Capitolo sedici

«Sono distrutto!». Niall chiuse la porta della cella in faccia a una ragazzina urlante e vi si appoggiò contro di peso. «Giuro, le femmine sono peggio dei maschi!».

Yvonne lo guardò con un sogghigno. «Devo ammettere che questa era un esemplare particolarmente combattivo».

Niall storse la bocca. «Sarebbe anche divertente, se solo Greenborough non stesse cominciando a sembrare più una zona di guerra che una pacifica cittadina mercantile. Prendiamo un caffè prima che ci rimandino là fuori».

Mentre si avvicinavano alla macchinetta del caffè, videro Cat Cullen che li salutava.

«Ehi, ragazzi! Avete un minuto?»

«Certo, vuoi un caffè?», rispose Niall.

«No, grazie lo stesso». Gli occhi di Cat parevano insolitamente dilatati. «Nelle ultime ventiquattro ore ho bevuto così tanta caffeina che c’è buona possibilità che non chiuda mai più occhio! Ora, cosa sapete di questo bel tipetto?».

Mostrò loro una foto.

«Oh, cielo, con quelle orecchie somiglia alla Coppa d’Inghilterra, vero?». Yvonne tenne la foto a distanza di braccio, poi sorrise. «È Petey Redfield. Tag da graffitaro: Piet. Vive al Carborough con la sorella sposata, Rene. Mamma in comunità di recupero, papà in prigione». Yvonne restituì la foto a Cat. «Non crea grossi casini, e non ha precedenti, il che è una specie di miracolo considerando la famiglia. Il suo unico problema è che non riesce a tener lontani i suoi luridi ditini dal nebulizzatore di una bomboletta spray». Fece una smorfia. «L’ho fermato un paio di volte e fatto due chiacchiere con il suo preside. Un vero peccato, a scuola ritengono che potrebbe essere un ottimo studente d’arte. Ha il talento e la capacità di apprendimento, ma…».

«Sì, ho inquadrato la situazione», disse Cat. «Nessuna attenzione a casa, nessuna guida genitoriale e nessun sostegno. Così esce e si fa notare con una bomboletta spray. Con chi gira?»

«Qualche altro graffitaro. Nessuno di pericoloso».

Niall sorseggiò il caffè rumorosamente. «In effetti, ha molto talento. Se io sapessi dipingere come lui, non me ne starei appeso a qualche ponte della ferrovia, proverei a entrare al college».

«Sì, be’, è proprio quella la differenza, amico, e la ragione per cui tu hai un’occupazione redditizia, e lui se ne sta appeso a un cazzo di ponte con una bomboletta stretta tra i denti! Hai l’indirizzo della sorella?»

«Il 43 di Tennyson Buildings. Lei si chiama Rene Wilson», rispose subito Yvonne.

«Con te intorno non ci servono proprio gli archivi del Police National Computer», disse Niall, scuotendo il capo incredulo. «C’è qualcosa di Greenborough che non sai?»

«Non so chi ha rapito Kerry Anderson, e quello è l’unico nome che ci serva davvero, no?»

«Più quello di chiunque abbia ucciso l’altra ragazza», sussurrò Niall. «È vero che quando l’hanno trovata indossava una di quelle maschere da topo?»

«Pare di sì», disse Cat. «Ma nessuno dice niente, quindi ti consiglio di chiudere il becco e tenerlo per te».

«Questo il becco ce l’ha sempre aperto», borbottò Yvonne. «Un giorno lo farà finire nella merda».

«Nah!». Niall fece un gran sorriso. «Sono solo un entusiasta, ecco tutto. Ora, se hai finito di bere, andiamo a incastrare qualche cattivo!».

Yvonne sollevò gli occhi al cielo. «C’è spazio nel tuo dipartimento, Cat? Pagherei una bella somma per entrarci! In effetti…».

«Collins! Farrow! Portate il culo in auto! Hanno aggredito gravemente un ragazzino», urlò il sergente alla reception.

«Dove, sergente?», urlò Yvonne, correndo verso la porta.

«Proprio dietro l’angolo, nel campo giochi accanto al fiume».

«Conti su di noi, sergente! Stiamo arrivando!».

«Crede che ci si possa fidare di Leonard, signora?». Joseph si appollaiò sul bordo della scrivania di Nikki.

«Io mi fido. Se dice che ci aiuterà, lo farà». Nikki prese un sorso di caffè, poi lanciò un’occhiata all’orologio. «Merda! Devo essere in ospedale».

«Vengo con lei?»

«No, sergente. Non c’è bisogno di entrambi per questo lavoro infelice. E poi proverò a scambiare qualche parola in privato con Archie, dopo che avrà visto Lisa Jane». Si alzò e prese la giacca. «Lei si aggiorni con Cat e controlli la pista del ragazzino graffitaro. Vada a cercarlo, se vuole, anche se dubito che sarà seduto in casa a giocare a Scarabeo con la nonna».

«È improbabile, ma farò un tentativo, signora».

«E se non riesce a trovarlo, si faccia un giro per il quartiere, veda quante nuove opere d’arte sono spuntate con un collegamento alle maschere». Si fermò sulla soglia. «Poi vada a casa e si faccia un sonnellino. Per oggi abbiamo avuto la nostra bella dose di momenti traumatici».

Joseph la guardò intensamente. «Se la sente di rivedere Lisa Jane? Posso andare io, se c’è bisogno».

«Me la caverò. Non è stata la ragazza a turbarmi, sergente». Lei rifletté un momento, chiedendosi quanto ancora fosse pronta a condividere con quell’uomo insolito. «Era solo la situazione in generale. Quella penombra tetra, la sporcizia dappertutto, il…». Rabbrividì. «Il modo in cui sono caduti i suoi capelli». Poi seppe di avere detto abbastanza. Forse troppo. Scosse la testa, nel tentativo di impedire il ritorno degli orribili ricordi della morte di Emily Drennan. «All’obitorio, non mi farà nessun effetto. E se faccio aspettare Archie, potremmo ritrovarci senza accordo». Uscì in fretta dalla stanza, poi urlò: «E a proposito, ben fatto con Archie. Sono certa che si sia reso conto che è nel nostro interesse mantenere il silenzio sulla morte della figlia di un gangster, ma lei l’ha messa splendidamente, perfino io ho creduto che stesse pensando solo a lui!».

Gli lanciò un raro sorriso, e corse giù per il corridoio.

Joseph andò alla scrivania e si connesse al computer.

«Ho ottenuto l’informazione che voleva, sergente».

Sollevò lo sguardo per vedere Cat che sogghignava. Era una tipa strana, ma se toglievi gli abiti provocanti, il trucco e i capelli a spazzola c’era in lei qualcosa di quasi infantile e piacevole.

«Fantastico! Che cosa abbiamo?». Joseph prese la foto e la stampata che gli porse.

«Solo un ragazzino strambo, in realtà. Di lui si occupa la sorella, ed è pulita anche lei. Sono i genitori che preferirebbe non incontrare. Proprio due brutti personaggi. Uno è dentro e l’altra si sta disintossicando».

Joseph diede una rapida lettura ai precedenti, sollevando sorpreso le sopracciglia davanti alle pagelle del ragazzino, poi disse: «Ti va di fare un salto dal nostro Rembrandt? Devo sapere se il suo ultimo capolavoro è stato un’idea sua, o se qualcuno l’ha pagato per farlo».

Cat storse la bocca. «Mi spiace, sergente, ma sono bloccata qui ad aspettare notizie sulla fabbrica di maschere».

«Oh, be’, ormai sto imparando a orientarmi al Carborough. Grazie per questo, comunque».

«Un piacere». Lei gli rivolse un sorriso birichino e tornò alla sua scrivania.

Joseph spense il computer. Doveva davvero andare al quartiere, ma, a dirla tutta, era preoccupato per il suo nuovo capo. Aveva già visto attacchi di panico in passato, ne aveva anche sperimentati un paio lui stesso, ma quello dell’ispettore era stato brutto, e si chiedeva cosa diavolo le fosse accaduto.

Si alzò bruscamente. Qualunque cosa fosse, non erano affari suoi. In nessun caso avrebbe dovuto curiosare negli incubi di Nikki Galena. Gli bastava doversi occupare dei propri. Spinse la sedia sotto la scrivania e prese le chiavi dell’auto. Non poteva rimandare oltre la visita al Carborough. Gridò un breve saluto a Cat, poi scese le scale.

Mentre passava davanti alla reception il sergente di turno urlò: «Scusi! L’ispettore Galena è ancora in giro?»

«Mi spiace, no. È in ospedale».

«Oh, questo sì che potrebbe farci comodo. C’è qualcosa che penso dovrebbe vedere».

«Posso essere utile?»

«C’è stata un’aggressione a un ragazzino. È in condizioni abbastanza gravi».

«Al Carborough?», chiese Joseph.

Jack Conway scosse la testa. «No, non lontano da qui. C’è un campo giochi per ragazzini, giù accanto al fiume. Un dog sitter l’ha trovato nei cespugli. Ho pensato che l’ispettore dovesse saperlo perché, a quanto riferiscono i miei uomini sulla scena del crimine, è di nuovo collegato alle maschere».

«Oh, che sorpresa!». Joseph gonfiò le guance. «Senta, meglio non chiamare l’ispettore, si sta occupando di un’identificazione e quindi avrà probabilmente il cellulare spento. Vado all’ospedale e glielo dico di persona, così poi potremo andare direttamente a vedere la vittima».

«Va bene, signore», disse il sergente Conway. «Se non è un problema».

«Abbiamo il nome del ragazzino?»

«Non ancora. Non aveva documenti identificativi».

«E qual è la connessione con le maschere?»

«Ne indossava una». L’espressione di Jack Conway si oscurò. «E temo fosse l’unica cosa che aveva addosso, signore. Era stato spogliato».

Jack digrignò i denti. «Poveretto! Quanti anni pensano che abbia, i suoi agenti?»

«Difficile a dirsi, si è preso una bella legnata. Forse dodici, tredici?»

«Che diavolo sta succedendo qui?».

Jack Conway sembrava quasi grigio di stanchezza mentre scuoteva la testa e rispondeva: «Vorrei saperlo, sergente Easter, lo vorrei davvero».