Capitolo venti
Quando Nikki entrò nel reparto di Terapia Intensiva, si trovò davanti dei volti familiari. Quello era uno dei pochi posti in cui la conoscevano di rado come ispettore, ma semplicemente come la mamma di Hannah.
«L’avevamo quasi perso», disse la suora, scuotendo il capo. «Ma è un diavoletto dalla pelle dura. I dottori sono quasi sicuri che questa volta riusciremo a mantenerlo stabile».
«Gli avete tolto il respiratore?», chiese Nikki.
«Sì, e sta tenendo duro. Stiamo solo aspettando l’anestesista, poi lo risveglieremo». Leah la guardò, gli occhi pieni di compassione. «E considerando il tuo precedente coinvolgimento in questa procedura, abbiamo deciso di comune accordo di farti aspettare fuori, per quella parte. Ti chiameremo quando è compo mentis, d’accordo?»
«Siete tutti molto premurosi», disse Nikki, «e lo apprezzo davvero, ma oggi sono qui in veste di poliziotta. È imperativo che io ascolti tutto ciò che ha da dire».
«Potrebbe essere comunque abbastanza traumatico, per te». Leah sembrava preoccupata. «Verrò a prenderti non appena sarà stabile, lo prometto».
Nikki alzò le mani in una resa silenziosa, e avvertì segretamente una scarica di sollievo. Dopo l’attacco di panico nel fienile, ancora non si fidava del tutto delle sue emozioni.
«Suppongo che non abbiate avuto fortuna nello scoprire chi è, giusto?», stava chiedendo Leah.
«Per ora nulla. Da non credere, vero?»
«Un bambino così bello, poi. Be’, lo era prima che qualcuno decidesse di scolpirgli una faccia nuova».
Nikki rabbrividì. «Non riesco neanche a immaginare cosa potrebbe aver fatto per meritare un pestaggio tanto brutale».
«Speriamo di scoprirlo presto, così potrete prendere quell’animale del colpevole». La suora guardò in direzione della porta. «Devo andare. L’anestesista è arrivato. Tieni le dita incrociate, Nikki. Io uscirò il prima possibile, va bene?».
Nikki guardò l’infermiera allontanarsi in fretta, poi tornò in sala d’aspetto a cercare Joseph.
Al suo ingresso lui si alzò in piedi e, in qualche modo, quel semplice gesto la commosse. Potevano essere soltanto le sue innate buone maniere, o il senso di rispetto inculcato dall’esercito verso un ufficiale superiore, in ogni caso, la fece sentire meritevole. Ed era un cambiamento piacevole rispetto al tipo di trattamento che riceveva di solito.
«Come sta il ragazzo?».
Lei si accasciò su una sedia. «Stanno per risvegliarlo. È un momento critico, può succedere di tutto, e non tutte le opzioni sono positive».
Joseph si sedette al suo fianco. «Dev’essere l’inferno, per lei».
Nikki si guardò intorno nella sala deserta. «Mettiamola così: non avrei mai voluto passare di nuovo quello che ho passato con Hannah, soprattutto con qualcuno a cui voglio bene». Gli rivolse un sorriso triste. «Ma ora come ora, non riesco a pensare ad altro che a quel ragazzino lì dentro».
«Quanto dura la procedura?»
«Non molto. Gli anestetici che usano al giorno d’oggi sono attentamente somministrati in base al paziente, in modo da farlo uscire dalla sedazione con grande facilità. È solo che per qualche motivo i maschi spesso oppongono resistenza, e prima di farcelo vedere vorranno essere sicuri che sia tranquillo e fuori pericolo. Per fortuna, a parte l’emorragia che hanno drenato, non hanno trovato lesioni gravi sull’ecografia». Nikki fece una pausa. «Ma finché non lo svegliano e non fanno qualche esame, non hanno idea di quali ripercussioni ci saranno».
«Le hanno detto quali altre lesioni ha riportato?»
«Naso rotto. Una lacerazione profonda alla guancia destra. Tre costole rotte e lo sterno incrinato, in aggiunta a un ematoma esteso sull’addome e sulla zona dell’inguine. E questo senza contare il trauma cranico».
«Poi scaricato nudo nei cespugli, presumibilmente a morire». Il volto di Joseph s’indurì. «Che cosa spinge alcuni di questi animali?»
«La droga». Nikki sputò quasi quella parola.
«Sì, immagino di sì. E anche alcol, e odio, e violenze subite, e negligenza».
«Ma soprattutto la droga». Nikki affondò ancora di più nella sedia. «Lo so che gli altri in centrale mi credono ossessionata, e forse lo sono. Ma vedendo il danno che può fare, le famiglie smembrate, e il totale spreco di giovani vite, può davvero biasimarmi, Joseph?»
«No, non posso. Ma se noi lo vediamo tutti i giorni nelle strade, per lei è molto peggio, perché l’ha ferita a livello personale».
«Non si tratta solo di Hannah. Anche se Dio sa che sarebbe bastato quello per strappare il cuore a qualunque genitore».
«Il suo brutto caso?», chiese Joseph in tono esitante.
Nikki annuì. «Il mio brutto caso». Guardò il sergente, e vide un volto pieno di compassione. Non una forma di pietà condiscendente, ma la semplice comprensione che un’anima ferita può provare nei confronti di un’altra. «Perché non va a prendere un caffè per entrambi, così le racconto di Emily Drennan».
Quando Joseph fu tornato a sedersi, Nikki si appoggiò allo schienale, le gambe distese in avanti, chiuse gli occhi e permise a un’adolescente dai capelli castani di riempirle i pensieri. «Emily Drennan era estremamente intelligente, veniva da una buona famiglia senza problemi economici, ed era davvero bellissima. Era la figlia di un medico del posto, ed era riuscita ad accedere all’università di Durham. Ma questo prima di incontrare l’amore della sua vita».
Joseph prese un sorso di caffè e la fissò da sopra la tazzina di polistirene.
«Stephen Cox era conosciuto ai più come un calciatore di successo di Greenborough Town. Noi lo conoscevamo come un delinquentello aggressivo, bravo con i piedi, ma parecchio anche con i pugni».
«Non mi piace dove sta andando questa storia», borbottò Joseph.
«Cox ottenne un ingaggio in una squadra di serie A, e i soldi iniziarono ad arrivare. Riesce a farsi il quadro? Contratti di sponsorizzazione, auto veloci. Gli mancava soltanto una bella donna sottobraccio e, curiosamente, il nostro Stevie non sembrava tenersi mai a lungo nessuna ragazza. Finché non incontrò Emily». Nikki puntò lo sguardo nel caffè. «Non ho idea di cosa sia successo quando si sono conosciuti, ma qualcosa è accaduto, qualche strana attrazione degli opposti, forse. Lei era completamente infatuata di lui, e lui ha visto qualcosa in lei, qualcosa che poteva controllare, qualcosa che poteva possedere».
«Lei conosceva Emily, prima che incontrasse questo Stephen Cox?»
«Oh, la conoscevo. Aveva tre anni più di Hannah, ma i Drennan vivevano nel mio stesso paesino. Da piccole, le ragazze giocavano insieme. Emily era la bambina più dolce che avessi mai incontrato. Hannah era sempre quella combattiva, quella che protestava ogni singola volta che le chiedevi di fare qualcosa, ma Emily si limitava a sorridere e ubbidire».
«Ha sposato Cox?».
Nikki aspettò un istante prima di rispondere, e dal pannello di vetro della porta guardò due infermiere entrare di corsa nel reparto di Terapia Intensiva. «No, non si sono sposati. Non penso che sia mai stato quello l’obiettivo di Stephen. L’ha convinta a trasferirsi da lui, poi ha dato inizio al lungo e lento processo di distruzione». Nikki fissò impassibile la porta del reparto. «Era quasi un anno che non la vedevo, poi una sera stavo staccando dal servizio quando arrivò una chiamata: qualcuno aveva sentito piangere in un edificio abbandonato nei pressi del porto. Tutti quelli del turno successivo erano impegnati, c’era stato un incidente stradale gravissimo, così mi sono offerta di andare io».
«Emily?».
Non era semplice. Nikki aveva raccontato solo due volte quello che aveva trovato: una per il verbale e una a Rick Bainbridge, davanti a un grosso bicchiere di scotch. Aveva rifiutato la terapia, e non aveva mai più permesso a nessuno di toccare l’argomento, compresa la sua famiglia. Cosa che, a lungo termine, sapeva essere stato un grosso errore.
E in quel momento, si preparava a denudare l’anima di fronte a un estraneo. Ma era estraneo sul serio? Lo guardò, pensierosa, e si chiese come fosse successo. Dal primo istante in cui il commissario gliene aveva parlato aveva deciso che non sarebbero andati d’accordo. Aveva desiderato odiarlo perché si era intromesso nel suo regno. All’inizio, una parte di lei non vedeva l’ora di trovare una scusa per farlo scappare di nuovo a Fenchester. Ma poi…
«Non è costretta a farlo», disse Joseph in tono gentile. «Più un dolore rimane sepolto, più è difficile portarlo in superficie».
«Ma non si dovrebbe lasciare una persona bella come Emily Drennan sepolta in una cantina, no?», disse Nikki. «Merita di essere portata alla luce».
E pensando a quelle parole, Nikki si fece coraggio e scivolò di nuovo nel passato.
«C’è qualcuno?». La sua voce echeggiò nel seminterrato alto e cupo del vecchio magazzino. «È la polizia. Sono qui per aiutarti».
All’inizio non sentì nulla, a parte lo sgocciolare dell’acqua e lo zampettare sporadico di qualche topo. Poi avvertì il suono fievole di un singhiozzo. Facendosi strada con prudenza tra le macerie dell’edificio deserto, avanzò nella direzione da cui era giunto il lamento. «Non temere, non ti farò del male! Riesci a sentirmi?».
I singhiozzi stavano diventando più forti ma, agitando il raggio della torcia, Nikki si rese conto di stare camminando sotto delle travi pericolosamente marcie. Il pavimento sovrastante era crollato in diversi punti, spargendo schegge di legno e pezzi di muro dappertutto. Forse gridare non era poi una buona idea.
Nikki si fermò per orientarsi, e si guardò intorno. I raggi di sole del tardo pomeriggio penetravano attraverso gli squarci nel pavimento del pianterreno, filtrando nella cantina. S’intersecavano nel seminterrato buio e cupo come un gigantesco labirinto di luce dorata. Se quello spettacolo non fosse stato tanto infido, sarebbe apparso forse bellissimo.
«Quaggiù». La voce era tremula e debole.
«Dove sei? Sei ferita gravemente?».
Per un istante le parve di sentire una risata. Ma non era una risata felice, o di sollievo per la vicinanza dei soccorsi. Era un suono che le gelò il sangue nelle vene, un suono che avrebbe sentito per anni a venire, nel cuore della notte, mentre il sonno le sfuggiva.
«Aiutatemi». Era una voce di ragazza.
«Ti aiuterò, non preoccuparti». Nikki aggirò un cumulo di mattoni rotti, e la vide.
La ragazza giaceva a terra, rannicchiata in posizione fetale, tra lo sporco e i rifiuti sparsi sul pavimento della cantina. Una caviglia era storta in modo innaturale, lontana dal corpo, ma lei non sembrava esserne neanche consapevole. Piangeva sommessamente, sussurrando un nome, più e più volte. «Stevie. Stevie. Stevie».
«Adesso sei al sicuro, tesoro». Nikki si lasciò cadere al suo fianco. «Puoi dirmi come ti chiami?»
«Stevie? Oh, sapevo che non mi avresti abbandonato». La voce era poco più di un sospiro smorzato.
Nikki provò ad accendere la radio ma non riuscì a prendere un segnale. «Devo trovare un punto dove funzioni la radio. Tu resisti, io torno subito, d’accordo?».
Si arrampicò goffamente verso uno degli squarci nel soffitto e riuscì a inviare un messaggio debole e a singhiozzo per richiedere un’ambulanza e qualche aiuto.
Quando fece ritorno il pianto era cessato. Lei crollò sul pavimento accanto alla ragazza e le massaggiò con delicatezza i polsi. «Andiamo, tesoro. I paramedici arriveranno presto. Uscirai di qui in un batter d’occhio. Io sono Nikki, puoi dirmi come ti chiami?».
La ragazza si voltò leggermente, e negli occhi vuoti e sul volto smunto di un’eroinomane Nikki vide l’accenno fuggevole di un sorriso. Poi lei disse: «Ho tanto freddo».
Nikki si tolse la giacca e gliel’avvolse intorno alle spalle esili. Tossica o no, quella ragazzina sarebbe stata fortunata a scamparla. Doveva fare tutto il possibile per lei. «Ecco qui. Resisti solo un altro po’».
«Grazie, signora Galena». La ragazza ebbe un fremito, poi sussurrò: «Sono Emily. Emily Drennan».
Nikki riaprì gli occhi di scatto e vide l’espressione preoccupata di Joseph.
«Non l’avevo neanche riconosciuta!». Scosse la testa con violenza. «È stato orribile! Finché non ha detto il suo nome, allora ho visto qualcosa di familiare in quel volto devastato. Quel bastardo aveva preso una bella, bellissima bambina e aveva annichilito ogni sua parte incantevole».
«E l’ambulanza non è arrivata in tempo, vero?», chiese Joseph.
«L’incidente stradale di cui parlavo? Era tutto bloccato. È morta tra le mie braccia», disse Nikki con un sospiro lungo e doloroso.
«E Cox l’avete preso?»
«È incredibile quello che riescono a fare i soldi, Joseph. Ha recitato la parte del compagno addolorato, ed è riuscito a tirare dalla sua il direttore di qualche giornaletto da due soldi. Storie vomitevoli su come aveva cercato di farla smettere con l’alcol e le droghe». Il volto di Nikki si contrasse dal disgusto. «Ma la cosa peggiore di tutte era il fatto che lei l’aveva amato. È morta convinta che sarebbe tornato per lei. Come facevi a montare un caso quando Cox tirava fuori una decina di testimoni pronti a dimostrare quanto l’avesse amata?».
Joseph fece un respiro profondo, poi alzò un sopracciglio. «Ma immagino che lei non abbia lasciato perdere».
«L’ho braccato. Dovunque andasse, trovava me che lo guardavo. Ho trascorso ogni singolo momento, sia al lavoro sia fuori servizio, a perseguitare quel piccolo assassino crudele. E poi ho colpito i suoi spacciatori, e colpito duro. Alla fine, se n’è andato da Greenborough. L’ultima volta che ho sentito parlare di lui, era in una comunità di recupero e aveva finito i soldi».
«Bene. Il karma funziona così. Raccogli ciò che semini».
Nikki prese il caffè che si stava freddando e lo bevve in un sorso solo. «E adesso mi chiedo: se avessi saputo che quella mia faida avrebbe distrutto il mio matrimonio e fatto finire la mia unica figlia nell’Unità Stati Vegetativi, l’avrei lasciato semplicemente andare?»
«Ne dubito. Date le circostanze, facciamo quello che riteniamo giusto sul momento. È l’unica cosa che possiamo fare. Il fatto che dopo ci tormentiamo e cerchiamo una morale significa quantomeno che abbiamo una coscienza, ed è questo a distinguerci da chi se ne frega». Scrollò le spalle e le rivolse un sorriso amaro. «Mi creda, ci sono cose che avrei fatto diversamente, con il senno di poi, ma non puoi passare la vita a interrogarti di continuo sulle ripercussioni che potrebbero verificarsi».
«Sono certa che lei abbia ragione, ma perché mi sento lo stesso tanto in colpa?». Nikki guardò dal vetro della porta. «Finalmente! Leah ci sta facendo segno con il pollice alzato. Possiamo andare a vedere il ragazzo».
«Sta dormendo naturalmente, adesso, e la respirazione è regolare», disse la suora, premendo con delicatezza le dita per sentire la pulsazione del ragazzo. «Potete stare con lui finché non si sveglierà di nuovo».
«Ha parlato, Leah?»
«Solo per dirci che si chiama Mickey. Sa di essere stato aggredito, e per ora è tutto. Gli fa male la gola per l’intubazione».
«Non vi ha dato nessun cognome?»
«No, si è fermato a Mickey. E, stranamente, non ha chiesto dei genitori».
Nikki abbassò lo sguardo sul bambino addormentato, e provò per lui un’empatia profonda.
Aveva metà del viso chiazzato di viola, arrossato, con una lunga fila di punti e steri-strip che gli tenevano uniti i lembi di carne strappata della guancia. I capelli biondo grano erano ancora incrostati di sangue secco, e una larga fasciatura gli copriva il setto nasale. Qualunque volto avesse visto riflesso nello specchio quella mattina, se n’era andato per sempre.
Leah O’Keefe notò che guardava la sua faccia. «Gli abbiamo fatto dare un’occhiata dal chirurgo maxillofacciale, e per fortuna la mascella è a posto. Più avanti il chirurgo plastico sistemerà la cicatrice, anche se gli resterà comunque un segno».
«La cicatrice dovrebbe essere l’ultima delle sue preoccupazioni, a quanto pare», commentò torvamente Joseph. «È fortunato a essere vivo».
«Forse dipende da com’era prima la sua vita», rifletté Nikki. «Chiunque sia stato a ridurlo così è ancora là fuori, magari in attesa di finire il lavoro».
«Ammesso che Mickey fosse il vero bersaglio, e non si trovasse soltanto nel posto sbagliato al momento sbagliato».
«Mi spiace, sergente, ma qualcosa mi dice che
la mia teo-
ria è quella corretta. Ora, accosti una sedia e stiamo a vedere,
d’accordo?».
Mickey dormì per una mezz’ora e, quando al risveglio vide i due visitatori, rimase insolitamente silenzioso. I suoi occhi spaventati scattarono dall’uno all’altra, ma non disse nulla.
«Non sei nei guai, Mickey. Davvero. Sei tu la vittima, qui, quindi puoi parlarci liberamente, lo giuro», disse Joseph.
«Esatto», aggiunse Nikki. «Vogliamo solo prendere le persone che ti hanno fatto questo. Devono essere punite per averti fatto del male».
«Vogliamo solo aiutarti, Mickey, capisci?».
Lui continuò a far danzare gli occhi agitati, come cercando il modo di fuggire dalla stanzetta, ma si rifiutò di parlare.
Nikki si appoggiò allo schienale, per non stargli addosso o intimidirlo. Ne aveva passate troppe per svegliarsi e ritrovarsi con un paio di sconosciuti insistenti che lo mettevano sotto pressione.
«Qual è il tuo cognome, figliolo? Sono certo che i tuoi genitori saranno preoccupati a morte per te».
Per la prima volta, Mickey mostrò qualche tipo di espressione. E non fu un’espressione felice. Attraverso le labbra spaccate e contuse, disse con voce aspra: «Che ridere! Non gliene frega un cazzo di me».
Nikki fece un sospiro di sollievo, almeno era perfettamente cosciente della situazione, per quanto spiacevole.
«Su, Mickey. Dobbiamo dire alla tua mamma dove sei», lo esortò Joseph in tono amabile.
«Dovreste prima trovarla». Lui cambiò posizione, scomodo, poi gemette per il fastidio. «Merda! Le mie costole!».
«Resta giù e stai fermo. Il dottore ti darà presto qualche altro antidolorifico. Ora, se solo ci dicessi come ti chiami».
Mickey chiuse gli occhi e non disse nulla.
«Sai chi è stato a farti questo?», chiese Joseph.
Il ragazzo non rispose.
«Perché, purtroppo, finché non otterremo qualche informazione da te, ce ne staremo seduti qui a infastidirti». Gli sorrise dall’alto. «E abbiamo una pazienza infinita».
Mickey scelse comunque di mantenere il silenzio ma, dopo un po’, fece un sospiro tremante, e Nikki notò una lacrima che gli scorreva lentamente lungo la guancia. «Per favore, andate via e lasciatemi stare».
«Non possiamo, tesoro», disse lei con dolcezza. «Permettici di aiutarti».
«Ho paura». Parlava piano, non c’era più traccia della precedente spavalderia.
«Non lasceremo che nessuno ti faccia ancora del male, Mickey. Diremo a qualcuno di stare sempre con te, giorno e notte».
«Non importa. Lui mi prenderà, potete anche mettere un tizio con un Uzi davanti alla porta, lui mi prenderà comunque».
«Chi è lui, Mickey?»
«Non ve lo dico».
Nikki e Joseph si scambiarono uno sguardo, poi lei annuì e indicò la porta con il capo.
Joseph si sporse e toccò con gran delicatezza la mano del ragazzino. «D’accordo, adesso devi riposare un po’, Mickey. Tu dormi, e noi torneremo più tardi. E ci saranno due agenti di polizia fuori dalla porta finché non starai abbastanza bene da spostarti. Capito?».
Il ragazzo fece un cenno impercettibile, poi chiuse gli occhi.
Mentre Nikki e Joseph uscivano dalla stanza, lei vide che le lacrime iniziavano a scorrergli sulle guance e che il petto magro era scosso da singhiozzi sommessi.
«Poverino. È esausto».
«E terrorizzato».
Nikki socchiuse gli occhi. «Con buone ragioni. Conosce il suo aggressore, e sa che non ha ancora finito con lui». Chiuse la porta. «Voglio di guardia i nostri migliori agenti in servizio, e che nessuno sgattaioli via per una pausa sigaretta o passi dieci minuti al gabinetto. Questo ragazzino ha bisogno del cento percento delle nostre forze».
Joseph annuì. «E ce l’avrà. Con il suo permesso, signora, farò io il primo turno, e se qualcuno vorrà fargli del male, dovrà vedersela prima con me».
Nikki fu d’accordo. «Va bene, allora io torno in centrale a organizzare una lista dei turni, e devo controllare se ci sono stati dei progressi su Kerry». Il suo volto s’indurì. «Non voglio pensarlo, ma, a ogni ora che passa, temo il peggio per quella povera ragazzina».