Domenica sera
Dopo il concerto
Zoe
Poco dopo che Tessa se ne è andata, Lucas viene in salotto, dove sono sdraiata con il mio telefonino a guardare il suo PDF che non vuole scaricarsi in fretta. Mi dice che parleremo tutti insieme nello studio di Chris. Si è cambiato i vestiti e i suoi capelli sono bagnati.
Sto per chiedergli come faccia a sapere di me, ma lui si preme un dito sulle labbra.
Mi allunga una mano per aiutarmi ad alzarmi, e io, nel toccarla, avverto una scossa di elettricità. Mi domando se questo significhi che adesso è mio amico, o il mio ragazzo, o nessuno dei due, ma non oso chiederglielo, e comunque non è il momento.
Quando ero in carcere, ho fatto amicizia con ragazzi di cui a mia madre non posso parlare: a dire il vero, non posso dirlo a nessuno nella famiglia della nostra seconda occasione. In prigione a volte mi sembrava che fare amicizia fosse più facile che a scuola. Dopotutto avevamo in comune i nostri crimini e, so che sembra stupido e che non facilita comunque le cose, ma “mette tutti sullo stesso piano”, come era solito dire Jason lo psicologo.
I miei amici in carcere erano Connor (scasso ed effrazione, ripetuti) ed Ellie (comportamento aggressivo, tre volte e ti rinchiudono per sempre). Erano “casi da più dentro che fuori”, come diceva Jason.
«Tu decisamente non sei un caso da più dentro che fuori, Zoe», mi rassicurava. «De-ci-sa-men-te no». Per sottolineare le cose importanti, scandiva le sillabe. A parte i trucchetti retorici – e un contatto visivo penetrante – Jason non aveva molto per sottolineare ciò che reputava importante. Niente presentazioni Power Point, per lui. Solo lui e io, in una stanza con le sbarre alla finestra e un vetro rinforzato alla porta, oltre a un tavolo e due sedie, tutti imbullonati al pavimento.
Io indossavo la mia bellissima tuta da ginnastica verde del carcere minorile, mentre Jason portava dei jeans e una T-shirt. A meno che non fosse inverno, quando all’esterno un sottile strato di neve ricopriva persino le spire del filo spinato, se non altro fino a che un vento pungente non la faceva volare via in soffici mulinelli, soffiandola in ogni fessura e crepa dell’edificio. Allora Jason sopra la T-shirt indossava magari un maglioncino a maniche corte, che, a essere onesta, lo faceva sembrare una triste pop star degli anni Novanta che passa una tranquilla serata a casa.
«Accendete quel c***o di riscaldamento!», gridò Ellie dalla sua cella per tutta la prima notte di freddo. «Alzate quel c***o di riscaldamento, s*****i del c***o, mi sto congelando le tette, qui, c***o». Il suo linguaggio era talmente scurrile da farmi arrossire come un peperone.
Quella notte picchiò anche contro la porta, un martellare ritmico e assordante, con un clangore metallico, che mi costrinse a tapparmi le orecchie con le mani. Battendo contro la porta con una tazza di alluminio potevi fare un discreto baccano. Il giorno seguente ci diedero delle coperte in più, con stampata sopra la scritta “Prigione di Dartmoor”, il penitenziario maschile: erano sottili e grigie, e mi domandai chi vi avesse dormito, prima, e se fossero casi “da più dentro che fuori” che, a forza di entrare e uscire, alla fine si erano ritrovati in un carcere per adulti. Per finire in una prigione per adulti bisogna solo avere diciotto anni.
La ragione per cui secondo Jason io non ero “da più dentro che fuori” era la mia famiglia, grazie alla quale, una volta uscita dal carcere, avrei avuto una possibilità. Disse che mia madre era decisa a offrirmi un nuovo inizio, era molto determinata ad aiutarmi. Avevo anche un talento, disse, la mia musica: mia madre gli aveva raccontato tutto, a riguardo, e si erano trovati d’accordo sul fatto che non si potesse pensare a un modo migliore per riabilitarmi. I “casi da più dentro che fuori” non avevano possibilità. Una volta usciti, sarebbero tornati a vite di abusi, privazioni e trascuratezza, e avrebbero commesso un altro reato, ritrovandosi di nuovo in tribunale prima ancora di saperlo, con le loro famiglie in veste di annoiati spettatori, sommerse dall’inevitabilità della situazione, sempre che si fossero presi la briga di presentarsi.
Nel momento in cui entriamo insieme nello studio di Chris, il PDF di Lucas ancora non si è scaricato. È solo al sessantacinque per cento, e rimangono ancora cinque minuti. Dato che l’hub wi-fi è proprio nello studio, ho pensato che una volta lì dentro potesse scaricarsi più in fretta, ma me ne dimentico non appena arriviamo.
Non è una stanza a cui accedo normalmente. È il luogo sacro di Chris: dove parla con Lucas quando devono fare una chiacchieratina. Lucas non ha mai l’aria contenta, quando entra lì dentro. Mia madre ogni tanto ci va, ma di solito solo quando deve portare qualcosa a Chris: una tazza di tè, del caffè o un Tom Collins, se sono passate le sei. Io ci sono stata una volta o due e, in genere, la prima cosa che faccio è guardare la cornice sulla parete dietro la scrivania di Chris. È una cornice nera, di circa trenta centimetri per trenta, al centro della quale, montato su sfondo nero, c’è un singolo chip per computer. È stato Chris a inventarlo, ed è la ragione per cui è tanto ricco. Quando inventò quel chip, Chris era come re Mida: trasformava tutto in oro.
E non lo si direbbe affatto dall’aspetto del suo studio, perché è molto ordinario. Mia madre vorrebbe riarredarlo e, a volte, porta a casa dei campioni: nuovi tessuti per il divano di Chris, o per le tende, ma lui rifiuta sempre. Il sofà che tiene lì dentro è quello che aveva nel suo ufficio al lavoro quando inventò il chip, molto tempo fa. Sostiene di non essere “un sentimentale”, ma di non riuscire “a liberarsi di quel divano”. Per lui è un divano fortunato.
Lo capisco, perché io ho un nastro per capelli fortunato, che indossai al mio primo concorso pianistico. Non lo indosso più, perché da allora la mia immagine è cambiata, ma devo sempre toccarlo prima di un concorso o di un concerto. L’ho toccato anche prima dell’esibizione di stasera: non che sia servito a molto. Il nastro è nero, di velluto, non sembra un granché e le estremità sono un po’ sfilacciate, ormai, ma sentirlo sotto le dita, secondo me, porta fortuna.
Accanto al vecchio sofà, Chris tiene due poltrone in pelle: mia madre l’ha convinto a comprarle dicendogli che doveva poter organizzare riunioni nell’ufficio di casa senza che sembrasse uno showroom dell’Ikea. Di fronte al divano, contro la parete della stanza, Chris ha una grande e lunga scrivania, circondata da librerie con tonnellate e tonnellate di volumi di programmazione informatica e roba del genere, inclusi tre libri scritti da lui.
Come mi raccontò mia madre, quando tornò a casa dopo il primo appuntamento, Chris è molto, molto intelligente; e una basilare conoscenza della genetica potrà dirvi che questa è probabilmente la ragione per cui anche Lucas lo è. Lucas una volta mi raccontò che anche sua madre era intelligente, solo che era morta prima di avere avuto l’occasione di dimostrarlo; però non riuscii proprio a parlarne con lui, perché quella cosa mi faceva pensare troppo a Gabi.
«Una studentessa con un potenziale eccezionale», disse di lei il procuratore nella sua arringa, «un fiore reciso prima che potesse sbocciare». Quest’ultima affermazione mi sembrò un po’ eccessiva, ma non potevo certo farlo notare, anche se credo che Gabi avrebbe decisamente sbuffato, se l’avesse sentita. Sbuffava sempre come un pony in un freddo mattino d’inverno, quando sentiva frasi tanto pompose.
Mi siedo per prima, sul divano. I cuscini sprofondano, allora devo appollaiarmi sulla punta, se voglio preservare un qualche barlume di “adeguato decoro”, come direbbe la mamma. Faccio attenzione a incrociare le gambe all’altezza delle caviglie, invece che delle ginocchia, e tiro giù la gonna del vestito in modo che mi copra il più possibile. Sfortunatamente, questo fa scendere leggermente lo scollo, quindi devo contorcermi un po’ per coprirmi come meglio posso, e percepisco gli occhi di Chris che mi osservano da sotto la fronte corrucciata.
Lucas si accomoda su una delle poltrone in pelle e, mentre si siede, scorgo in lui una somiglianza con Chris che non sempre noto. È evidente che Lucas è tutto sua madre. Non ci sono fotografie di Julia, in casa nostra, a parte nella camera di Lucas, ma io ci sono stata e ho visto quanto si assomigliavano.
Chris ha in mano l’interfono di Grace. Nell’appoggiarlo sulla scrivania, dà un colpetto al mouse, e l’enorme schermo del computer prende vita. Su di esso, congelata ad altissima definizione, c’è un’immagine di Lucas e me, seduti al pianoforte, in chiesa. Lucas guarda verso la videocamera, mentre io sto suonando, china sulla tastiera, con una delle mani ferma al di sopra della nota successiva e le punte dei capelli che sfiorano i tasti.
In primo piano, c’è Tom Barlow, o meglio la sua schiena, ed è lui che Lucas sta guardando.
È il momento in cui tutto è iniziato: quando mia madre entra nella stanza, quella vista la fa trasalire.