Capitolo undici

Nikki era riuscita a concedersi giusto qualche minuto di sonno, tra tutte le volte che si era rigirata sul divano scomodo. All’inizio, quando era finalmente tornata a casa, si era sentita meglio. Le faceva sempre bene parlare con sua figlia. Ed era sicura di aver visto in Hannah dei segnali di miglioramento. Le infermiere non erano state d’accordo, ma del resto non potevano. Non era compito loro dare quelle che potevano essere false speranze. Ma una madre sapeva la verità, no?

Si era rannicchiata sotto la coperta convinta, come al solito, che un giorno avrebbe riavuto indietro la sua bellissima figlia.

Ma poi erano arrivati i pensieri oscuri. Pensieri su Kerry Anderson. I suoi genitori avrebbero mai potuto riabbracciare la loro bellissima figlia? Il tempo passava, e non avevano ancora niente su cui basarsi.

E poi c’erano gli altri pensieri inquietanti su Joseph Easter. Dopo la rissa al Carborough, continuava ad avere flash sul suo comportamento. In quelle mosse fulminee c’era qualcosa che non andava. E quei successivi commenti sulla sua esperienza da soldato? Nessuno dei soldati che aveva conosciuto avevano mostrato quel genere di riflessi. Ed erano sempre fieri del loro reggimento, molto più che del loro posto nelle forze di polizia. Per quello risultavano spesso sgraditi, perché la loro lealtà andava sempre, prima di tutto, all’esercito. E Joseph non era affatto così.

Mentre chiudeva a chiave la porta d’ingresso e usciva nell’aria del primo mattino, Nikki si chiese se avrebbe dovuto parlarne con Rick Bainbridge. Dopotutto, il commissario aveva fatto qualche commento sul fatto che Joseph era più di quanto appariva. Forse sapeva qualcosa che lei ignorava. Scosse la testa e aggirò un sacchetto della spazzatura aperto, il cui contenuto puzzolente si era riversato sul suo percorso. Proprio non poteva permetterselo, doveva restare concentrata esclusivamente su Kerry Anderson, non interrogarsi sulle dubbie origini del suo sergente. Con un grugnito d’irritazione, accelerò il passo e si diresse verso la stazione di polizia.

Intanto che Nikki andava a lavoro, Marcus e Mickey uscivano silenziosi dal Carborough.

«Il posto di sempre?», chiese Mickey, sforzandosi di tenere il passo con le gambe lunghe di Marcus.

«Questa volta no. Le cose si stanno scaldando, quindi l’hanno cambiato». Il ragazzo più grande appariva quasi smunto nella luce del primo mattino. «E tu sei strasicuro che i tuoi non sospettano niente?».

Mickey corrugò la fronte. «Non gliene frega un cazzo di quello che faccio».

«Sai cosa intendo, scemo! Stai facendo attenzione, vero?».

Mickey si tirò meglio il cappuccio sulla faccia. «Non preoccuparti! Papà è di nuovo attaccato alla bottiglia. È stato a bere fino alle tre, e mamma se l’è filata finché non gli passa la sbornia, quindi è tutto a posto».

«Sarà meglio. Non possiamo permetterci il minimo scivolone». Marcus abbassò la voce. «Soprattutto adesso che è iniziata la guerra».

«La Guerra delle Maschere! Sì!». Mickey fece un saltello e tirò un pugno per aria.

«Zitto, stupido cretino!». Marcus si portò una mano alla fronte e lo fulminò con lo sguardo. «Ne ho fin sopra i capelli di te! Sei un maledetto ostacolo, lo sai? Perché diavolo ho scelto proprio te, tra tutti i ragazzini del quartiere?»

«Perché di me non frega un cazzo a nessuno. E ho un faccino da angelo, il che torna sempre utile».

Marcus fece un sospiro sconsolato. «Sì, probabilmente. Ma per favore, parla piano. In effetti, chiudi il becco e basta finché non arriviamo».

«Dove stiamo andando?»

«Ti ho detto di stare zitto! Lo saprai presto. E sbrigati, abbiamo solo un quarto d’ora per arrivare».

Percorsero in silenzio gli ottocento metri successivi, poi Marcus rallentò il passo e si guardò intorno. Di fronte a loro c’era un passaggio stretto che scendeva alla riva del fiume. Non la parte alla moda, dove chi faceva jogging faticava a riprendere fiato e che i pendolari del mattino usavano come scorciatoia per la stazione, ma un sentiero squallido e pieno di ombre che si snodava sotto un ponte della ferrovia per poi finire dietro una fabbrica di biancheria da letto abbandonata.

«Perfetto», bisbigliò Mickey. «Qui sotto non viene nessuno, se non per pisciare».

Marcus lo ignorò e si avviò deciso verso il tunnel buio. Era quasi scomparso quando Mickey gli corse dietro.

«Vedi qualcosa?»

«Sì, sono qui. Muovi il culo e vieni ad aiutarmi». Marcus si era tolto dalla spalla un borsone Adidas e stava aprendo un grande scatolone. Prese da dentro una grossa busta, poi afferrò una manciata delle solite maschere di gomma. «Ecco, mettitele nello zaino! Non abbiamo molto tempo».

Mickey infilò le maschere nello zainetto e se lo caricò in spalla mentre Marcus chiudeva la cerniera della sua sacca, per poi tornare a sbarazzarsi dello scatolone. Fece a pezzi il cartone e lo inzuppò nell’acqua stagnante del fiume. Quando fu fradicio, lo spezzettò ancora un po’, poi ne infilò i resti sotto alcuni cespugli di rovo sparsi qua e là sulla riva. «Andiamo».

Spingendo il più piccolo di fronte a sé, Marcus tornò verso la strada. «Adesso c’è un altro cambio di programma, faccia da Muppet. Vieni con me, e non fare domande». Gli prese le spalle per farlo girare bruscamente, e lo guardò torvo. «O questo sarà davvero il tuo ultimo lavoro, capito?».

Mickey vide il suo sguardo freddo e capì alla perfezione.

Quando Nikki arrivò in centrale, il parcheggio era zeppo di veicoli, agenti di polizia e volontari, tutti diretti alle paludi e ai luoghi che non era possibile perlustrare di notte.

«Ancora niente?», chiese a un esausto Dave Harris.

«No, signora. Il secondo turno sta uscendo solo ora, si stanno ancora concentrando sul campus e sui terreni paludosi intorno alla marina, dove è stato trovato il telefono». Dave sbadigliò. «Adesso che è tornata, signora, mi prenderei una piccola pausa, se posso».

Nikki si fece largo tra un gruppo che indossava giubbotti ad alta visibilità ed entrò nell’atrio. «Sei stato qui tutta la notte?»

«Sì, signora».

«Ma come fai con…». Si accigliò e abbassò la voce. «Scusa, ma non saresti dovuto tornare a casa da un pezzo?»

«Lei sta bene, signora, ma grazie per avere pensato a noi». Lui le rivolse un sorriso stanco. «Mi sono messo d’accordo con una badante, solo per coprirmi, una cosa a breve termine».

«Ci sono sicuramente abbastanza corpi da setacciare le Fens senza di te».

«Non posso evitare di fare il mio dovere quando c’è di mezzo una ragazzina scomparsa, capo, le pare? E neanche vorrei farlo».

Nikki gli sfiorò leggermente il braccio. «Lo so, ma hai i tuoi problemi, e non spariscono soltanto perché qui sta succedendo qualcosa di grosso. Devi dormire un po’, e prenderti cura di te stesso, hai capito?».

Lo guardò allontanarsi, le spalle cadenti e un’andatura che era più un trascinarsi di piedi. Era l’unica a sapere della sua situazione familiare, e le dispiaceva moltissimo per lui.

«Signora?». Joseph si stava avvicinando a grandi passi lungo il corridoio. «Le ho preso un caffè».

«A che diavolo di ora è arrivato?», chiese lei con qualcosa di simile al fastidio.

«Dieci minuti fa». Lui bilanciò le tazze in una mano e le tenne aperta la porta con l’altra. «Ha dormito?»

«No», rispose lei in tono brusco, desiderando di potergli dire che quell’insonnia era in parte colpa sua. «Ho mandato Dave a casa. Cat è ancora qui?»

«Sì. Sta seguendo una pista sui materiali necessari a creare maschere di gomma. Ha trovato un grossista delle materie prime».

«Bene, e lei cosa ha scoperto dalla vittima dell’accoltellamento di ieri?».

Per un attimo Joseph la fissò con fare pensieroso, poi si lasciò cadere su una sedia. «Be, le maschere spuntano davvero dal nulla. Le lasciano in giro per il quartiere o nelle scuole o nei campi gioco. Callum giura che nessuno sa da dove arrivano».

«E lei gli crede?»

«Non ho motivo di non farlo». Joseph prese un sorso di caffè. «All’inizio faceva il duro, poi, quando ha capito che ero pronto a piazzarmi accanto al suo letto, ha iniziato a parlare, probabilmente solo per liberarsi di me».

Nikki fece un lungo sospiro. «Quindi non le ha detto nulla che non sapessimo già».

«Non proprio. Mi ha dato un nome».

«Che cosa?». Lei si chinò in avanti, impaziente.

«Be’, un soprannome. Non ho ancora avuto modo di fare un controllo».

«E quindi? Quale diavolo sarebbe?»

«Fluke».

Nikki soffocò un ansimo.

«Lo conosce?». Fu il turno di Joseph di mostrarsi sorpreso.

«Abbastanza da dirle di non disturbarsi a fare la ricerca. Non troverà niente».

Il sergente alzò il capo. «Quindi avete già avuto una soffiata in proposito?».

Nikki si appoggiò allo schienale della sedia. «Riguardo a questo caso, no. E purtroppo non so un cavolo di lui».

«Forse allora dovrei scendere al Carborough e chiedere in giro?»

«E pensa che le parlerebbero?». Fece una breve risata. «Non credo proprio!».

«Qualcuno potrebbe. Una delle madri, magari». Lui scrollò le spalle. «Dovranno essere piuttosto scosse per il fatto che un ragazzino è stato accoltellato».

«Oh, sergente, si faccia furbo. Al Carborough è cosa di tutti i giorni. E al momento dobbiamo concentrarci su Kerry Anderson».

«Anche lei arriva da quel quartiere», disse Joseph, pensieroso. «Pensa che potrebbe esserci un collegamento?»

«Non riesco a trovarne uno, personalmente». Il pensiero le era già passato per la testa. «Kerry viene dal lato nord, non una zona famosa per i problemi, be’, non al livello di quella intorno alle palazzine o al lato sud». Fece una smorfia. «E in che modo una giovane studentessa che lavora sodo potrebbe essere connessa a una raffica di reati minori commessi da un mucchio di giovani mascherati? Non ha senso».

«Oh, ecco un’altra cosa che ha detto Callum. Ha sentito questo Fluke parlare di una certa “Guerra delle Maschere”. Non sa cosa significhi, ed è stata solo l’intensità della rissa di ieri a fargliela tornare in mente».

«Guerra delle Maschere?», ripeté Nikki a bassa voce. «Rischierebbero la vita per un merdoso pezzo di gomma? Cavolo, so che alcuni di quei ragazzini si sono bruciati metà dei neuroni con l’alcol e il crack, ma questa è pura follia».

«Sono d’accordo», sospirò Joseph, «ma come ha detto, abbiamo Kerry di cui preoccuparci, quindi che si fa?».

Nikki finì il suo caffè e si alzò. «Torniamo all’università, voglio fare una bella chiacchierata con i suoi amici. Qualcuno sa più di quel che ci ha detto sulla sua relazione con “Kris con la K».

«Non si fida proprio di lui, vero?». Joseph le sorrise.

«È un tipo strano. E non mi fido di quelli strani».

Quando arrivarono alla Fenland University, il sole stava appena sorgendo. Un bagliore verde-dorato soffondeva i meravigliosi alberi secolari, eredità di tempi ormai andati, di una luminescenza quasi magica.

«È davvero bellissimo», rifletté Joseph. «La mia università era un mostro di cemento nel cuore della città».

Nikki infilò l’auto in un parcheggio stretto e spense il motore. «Mi piange il cuore». Sbatté la portiera. «Non ho avuto una simile istruzione, io. Dovevo lavorare per guadagnarmi da vivere». Avanzò precedendolo, ma non poté evitare di chiedersi quanti soldati fossero andati all’università. «Dividiamoci. Lei si occuperà degli studenti a destra dello scomparto di Kelly, io prenderò quelli a sinistra, e qualunque cosa le sembri utile, mi chiami. Se siamo fortunati, saranno ancora mezzi addormentati e più facili da interrogare». La porta del Centro si aprì senza il minimo rumore. «Appuntamento qui tra mezz’ora, sergente, per rivalutare la situazione».

«Niente di che, signora». Joseph si appollaiò su uno sgabello alto e guardò il Centro. «Tutti conoscono Kris Brown di vista, e un paio hanno potuto vedere le sue astrofotografie, che a quanto dicono sono fantastiche. Ma nessuno crede che lui e Kerry stiano insieme. In effetti, hanno riso quasi tutti all’idea».

«Stesso identico risultato con quelli con cui ho parlato io», borbottò Nikki.

«C’è una cosa, però», disse Joseph. «Un tizio chiamato Lewis, che stava organizzando la gita con Kerry, ha accennato che Kris è stato derubato pochi giorni fa». Si sfregò il mento con l’indice. «Probabilmente non c’è nessun collegamento, ma vale la pena chiedere al signor Brown, non crede?»

«Una ragione come un’altra per passare di nuovo a casa del signor Strambo». Nikki si guardò intorno, fissando i gruppetti di studenti raccolti nel luogo d’incontro. «È ancora il mio sospettato numero uno, anche se sua madre lo considera un santo dei nostri tempi». Guardò di nuovo Joseph. «Qualcos’altro?».

Lui fece una smorfia. «Niente di specifico. Ho solo la sensazione che qui nessuno conosca davvero Kerry». Si interruppe, poi disse: «E quante ragazze conosce che non abbiano amiche intime con cui spettegolare?».

Nikki annuì. Capiva perfettamente a cosa si riferiva il sergente. Gli studenti erano sconvolti dalla scomparsa di Kerry, ma la loro reazione era più distaccata di quanto si sarebbe aspettata. Se Hannah fosse scomparsa, Nikki era quasi sicura che le sue amiche si sarebbero disperate, abbandonandosi a ogni genere di teatralità adolescenziale. «Se è una secchiona, magari i suoi coetanei non l’apprezzano molto. Forse sono gelosi dei suoi bei voti o dell’attenzione che riceve dai docenti».

«Potrebbe essere, ma non mi è sembrato quello. Non c’era malanimo, però non ho visto la reazione che mi aspettavo». Joseph scrollò le spalle. «Forse ho solo perso il contatto con i giovani d’oggi». Nella sua voce c’era una malinconia strana che non sfuggì a Nikki, ma non era quello il momento d’interrogarsi sull’enigma rappresentato da Joseph Easter.

«Giusto, allora si torna in centrale».

Mentre raggiungevano l’auto, a Nikki suonò il cellulare. Dopo alcune parole asciutte riattaccò.

«Qualche problema, signora?». Joseph aveva l’aria apprensiva.

«Altri casini al Carborough. Un gruppo di teppisti mascherati ha incendiato un’auto».

«C’è bisogno di noi, signora?»

«Questa volta no. Ci hanno pensato gli agenti in divisa». Nikki guardò pensierosa il sergente. C’era un’ombra di delusione sul suo volto? O era solo sollievo? Difficile dirlo. «Allora, penso sia il momento di andare a trovare la madre e il padre di Kerry Anderson».

Joseph fece un respiro profondo, poi annuì rassegnato. Era evidente che non gradiva più di lei la prospettiva di affrontare dei genitori addolorati.

Mentre entravano in auto, lei cercò di nascondere il sorrisetto che le guizzò sulle labbra. Forse lei e il suo strano sergente avevano qualcosa in comune, dopotutto.