggiornata sui suoi progressi. Per quanto riguarda i media, è ancora in condizioni gravissime, e noi non abbiamo idea di chi sia. Devono credere che non conosciamo la sua identità, è essenziale». S’interruppe. «E, Joseph, so che in qualche modo si sente personalmente responsabile nei confronti di quel ragazzino, ma deve dormire un po’ anche lei. Vorremmo pensare il contrario, ma siamo pur sempre umani».

«Parli per sé, signora. Vado a cercare il dottore».