Capitolo uno

Una folata di vento notturno soffiò nel vicolo stretto, portando con sé l’odore di ozono e di diesel rosso. Nikki Galena si appoggiò ai mattoni ruvidi del magazzino abbandonato e si domandò quante altre trentaseienni si sarebbero sentite così a loro agio in un ambiente tanto sgradevole. Le stradine che costeggiavano il porto non erano il posto adatto a una donna sola in qualunque momento della giornata, ma dopo la mezzanotte diventavano decisamente una zona da evitare. Lei sorrise nel buio. In quell’istante, non avrebbe preferito essere da nessun’altra parte.

Premette il pulsante della luce sull’orologio. Lui sarebbe arrivato presto. Nikki sapeva benissimo quale sarebbe stato il suo aspetto, pur non avendolo ancora mai incontrato: jeans logori, giacca con cappuccio e scarpe da ginnastica. Era una specie di uniforme ufficiosa, solo che a volte i jeans erano sostituiti da pantaloni sportivi, quelli scuri con delle strisce laterali e un logo di marca.

Nikki fissò senza battere ciglio l’entrata del vicolo. Aveva smesso di piovere, ma da una grondaia rotta gocciolava ancora dell’acqua che imprimeva un tatuaggio irregolare sul lastricato già bagnato. Era luglio, ma l’estate di quei tempi non significava nulla, e in quel momento Nikki se ne sbatteva di che tempo facesse. Sarebbe stata lì ad aspettare Darren Barton anche se ci fosse stata un’ondata di calore ardente, o temperature sotto lo zero.

S’irrigidì. Il rumore delle suole di gomma che sbattevano ritmicamente sul marciapiede scivoloso fece allargare ancora di più il sorrisino sul suo volto.

Aspettò che lui fosse a pochi metri di distanza, poi fece un passo avanti in silenzio, bloccandogli l’uscita dal vicolo.

Darren fece un salto indietro e imprecò. «Cazzo di stronza! Mi hai spaventato a morte!».

«Ti chiedo scusa, Darren».

Nel sentire il proprio nome, la figura incappucciata si fermò, poi si avvicinò un po’ di più, fece una smorfia e la fissò con sospetto. «Non ti conosco».

Nikki ricambiò lo sguardo. «No. Non mi conosci. Ma, sai che ti dico, non mi dimenticherai mai».

La sua voce si era indurita come il terreno in inverno, e Darren Barton parve decidere di colpo che avrebbe fatto meglio a restare dov’era prima, a qualche metro di distanza. «Non so di cosa parli, quindi levati dal cazzo. Fuori dai coglioni». Tentò di adottare una posa da duro. Mani sprofondate nelle tasche e mascella prominente in un fiacco tentativo di apparire minaccioso.

«Non posso farlo». Con un solo movimento rapido, Nikki gli imprigionò le braccia dietro la schiena e gli schiacciò la guancia contro la parete di mattoni. «Speravo che potessimo parlare, ma mi va benissimo anche così». Serrò la stretta, e vide comparire delle minuscole macchioline di sangue sulla superficie ispida del viso dell’uomo. «Vedi, Darren, tu non mi piaci. Per qualche strano motivo, proprio non sopporto le carogne come te, carogne che uccidono ragazzini».

L’uomo gemette e tentò di borbottare qualcosa. Nikki gli tenne entrambi i polsi in una mano, lo prese per i capelli e gli allontanò la testa dalla superficie di mattoni.

«Io non ho mai ucciso nessuno!». Rovesciò gli occhi all’indietro. «Davvero! Non so chi cerchi, ma hai preso l’uomo sbagliato!».

«Mmm, io non penso proprio».

«Cosa vuoi?». La sua espressione faceva ancora pensare a un brutto caso d’ipertiroidismo.

«Un nome. Ecco tutto, voglio che tu mi dia un nome. Ma prima, lascia che ti dica perché ho scelto proprio questo posto per la nostra piccola chiacchierata».

Lui socchiuse gli occhi.

«È quella che chiamano una zona morta. Niente telecamere. Niente televisioni a circuito chiuso. Niente passanti. Niente interruzioni. Quindi, cos’altro significa questo, Darren?»

«Niente testimoni». La voce fu solo un sussurro grave.

«Esatto. Sei un ragazzo sveglio!».

«Forse dovresti sapere che conosco delle persone molto cattive. Non saranno felici di tutto questo».

Nikki fece una gran risata. «Credimi, la persona più cattiva che mai incontrerai è proprio qui accanto a te». Lo fece voltare e lo spinse di nuovo contro il muro. «Hai un coltello, Darren?».

Lui la guardò in cagnesco, ma non disse niente.

«Certo che ce l’hai. Quelli come te ce l’hanno sempre». Lei lo fissò, il disgusto celato a stento. «Ora, vuoi tirarlo fuori dalla tasca e posarlo a terra? O devo prendertelo io?»

«Lo faccio io, d’accordo? Tu fatti indietro». Poteva essere ben trenta centimetri più alto di lei, e pesare quasi due volte tanto, ma aveva abbastanza buon senso da sapere che avrebbe incassato una sonora sconfitta, se avessero dovuto combattere sporco.

«Laggiù». Nikki indicò il marciapiede bagnato. «Ora, calcialo con cautela verso di me, poi torna contro il muro».

Raccolse la lama con una mano guantata, e se la infilò nella tasca. «Bene. Adesso, ho bisogno di qualche informazione».

«Oh, no! Non sono una cazzo di spia. E sono pulito, d’accordo? Te l’ho detto, hai preso il tipo sbagliato».

Nikki lo ignorò. «Conosci qualcuno che si chiama Frankie Doyle?»

«Mai sentita nominare».

Lei inarcò un sopracciglio, divertita. «Ma davvero?»

«Sì. Come ho detto, quel nome non significa niente».

Prima che l’uomo potesse fare un altro respiro, Nikki era già balzata in avanti, un braccio contro la sua trachea e il ginocchio premuto con forza contro il suo inguine. «E allora come facevi a sapere che Frankie è una donna?».

Per la seconda volta nel giro di cinque minuti, a Darren esplosero quasi gli occhi fuori dalle orbite. «Io… io l’avrò sentita nominare». Tossì dolorosamente. «Ma non la conosco. Sul serio, non la conosco».

«Quindi è fuori dalla tua portata, giusto?»

«Qualcosa del genere». Lui fece una smorfia e cercò di contorcersi per sfuggire alla pressione implacabile del suo ginocchio. «Lasciami andare. Per favore. Ti dirò quello che so, anche se, ti avverto, non è molto».

Nikki si ritrasse appena, e l’uomo esalò con gratitudine un respiro stantio. «Ho sentito che gira con dei tizi nuovi nel quartiere del Carborough. Dicono che sono dei veri duri. Sempre con soldi in contanti – e intendo un sacco di soldi. Hanno ricevuto mega finanziamenti da qualche parte, ma nessuno sa da dove».

«Nomi?»

«Nessuno sa niente di questi tizi. E nel Carborough c’è un solo nome vero, no?»

«A parte Archie Leonard».

«No, usano dei soprannomi».

«Allora dammi il soprannome di chiunque rifornisca Frankie, e io ti aiuterò a uscire dal casino in cui ti sei cacciato».

«Ma io non sono nei casini, quindi non ho bisogno del tuo aiuto, giusto?»

«Oh, credimi, ne hai bisogno. Perché, al momento, il tuo collo ossuto e, se me lo concedi, sporco è completamente immerso nella vecchia robaccia marrone». Nikki mosse leggermente il ginocchio e fece per premere contro di lui.

«No! C’è questo tizio, si fa chiamare Fluke. È legato alla nuova gang, penso. Non dico che la rifornisce, ma saprà chi lo fa. È immischiato in tutto».

«Questo Fluke vive nel Carborough?»

«Non lo so, diciamo che va e viene. Come Frankie Doyle. Potrebbero perfino essere una coppia». Darren deglutì a fatica. «È tutto quello che so. Adesso mi lasci andare?».

Nikki lo fissò con fare pensieroso. «Be’, suppongo che tu mi sia stato d’aiuto».

Darren annuì furioso. «Sì. Ti ho dato un nome, no?»

«Mmm». Lei sospirò. «Ma purtroppo non funziona così. Non con un fetido spacciatore».

«Non sono uno spacciatore! Perquisiscimi, se non mi credi!».

«Oh, sono certa che non hai niente addosso», scrollò le spalle, «perché hai venduto l’ultima partita alla sgualdrinella magrolina che ultimamente ti compra la roba fuori dall’Harry’s Club, non è vero?».

Gli occhi di Darren si socchiusero.

«Vedo che te la ricordi. Capelli biondo platino, spuntoni neri, troppo trucco e niente tette? È una dei nostri, Darren. E i pezzi da venti che ti ha dato, quelli che ti sei infilato comodamente nel portafoglio, sono segnati. Ci saranno le tue impronte su tutto il sacchetto di metanfetamine che le hai venduto e che, tra parentesi, è già in una busta per le prove diretta alla scientifica. Quindi, insieme a quel brutto coltello che mi hai tanto gentilmente consegnato…».

Il volto di Darren si contorse in una maschera di rabbia e paura. «Sbirro schifoso! Hai detto che mi avresti aiutato!». Le sputò quasi le parole addosso.

«Ho mentito».

«Mi hai incastrato, cazzo!».

«Proprio così. È buffo, ma non sono tormentata dal rimorso». Premette più forte contro il suo inguine. «Vedi, a casa mia, se spacci droga, spacci morte. E io e i miei colleghi dobbiamo sederci con le famiglie, respirare il dolore e la sofferenza straziante causati da gentaglia come te. E non ci piace, Darren. Non ci piace che spingiate ragazzini vulnerabili a darsi alla violenza, a rapinare vecchiette per mettere le mani sui soldi necessari a soddisfare la loro dipendenza. Una dipendenza che voi siete felicissimi di alimentare».

«Se non la prendessero da me, la prenderebbero da qualcun altro!».

«Cristo! Non rifilarmi queste vecchie stronzate! Siete disgustosi. Siete un virus necrotizzante che infetta la società, e fate un mucchio di soldi grazie alle vostre vittime». Spinse il ginocchio in avanti e il grido derivante le provocò una leggera soddisfazione.

«Non puoi farlo! Ti denuncerò! Conosco i miei diritti!».

«Sì, sì, voi pezzi di merda conoscete sempre i vostri diritti. Ma dimostrarlo potrebbe essere difficile, perché noi abbiamo soltanto fatto una tranquilla chiacchierata, Darren, come testimonierà il mio collega laggiù». Indicò una figura indistinta, che si avvicinava lentamente lungo il vicolo. «E prima che ci raggiunga, mio piccolo spregevole amico, lascia che ti ricordi una cosa. Questa sera, ti ho fatto solo qualche domanda amichevole. Non farmi mai arrabbiare davvero, o ti farò desiderare di essere nato nelle Ebridi Esterne e di non essertene mai andato da casa, capito?». Piantò gli occhi nei suoi. «Oh, e prima di cominciare a piagnucolare sulla violenza della polizia, assicurati di pensare bene a cosa dirai, mmm? Tipo, chi crederà mai a un pusher che dice di essere stato terrorizzato in un vicolo da una donna grande la metà di lui? A parte questo, presumo che la tua reputazione nel quartiere precipiterebbe intorno allo zero, non credi?». Il ginocchio fece un ultimo scatto, e lei si voltò. «Arrestalo, Dave, poi portalo giù in centrale e sbattilo dentro».

L’omone sbadigliò, poi prese con calma le manette. «Con quale accusa, capo?»

«Puoi iniziare con questa». Nikki prese una busta per le prove dalla tasca, ci fece scivolare dentro il coltello dall’aspetto pericoloso di Darren e la passò al collega. «Poi prosegui con fornitura illegale di sostanze stupefacenti. Senti l’agente Cullen, per quello. È tutto tuo. Io devo andare in qualche posto dove l’aria sia un po’ più dolce». Rivolgendo un ultimo sguardo di disprezzo allo spacciatore, si tirò su il bavero contro la pioggia e percorse il vicolo a ritroso nel buio.

Le ci vollero solo dieci minuti per raggiungere a piedi il seminterrato che odiava dover chiamare casa. Infilò la chiave nella serratura, poi si fermò, assalita da un’apatia terribile. Succedeva ogni volta. Per strada stava bene, alla grande. In commissariato, in tribunale, nelle celle, dovunque sapesse di fare qualcosa di concreto per impedire alle droghe di insidiarsi nella sua città, in qualità d’ispettore della polizia, sentiva di avere il controllo. Ma poi, con lo scemare dell’adrenalina, la maschera crollava e lei sapeva, dietro quella porta, di essere soltanto Nikki Galena, una donna sola che temeva la fine della giornata di lavoro.

Strinse la chiave e iniziò a girarla. Era come se fosse stata abbandonata da ogni briciolo di energia. La chiave pesava una tonnellata, e lei aveva la forza di un bimbo appena nato. Con uno sforzo supremo, aprì la porta, entrò e premette l’interruttore della luce.

Non fu accolta da niente a cui tenesse. Un agente immobiliare l’avrebbe definito stile minimalista, ma di fatto aveva una qualità spartana che intorpidiva la mente. La porta d’ingresso si apriva direttamente sul soggiorno, e oltre a quello c’era una stanza da letto di cui il padrone di casa aveva fatto notare ridendo il bagno privato, e una cucina-sala da pranzo con delle portefinestre che si aprivano su un minuscolo cortile interno. E quella era l’unica parte di quel luogo deprimente verso cui Nikki provasse qualche vago affetto.

Si tolse la giacca umida e la gettò sullo schienale dell’unica sedia della stanza, poi si diresse in cucina. Per quanto fosse esausta, il sonno non arrivava mai con facilità. Il corpo si stava arrestando, ma la mente era freneticamente attiva. Aveva bisogno di aiuto per spegnerla, e per anni quello era venuto sotto le sembianze di un single malt. Ora non poteva bere neanche quello. Se avesse ricevuto una chiamata, una pista, qualunque cosa potesse portare un nuovo risultato, avrebbe dovuto essere pronta a uscire con il minimo preavviso, e di certo non poteva farlo se aveva bevuto abbastanza da far scoppiare un etilometro.

Nikki aprì il frigorifero e sbirciò dentro. I due scaffali superiori erano strapieni di decine di bottigliette di vino. Rosso, bianco e rosé. Francese, italiano, australiano. Dolce, secco, frizzante. Piccole bottiglie ordinate contenenti ciascuna un bicchiere colmo fino all’orlo. Sufficiente a rilassare la mente, ma non abbastanza da attutire i sensi.

Scelse un grenache e versò fino all’ultima goccia nell’unico bicchiere della credenza. Per abitudine, si sarebbe seduta in giardino a pianificare la caccia del giorno seguente, ma quella sera si trovò ostacolata dalla pioggia.

Il salotto ospitava una sedia solitaria, un grosso futon con struttura di metallo su cui era stata gettata un’enorme coperta morbida, e qualcosa che era forse nato come mobile angolare per il televisore. Attualmente, sorreggeva un caricatore del cellulare, una guida del telefono, un computer portatile e una lampada con paraluce di vetro multicolore che saltava agli occhi come falso Tiffany.

Nikki si accasciò sul futon e raccolse le gambe sotto di sé. Al solito, preparare il terreno perché l’ennesimo spacciatore affrontasse il sistema legale le aveva provocato un’iniziale ondata di sollievo, ma non era mai abbastanza. Non più. Là fuori c’erano troppi spacciatori, troppa droga.

Sorseggiò il suo bicchiere di vino e pensò a quanto radicalmente fossero cambiate le cose negli ultimi anni. Greenborough era sempre stata una piacevole cittadina mercantile. Per alcuni lo era ancora. Bastava allontanarsi di un chilometro dalla periferia, in qualunque direzione, per essere nelle Fens. Un altro chilometro verso oriente, e trovavi le paludi costiere. Come tutte le città mercantili era abbastanza grande, e il fiume soggetto alle maree che ne attraversava il centro la rendeva più trafficata di altre. Ma poi c’era il porto. Piccolo, forse, un’estremità riservata alle imbarcazioni dei pescatori di cardio e l’altra allargata di recente per tornare ad accogliere navi vere. I mercantili e le navi da carico arrivavano dal mare del Nord, passando per il Wash e l’estuario del fiume Wayland. E insieme ai nuovi lavori, le maggiori opportunità e gli immigranti illegali, era arrivato anche un aumento spaventoso del commercio di droga.

Il vino le vibrò sulla lingua, rassicurante, e lei prese un altro sorso.

La droga, il flagello della sua vita.

Nikki poggiò il bicchiere a terra, tirò fuori uno dei grossi cuscini, ci posò sopra la testa e si chiese come avesse fatto a trasformarsi in quello straordinario angelo vendicatore, impegnato in una crociata solitaria contro gli spacciatori. In quei momenti, quelli più bassi, desiderava con tutto il suo cuore rinunciare alla battaglia, ma non ci riusciva. Non le era rimasto molto altro. Sua madre era morta, suo padre era ricoverato in una casa di riposo e quasi non la riconosceva, suo marito, Robert, l’aveva lasciata, e la loro figlia incolpava lei di tutto ciò che non andava nel mondo.

Sorrise al pensiero di Hannah. Sì, per quanto le cose si mettessero male, aveva pur sempre sua figlia a cui pensare. D’accordo, non era più a casa, ma ciò non significava che non le volesse bene o che non le importasse profondamente di lei. Chiuse gli occhi. Era troppo tardi ormai, ma qualunque cosa fosse successa l’indomani, avrebbe trovato il tempo di chiamarla e vedere come stava. Dietro le palpebre chiuse rivide i suoi capelli scuri, quasi neri, i profondi occhi castani, spesso arrabbiati, e la pelle olivastra pulita e liscia in cambio della quale tutte quante le sue amiche avrebbero dato il loro iPod.

L’immagine sbiadì. Forse avrebbe dovuto rinunciare a quella topaia in affitto. Per il bene di sua figlia, forse sarebbe dovuta tornare a Cloud Fen. Sgomberare la vecchia casetta di campagna. Pulirla da cima a fondo. Renderla carina. Renderla qualcosa che si potesse chiamare nuovamente casa.

Nikki sbadigliò. Le era già capitato, in passato, di fare la giocoliera con i pensieri, con gli “e se” e i “forse”. E alla fine tornava sempre al fatto che un simile cambiamento avrebbe significato meno ore passate per strada. Meno ore dedicate a spidocchiare la città dai parassiti a due zampe. Vivendo lì era a pochi minuti a piedi dal loro covo, o dai cunicoli che lo raggiungevano. Cloud Fen era a venti minuti d’auto dal commissariato, trattori e macchinari agricoli lenti permettendo. E ciò non era accettabile.

Sbadigliò di nuovo. Avrebbe dovuto essere buffo, ma non lo era. Si sarebbe pensato che il suo impegno ossessivo nello sbattere dentro i cattivi l’avrebbe resa qualcosa di simile a un eroe agli occhi dei suoi colleghi, ma aveva avuto l’effetto opposto. Non c’era più nessuno che volesse lavorare con lei. Odiavano la sua passione, si rifiutavano di accettare i suoi metodi poco ortodossi e la definivano irragionevole. Be’, la definivano in molti modi, in realtà, nessuno dei quali piacevole. Ma del resto loro avevano una vita, giusto? Famiglie, amici e attività al di fuori della polizia. Lei aveva soltanto quello, e la sua crociata.

Nikki si strinse nelle coperte e si chiese distrattamente quando fosse stata l’ultima volta che aveva cambiato le lenzuola. Non che avesse importanza, perché non dormiva mai nel letto. Entrava in camera soltanto per raggiungere la doccia, e perché doveva appendere i vestiti da qualche parte. Odiava quella stanza buia e stretta, con il soffitto basso e la moquette color fango. La odiava soprattutto perché era l’unica stanza con una fotografia, una fotografia che non si decideva mai a nascondere in un cassetto. Una fotografia che amava con tutto il cuore, ma che sopportava a stento di guardare.