Domenica sera

La fine del concerto

Tessa

Alla fine del concerto, il pubblico è inquieto, c’è una strana atmosfera, come una leggera interferenza. L’esibizione di Lucas non è riuscita a cancellare il disagio causato dalla scenata di Tom Barlow.

Mentre Lucas si inchina alla platea che lo applaude, controllo il telefono. Ho ricevuto due messaggi:

MARIA: Non dire niente.

RICHARD: Dove sei?

Non rispondo a nessuno dei due. Maria sa che farò come dice, e Richard può aspettare. Immagino che sia infine uscito dal capanno e sia tornato in casa, dove si sarà improvvisamente accorto di essere solo.

Quando alzo lo sguardo, al mio fianco c’è Chris.

È brusco. «Maria ha preso la macchina e voglio andare a casa, ma penso di dover rimanere ancora almeno per qualche minuto. La gente si aspetterà che lo faccia».

Probabilmente ha ragione, così replico: «Aspetterò. Vi darò un passaggio io, non appena sarete pronti».

Non fa alcun riferimento diretto allo sfogo di Tom Barlow.

Chris Kennedy e io non ci conosciamo molto bene, perché Maria se l’è sempre tenuto per sé, come un tesoro trovato, e non c’è da meravigliarsi, perché aveva passato l’inferno.

Quando Zoe fu condannata, il matrimonio di Maria andò in pezzi, e lei rimase da sola a raccoglierne i cocci. Zoe trascorse diciotto mesi in prigione e, in quel periodo, Maria passò dall’essere la moglie dell’imprenditore agricolo con una figlia bella e piena di talento, nientemeno che un prodigio musicale, alla condizione di madre single con una figlia adolescente con la fedina penale sporca: fu una trasformazione dolorosa.

Si trasferì dal Devon a Bristol per avvicinarsi a me, sistemandosi in un appartamento in affitto nell’unica zona della città che poteva permettersi, e iniziò a lavorare come segretaria all’università, lavoro che le trovò Richard e che inizialmente riusciva a malapena a tenersi, tanto grave era la sua depressione.

Fu il pianoforte a cambiare ogni cosa, come aveva sempre fatto per tutta la vita di Zoe.

Il padre di Zoe non voleva saperne: dava la colpa di buona parte di ciò che era successo al tempo passato dalla figlia al pianoforte. Disse che l’aveva portata a essere diversa, a sopravvalutarsi, e che questo aveva poi scatenato gli episodi di bullismo e infine l’incidente.

Il resto di noi aveva un’opinione diversa: il pianoforte avrebbe potuto aiutare Zoe a riscoprirsi, a rimettere insieme la propria autostima, e darle uno scopo per il futuro. Il suo talento era così impetuoso che nessuno di noi riusciva a sopportare di lasciarlo inutilizzato. E, dopotutto, cos’altro le era rimasto a parte quello, e il suo intelletto?

Su consiglio dello psicologo che l’aveva in cura al carcere minorile, quando Zoe tornò a casa la incoraggiammo a ricominciare a suonare e, dopo un paio di mesi di esercizi su una tastiera che le aveva comprato Richard e sul malandato pianoforte della nuova scuola, e con l’aiuto di alcune lezioni di un maestro trovato da Richard e pagato da me, Maria la iscrisse, non senza esitazione, a un concorso locale per aiutarla a recuperare la forma.

In realtà si trattava più di un corso di perfezionamento, non competitivo, e c’erano solo due iscritti. L’altro era Lucas.

Quel giorno, tutto considerato, Zoe suonò in modo grandioso. All’altezza della situazione.

Io ero seduta accanto a Maria, e Chris Kennedy sedeva solo un posto più in là di noi. Eravamo gli unici spettatori, a parte il giudice, il quale non avrebbe dichiarato un vincitore, ma solo dato un parere e dei consigli ai musicisti.

Dopo che Zoe ebbe suonato, Chris si avvicinò a noi per chiederci chi fosse l’insegnante di Zoe. Maria gli rispose e, nel giro di qualche minuto, cominciai a sentirmi il terzo incomodo, così portai Zoe a prendere una tazza di tè, mentre loro chiacchieravano intensamente nel corridoio fuori dalla sala concerti, con Lucas che gli girava attorno guardingo.

Quel giorno Chris e Maria si scambiarono i numeri di telefono – ufficialmente per condividere informazioni sul maestro di pianoforte di Lucas, che Chris dichiarò essere “il migliore del Sud-ovest d’Inghilterra e l’unico adatto a un talento come Zoe” – e subito dopo cominciarono a vedersi.

Fu presto evidente che Chris aveva un’ottima influenza su Maria, che iniziò a vestirsi meglio e a prendersi cura di sé. Sorrideva. Spostò Zoe dal nuovo insegnante, che sarebbe costato a Richard e a me il doppio del precedente, ma eravamo ben contenti di pagare. Quando finalmente Maria dichiarò che lei e Chris avevano una relazione, fu un po’ come se lui l’avesse salvata.

Nonostante tutto ciò, comunque, e anche se in seguito l’ho incontrato numerose volte, in occasione di eventi sociali, Chris è ancora una sorta di estraneo, per me. L’unica conversazione semi-intima che posso dire di avere avuto con lui è stata quando ci incontrammo un giorno, per caso, sul treno per Londra. Fu subito dopo la nascita di Grace, perché ricordo la sua espressione raggiante mentre parlava della piccola.

Chris sarebbe stato l’oratore principale a uno di quei pranzi per fare rete, quel genere di eventi in cui tutti si danno le pacche sulle spalle: un’occasione per imprenditori di successo, miliardari che vogliono diventare fantastiliardari. Parole sue, non mie, pronunciate con una sana dose di ironia. Io stavo andando a una conferenza sull’ipertiroidismo felino.

Dopo esserci incontrati sulla banchina della stazione di Bristol Temple Meads, mi pagò il passaggio in prima classe, dove, sul tavolino che ci separava, schierò con disinvoltura i propri attrezzi del mestiere: «Financial Times», BlackBerry, iPhone, portatile, appunti per il discorso.

Mentre era impegnato in una telefonata di lavoro, nel corso della quale, guardando fuori dal finestrino, affermava cose del tipo: “Be’, non appena sarà messo sul mercato, dipenderà tutto dalla mia valutazione», e ancora: «Sì, certo, assolutamente. È tutta questione di… Sì, be’, roba da far drizzare i capelli, non credi? Ma il punto è che dobbiamo a tutti i costi entrare nell’affare», io rimasi seduta di fronte a lui, intimidita, senza osare mangiare il panino con la salsiccia che avevo comprato per colazione, con il quale mi sarei riempita di briciole, né tirai fuori il mio «Hello!».

La rivista, comunque, non mi servì perché, dopo la telefonata, Chris e io chiacchierammo per tutto il viaggio, del mio lavoro, del suo e della piccola Grace che era appena nata. «A Maria viene talmente naturale fare la madre…», dichiarò. «Sono un uomo fortunato, dopo tutto quello che ho passato». E io mi sentii felice per mia sorella, perché chi avrebbe mai creduto che le potesse capitare di essere baciata dalla buona sorte, dopo il processo di Zoe?

«Sai che cosa mi è piaciuto di tua sorella, la prima volta che l’ho incontrata?», mi chiese.

Scossi la testa. Quando Chris aveva conosciuto Maria, lei era soltanto una pallida ombra della ragazza che faceva sbavare tutti i maschi della scuola, quando eravamo adolescenti.

«È una bella donna, ovviamente», disse, «ma quello che ho notato, soprattutto, sono state le sue straordinarie qualità di dolcezza e compostezza, come se sapesse esattamente chi era. Era come un raffinato oggetto di porcellana: non riuscivo a credere alla mia fortuna».

Sorrisi dell’affetto e dell’emozione che trasparivano dalle sue parole, ma il mio primo pensiero, in quel momento, fu che Chris non doveva conoscere bene Maria, perché ne aveva incontrato una versione presa a bastonate dagli antidepressivi e dallo shock, e aveva scambiato questa sua condizione per fragilità e contegno.

Ovviamente, all’epoca tenni quel pensiero per me, ma mi domandai se, da quel primo incontro, Maria non avesse tenuto nascosti quelli che io ritenevo i tratti autentici della sua personalità. Chris aveva mai avuto occasione di vedere appieno, senza restrizioni, la sua forza, la sua intelligenza o il suo senso dell’umorismo, qualità in lei innate, che sarebbero di certo riapparse, almeno un po’, una volta che lei e Zoe avessero iniziato a riprendersi? O Maria gliele aveva tenute celate di proposito, non volendo rovinare le dinamiche della loro relazione, o la fortuna della sua seconda occasione?

Allora fui coraggiosa. Chiesi a Chris della sua prima moglie. Pura curiosità, ma chi non sarebbe curioso delle insolite circostanze che hanno portato un uomo a crescere un figlio da solo? Avevo chiesto a Maria, naturalmente, ma o era male informata sull’argomento o incredibilmente discreta, perché mi aveva rivelato ben poco, a parte che la madre di Lucas era morta di malattia quando lui aveva dieci anni e che la tragedia aveva distrutto sia lui sia suo padre. A quanto pareva, tra la morte di Julia e il suo incontro con Maria, Chris non aveva avuto relazioni importanti.

Sul treno, incoraggiata da un eccesso di caffeina a stomaco vuoto, chiesi: «Fare parte di questa nuova famiglia ha aiutato Lucas a superare la sua perdita?»

«Molto». La risposta di Chris fu veloce e sicura.

«Come è morta sua madre?»

«Aveva un tumore terminale al cervello, particolarmente aggressivo». Parlava con un tono quasi distaccato, ma le mani sul tavolino ebbero un fremito e cominciò a rigirarsi il BlackBerry nel palmo.

«Ah. Mi dispiace molto». Ed era così. Sentii il rossore risalirmi il collo, quindi le guance. «Non avrei dovuto chiederlo».

«Non importa. Lucas le voleva bene, naturalmente, ma verso la fine non è stato facile. Non era molto stabile. Io… noi… Lucas e io siamo molto grati a Maria, di avere accettato di sposarmi. Tua sorella è una donna meravigliosa. Sono un uomo fortunato».

Quel giorno sul treno mi domandai se Maria avesse fatto la cosa giusta a nascondere il passato di Zoe a Chris. Pensai che non potesse durare e decisi di consigliarle di dirglielo, quando avesse trovato il momento giusto, quando fosse stata sicura che lui avrebbe capito. Ma la conversazione non si svolse mai come avrei voluto, perché non appena sollevai l’argomento, Maria inorridì. Mi disse che non avrei mai e poi mai più dovuto farmi venire in mente di interferire nella sua vita e in quella di Zoe a quel modo. Aveva trovato la sua anima gemella e avrebbe fatto tutto il possibile per far funzionare quella relazione, per se stessa e per sua figlia. Io avrei dovuto tacere sul loro passato e tenere il naso fuori dai loro affari.

E così feci, ma in questa serata soffocante, nella chiesa del concerto, mi domando di nuovo se quella decisione non sia destinata a ritorcersi contro tutti noi.

Smonto goffamente la videocamera dal treppiede e metto via l’apparecchiatura e, quando raggiungo gli altri che stanno bevendo qualcosa dopo il concerto, noto che l’atmosfera non è ancora la solita: non c’è quel clima di soddisfazione in cui il pubblico sembra crogiolarsi nel piacere di scambiarsi opinioni su ciò che ha appena sentito. Questa sera è più cospiratoria. Si formano capannelli e alcuni discutono dell’esecuzione di Lucas, ma intuisco che la maggior parte stia parlando della scenata di Tom Barlow.

Tolgo la pellicola da due vassoi di roba da mangiare sistemati in disparte, su un tavolo a cavalletti. Su ognuno c’è una selezione di stuzzichini che Maria ha preparato con le sue stesse mani.

Lucas sbuca al mio fianco, pallido. «Bravo», lo accolgo. «Hai suonato benissimo». Lo dico anche se non è esattamente ciò che penso, e gli tocco lievemente il braccio, perché è un ragazzino a modo e ho sempre questo impulso di rassicurarlo, nonostante sia incredibilmente controllato: forse lo faccio proprio per questa ragione.

«Zoe sta bene?», chiede.

«Credo di sì. È con sua madre. Le chiamo tra un minuto».

«Non dovremmo andare a casa?»

«Vi accompagno tra poco».

«Sai…?». Vorrebbe chiedermi di ciò che è successo, glielo vedo scritto in volto, ma lo dissuado: «Ne parliamo più tardi, d’accordo?».

Quando mi guarda, ha di nuovo quell’espressione imperscrutabile e, dopo un istante di silenzio, inizia ad aiutarmi.

Trascorsi una ventina di minuti circa, Chris si separa con discrezione dal pubblico, e troviamo Lucas seduto su un banco, a fare qualcosa con il suo sottilissimo tablet: quando ci vede, lo infila in tutta fretta nella sua borsa della musica.

Sul mio pulmino Volkswagen sembrano entrambi giganteschi: tutti ginocchia e spalle ricurve.

Viaggiamo perlopiù in silenzio.