Zoe
Quando il tuo mondo esplode, i pezzi si disperdono tutto intorno: alcuni non potrai rivederli mai più e nulla tornerà ad essere come prima.
Ho perso il mondo in cui vivevo prima dell’incidente e mia madre mi ha aiutato a costruirne uno nuovo. Adesso anche quel mondo è sparito, e non vedrò mai più mia madre, ma non voglio perdere tutti gli altri pezzi.
Prima che lasciassi il carcere, Jason mi ha insegnato un’ultima cosa. Avevamo appena finito la nostra ultima seduta, due giorni prima del mio rilascio, e gli chiesi perché noi ragazzi fossimo tenuti chiusi a chiave come bestie, considerato che alcuni di noi non avevano fatto che un errore, un errore forse inevitabile, causato dalla nostra stupidità o dalla nostra giovane età, o dovuto ad altri motivi comprensibili come un testimone che aveva mentito e un giudice che non aveva creduto alla verità che gli era stata raccontata.
«La punizione è considerata un deterrente efficace», rispose Jason e si aggiustò il collo della maglietta, un gesto che faceva sempre quando si sentiva imbarazzato.
«Ma si tratta di teoria, in ogni caso», aggiunse. «Ascolta, il sistema è imperfetto, e lo sappiamo bene, ma è per questo che le nostre sedute sono importanti, perché ti danno la possibilità di smontare ciò che ti è accaduto e di capire i motivi per cui è accaduto; e quindi cercare di trovare una via d’uscita».
«Ho detto la verità al mio processo e mi hanno messo in prigione lo stesso», gli feci notare.
«Bene, come ho detto, il sistema è imperfetto, ma lo sai che i ragazzi non facevano mai sedute di terapia, quindi da questo punto di vista sei fortunata».
L’orologio sulla parete ci annunciò che il nostro tempo era finito. Come modo per concludere la nostra ultimissima seduta mi sembrò un po’ ridicolo, perché mi aveva detto quelle cose milioni di volte in passato.
Non era la cosa più importante che mi avesse insegnato.
Restai seduta perché mi chiedevo se Jason stesse per dirmi qualcosa di affettuoso e carino come “addio”, in un certo senso volevo che lo facesse, e invece lui mi disse che era arrivata l’ora di andare, e si alzò per accompagnarmi verso la mia sezione, come faceva sempre.
Alcuni punti della prigione non avevano telecamere di sorveglianza. Molti di noi li evitavano perché potevano essere luoghi inquietanti in cui stare da soli. Tutti imparavano questa regola appena entrati.
Jason si fermò in uno di questi punti, tra due file di porte che mettevano in collegamento due aree separate. Stavo aspettando che strusciasse il suo badge di sicurezza e aprisse la serie successiva di porte in modo che potessimo proseguire come sempre, e invece lui si fermò, e mi appoggiò una mano su un braccio. Non c’era nessun altro intorno a noi, perché era l’ora in cui quasi tutti erano nelle proprie celle.
«Zoe», disse Jason. «Fra due giorni uscirai, e credo che hai ottime probabilità di non tornare qui dentro, ne sono convinto. Sarei molto deluso se ti vedessi tornare».
«Non tornerò».
Lo dissi in fretta perché non mi piaceva il modo in cui le sue dita mi premevano sul braccio. Mi allontanai di qualche passo da lui, ma non potevo andare lontano perché lo spazio era angusto e tutti i muscoli del mio corpo erano paralizzati dalla paura.
E restai immobile come una mummia anche quando lui mollò la forte presa e fece correre le dita lungo il mio braccio, sopra la manica della felpa, sopra il polsino, fino a toccarmi il polso. Lì entrarono in contatto con la mia pelle, e io trattenni il fiato mentre risalivano per pochi centimetri sotto la manica della felpa. Il polpastrello del suo mignolo restò leggermente appoggiato sopra l’osso del mio polso e io sperai che fosse l’osso intero a dissolversi perché la sensazione che avvertivo era orribile.
«Sei così bella, e così intelligente», mormorò Jason e dalla voce sembrava che la lingua gli fosse diventata spessa. «Non puoi stare in un posto del genere».
La sua mano si spostò dal mio polso alla guancia, e nel lento tragitto si strofinò contro la parte laterale del mio seno. Spinsi ancora di più la testa all’indietro e mi resi conto che il viso mi tremava mentre lui mi toccava la guancia con un dito.
Respirava in modo irregolare e pesante.
«Urlerò», lo avvertii.
«La mia parola contro la tua, Zoe. Chi credi vincerebbe?».
Non c’era modo di contraddirlo perché conoscevo bene la risposta a quella domanda. Avrebbe vinto lui.
Avvicinò la testa alla mia e con le labbra mi sfiorò il collo e poi disse: «La tua vita sarà sempre così da questo momento in poi, dovrai ricordartelo».
Poi si allontanò in fretta, strusciò il suo badge e tenne aperta la porta in modo che potessi passare e immergermi nelle luci bianchissime dell’area comune, come se nulla fosse accaduto. Camminavo piano perché avevo la sensazione di barcollare, e feci a malapena caso a Jason che salutava Gemma che era di turno, e le chiedeva di poter incontrare la sua prossima paziente, perché mi sembrava di annaspare a ogni respiro.
Entrai nella mia cella e mi raggomitolai sul letto, stringendomi a me stessa il più possibile. Avevo freddo e tremavo, ma l’unica cosa che mi impediva di fare a pezzi il lenzuolo e avvolgermelo intorno al collo era il pensiero che mi restavano soltanto altri due giorni da trascorrere in quel posto. E poi mia madre sarebbe venuta a prendermi, e non avrei rivisto mai più Jason, e avrei potuto costruirmi una vita nuova, la vita della seconda occasione.
Ricordo abbastanza bene ogni parola che Jason mi ha detto durante la mia detenzione in carcere, perché ho un’ottima memoria, ma è stato il suo ultimo messaggio, quello che mi diede nello spazio senza telecamera, che si è fissato in maniera più profonda dentro la mia mente.
Avevo già capito che la vita era ingiusta, e che le strutture create dalla società per proteggerci non sempre funzionano, ma ciò che Jason mi insegnò in quei pochi minuti fu che il mio incidente mi aveva segnato in modo indelebile: mi aveva trasformato in una persona che poteva essere spinta in qualsiasi direzione, un giocattolo che chiunque poteva usare per divertimento, una persona senza voce, e senza il diritto a una vita normale.
A meno che...
A meno che io non abbia il coraggio di prendere il controllo della situazione.
Nel caldo torrido del capanno di mio zio, un piano lucidissimo ha preso forma nella mia mente: voglio salvare Grace da Chris, e tenerla con me, per farla diventare la ragazza che la mamma voleva diventasse.
Guardo Lucas e cerco di capire se posso realizzare il mio piano. Sarà una sfida difficile, lo so, perché il più delle volte lui è come un cane frustato, soprattutto adesso. Ma non posso mettere in pratica la mia idea senza di lui, quindi ho il bisogno assoluto che anche lui sia coraggioso, ed è per questo che ho bisogno che lui menta su ciò che è successo.
Glielo sussurro, il piano che ho escogitato ma, come temevo, quando finisco di dirgli cosa dobbiamo fare, lui mormora: «Non posso».
«Puoi».
«No».
«Se racconti la verità, ti metteranno in prigione, Lucas, come hanno fatto con me. Non hai idea di cosa sia stare lì dentro. E poi tuo padre si prenderà Grace, e le farà del male. E io non potrò vederti mai più. Mai più».
Mi sforzo di tenere dritta la schiena più che posso. Spingo indietro le spalle e mi scuoto i capelli sul lato posteriore del collo. Mi tengo dritta, come fece mia madre quando Chris e Lucas tornarono dal concerto. Mi tengo dritta, come fece lei ogni giorno del mio processo, quando doveva essere forte. Mi tengo dritta come vorrei che facesse Grace quando sarà più grande, qualsiasi cosa le accadrà.
Il problema è che per quanto io sia forte, la paura negli occhi di Lucas sembra aver lavorato in profondità per lungo tempo, e sono sicura che sia stato così. Capisco anche che in questo istante lui probabilmente si sente come mi sentii io subito dopo l’incidente: un animale in trappola, in preda al panico e al dolore e sotto shock per ciò che è appena accaduto, ma devo riuscire a liberarlo da questa gabbia, e fargli capire con la stessa chiarezza con cui l’ho capito io che dobbiamo mettere in atto il mio piano.
«Vuoi che Grace viva una vita come la tua?», gli chiedo. «Che viva nella paura di tuo padre?».
Lucas scuote la testa ma protesta: «Quello che mi stai chiedendo di fare è sbagliato».
«Non è sbagliato, se si concluderà bene. Pensaci».
Adesso inizio a perdere le speranze perché se lui non accetta di fare come gli chiedo, perderemo tutto ciò che ci è rimasto, tutti e due. Ripenso alla sceneggiatura e capisco che dentro di se Lucas deve provare la mia stessa rabbia.
«La rabbia può essere una liberazione», mi disse una volta Jason, anche se allo stesso tempo mi consigliava di non esprimerla con la frequenza con cui ero abituata a fare allora.
Per la disperazione, afferro uno dei modelli di Richard dallo scaffale accanto a noi e lo mostro a Lucas, poi gli dico: «Distruggilo», perché è l’unico modo che mi viene in mente per smuovere i sentimenti di rabbia che lui deve stipare dentro di sé: potrebbe essere l’unico modo per strappagli il consenso al mio piano in questo momento.
«Che cosa? No!».
«Andiamo!». Lo lancio verso di lui, ma con un gesto rabbioso Lucas lo rimanda indietro e in quella reazione mi pare di vedere la sua rabbia che inizia a ribollire, e mi chiedo se l’abbia mai lasciata uscire prima di adesso. Mi basta a convincermi che la mia tattica sia giusta.
«Lo farò io, allora», dico. «Non ho paura».
Tenendola proprio davanti alla sua faccia, piego l’ala dell’aeroplano lentamente, e sento la sua tensione crescere in modo graduale sotto le mie dita.
Il modellino è uno di quelli complessi, e molto carino. Devono esserci volute ore, giorni di lavoro per completarlo.
«Non farlo!», esclama Lucas. Prova a strapparmelo dalle mani, e io non mi oppongo.
«Rompilo», replico io.
«No!». Lo tiene tra le mani come se fosse di fine porcellana, ma trema.
«Rappresenta la tua vita con tuo padre», continuo. «Rompilo, e sarai libero. Rompilo per tua madre. Rompilo, e potremo fare ciò che dobbiamo fare per aver giustizia per lei e per mia madre».
«Perché mi stai facendo questo? Ho cercato di avvisarti, no? Ti ho inviato la sceneggiatura».
«Me l’hai inviata troppo tardi!».
Lui abbassa lo sguardo sull’aeroplano che tiene tra le mani.
Ripenso alle parole che mi disse Jason mentre il suo fiato caldo mi colpiva il viso. «La mia parola contro la tua, Zoe. A chi pensi che crederanno?», e capisco che se Lucas non accetta di aiutarmi, da sola non potrò fare nulla.
«Ci crederanno; sono sicura che ci crederanno. In questo momento è la nostra unica possibilità», lo sprono.
«E i messaggi su Panop che ti ho inviato? La polizia li troverà sul tuo telefono».
«Conoscono il mio passato, Lucas, non gliene importerà nulla se lo conosci anche tu. Pensaci. I messaggi su Panop provano esattamente questo».
La mia mente è di una chiarezza cristallina e mi sento sempre più frustrata all’idea che per Lucas sia diverso. È come se nel suo cervello ci fosse un ostacolo, e lui interpretasse tutto nel modo sbagliato. «Comunque, non perderanno tempo a cercare qualcosa nei nostri cellulari», gli faccio notare, «se facciamo tutto nel modo giusto».
Maria non meritava mio padre. E non lo meritava mia madre. Nessuno lo merita».
«Nemmeno Grace».
Si sposta l’aeroplano tra le mani, poi lo prende per l’ala, come ho fatto io, e infine, proprio quando penso che lo metterà via e uscirà dal capanno e io avrò fallito in questo piano come in tutti gli altri, inizia a romperlo. Trattengo il fiato mentre il legno si tende sempre più e poi inizia a spaccarsi.
Lucas sembra spaventarsi e gli dico: «Non mollare adesso», ed è come se il mio incoraggiamento fosse una specie di liberazione per lui, come se tutta la sua rabbia esplodesse all’improvviso.
Stacca l’ala dall’aeroplano, e poi spezza la coda, e io sono costretta a fare qualche passo indietro perché inizia a sbattere il modellino contro le pareti del capanno fino a farlo a pezzi, a ridurlo in frantumi, e continua a sbatterlo, e a me viene il timore che possa rompersi la mano, e intanto dice: «Ti odio, ti odio, vaffanculo», e sappiamo entrambi che non è a me che si rivolge, ma a suo padre.
Quando finalmente si ferma, guarda i pochi pezzi integri che gli sono rimasti in mano e sembra non capire come ci siano arrivati tra le sue dita, e gli chiedo: «Lo farai?», e lui risponde: «Sì», e provo solo un grande sollievo.