Zoe
La psicologa della polizia, che mi chiede di chiamarla Stella, mi segue ovunque. Scambia quelle che chiama “due parole” con Richard, anche se a me sembra più un profluvio infinito di parole. Gli riferisce che mi sono collegata a internet dal suo computer, e poi dice a lui e a me, circa una ventina di volte, che sarebbe molto meglio se evitassi di collegarmi per il momento, perché potrei leggere qualcosa di doloroso per me.
Ma sono sicura che, in realtà, intende qualcos’altro. So bene che mi sta controllando per scoprire qualche indizio che le faccia capire se ho fatto qualcosa. A me interessa solo leggere la fine della sceneggiatura di Lucas.
Mio padre è in cucina, e anche se mi provoca ancora molta rabbia, mi rendo conto che proprio lui rappresenta la mia migliore opportunità per leggere quel file, perché ha ancora il suo cellulare. È seduto da solo davanti al piccolo tavolo nella cucina di Tess, che sarebbe più adatto a un bar, e di fronte ha una tazza di tè da cui non sta bevendo. Alza lentamente gli occhi e mi guarda come se temesse che possa perdere di nuovo il controllo dei nervi.
«Mi presti il tuo telefono?», gli chiedo.
«Che cosa?»
«Solo per un minuto».
Fa un sospiro profondo, e io penso che stia per dire di no, e invece lui dice: «Zoe, credo che questa sera sia meglio che io dorma in un albergo, per non pesare troppo su Tessa».
«Posso venire con te?». Sarebbe bello allontanarmi da qui, dalla polizia, da Chris e Richard, e da tutta questa gente. Sarebbe bello se rimanessimo soli, io e mio padre.
«Non credo sia una buona idea. Faresti meglio a stare insieme agli altri».
«Perché?».
Non sembra in grado di rispondere a quella domanda, anche se sono in piedi proprio di fronte a lui, in attesa che dica qualcosa.
«Perché, papà?»
«Be’…», risponde alla fine, ma sto per esplodere perché a volte ho la sensazione di poter leggere nella sua mente, e quindi so cosa sta per dire, e così inizio a urlare.
«Non ho fatto niente! Devi credermi, lo giuro, cosa credi che sia diventata!».
«Non è a questo che sto pensando; ma ci sono altre cose da considerare, se si tratta di portarti di nuovo nel Devon»; e allora penso che stia per dirmi che non mi vuole con sé, e mi sento come se qualcuno avesse affondato dei denti enormi nella mia carne viva.
Cerco di ricacciare indietro le lacrime e di concentrarmi su quello che mi serve, vale a dire il suo telefono. Mi sono già procurata una ferita in bocca mordendomi da sola, e continuo a strofinare i molari sopra il tessuto soffice e squarciato, quindi non mi resta che concentrarmi di nuovo sullo spirito di solidarietà. Jason sarebbe orgoglioso di me.
«Mi presti il tuo cellulare?», gli chiedo per la seconda volta. «Devo soltanto controllare una cosa».
Lui mi consegna il telefono, perché adesso si sente obbligato. Il senso di colpa è un ottimo modo per sfruttare le persone. Non me l’ha detto Jason; non avevo bisogno che me lo spiegasse qualcuno. L’ho imparato, perché il mio senso di colpa mi fa piegare la testa davanti a ciò che gli altri vogliono da me, ogni giorno della mia vita.
Nel corridoio incontro Stella, che mi ricorda il cane da pastore alla fattoria, sempre impegnato a evitare che qualcuno esca dal gregge.
«Sto solo andando in bagno», spiego. Mi sono infilata il cellulare di mio padre nella cintura dei pantaloni, e l’ho coperto con il cardigan.
Salgo le scale, strusciando le dita sopra il passamano con voluta lentezza, per non farle pensare che ho fretta.
Chiudo a chiave la porta alle mie spalle e mi siedo sul vaso.
Non posso accedere alla rete wi-fi di Tessa dal telefono, perché non conosco la password e il collegamento non viene stabilito automaticamente come dal computer, ma non importa, perché mio padre ha un segnale 3G e quindi mi ci vuole poco per aprire la posta elettronica di mia madre e visualizzare la sceneggiatura.
Il finale è tristissimo.