Zoe

In un certo senso, mi sento al sicuro nell’auto della polizia perché se Tom Barlow ha fatto del male a mia madre non può colpirmi finché sono qui; ma ho anche paura, perché stare in quest’auto mi fa rivivere sensazioni che conosco.

Non fa freddo e non è buio, e non indosso gli abiti della festa e non ho schegge di vetro tra i capelli e tagli sul viso, e non ho superato i limiti, ma sono dentro l’auto della polizia e mi stanno portando da qualche parte.

All’improvviso penso che Sam possa aiutarmi.

So che adesso si trova a Bristol perché una volta Tessa raccontò alla mamma che lo aveva incontrato per caso e che anche lui viveva qui, come noi.

«È una strana coincidenza, non credi?», disse la zia a mia madre, ma naturalmente lei non aveva voglia di parlarne, così Tess dovette tenere il breve sorriso dovuto alla coincidenza solo per sé.

L’unica persona che può portarmi da Sam è lo zio Richard, ma non riesco a parlargliene subito perché quando ci incontriamo alla stazione di polizia mi abbraccia troppo forte, e poi non fa altro che tentare di dire alla polizia che la zia Tessa non è rincasata ieri sera. All’inizio nessuno gli dà ascolto, ma dopo che lui lo ha ripetuto per un centinaio di volte, finalmente uno di loro gli chiede se ha qualche motivo per temere per l’incolumità di Tess, oppure se pensa che possa aver litigato con sua sorella.

«No!», grida Richard, con una voce troppo rauca e rialzata di un’ottava. «Certo che no. Come si permette?». Lo zio Richard è sempre impetuoso quando si tratta di Tess; e mia madre sostiene che è perché la ama tanto.

Voglio Sam, per ciò che ho fatto in passato. Ho bisogno di lui e dei suoi consigli, perché temo che mi ricopriranno di fango.

Sono abbastanza padrona di me stessa da mettere in atto il mio piano, perché riesco a isolare il mio dolore e a riflettere con la giusta concentrazione. È stato Jason a insegnarmi come si fa, in carcere. «Immagina il tuo dolore come un fiore sbocciato», disse in una delle nostre sedute, e io replicai: «Hai già detto che il dolore sboccia».

«Sii paziente», disse. «Immagina ciò che ti ho detto».

Così chiusi gli occhi e lo feci. Trasformai il mio dolore in una peonia, grande e in piena fioritura.

«Adesso trasforma quel fiore in un oggetto di carta».

A quel punto, spalancai gli occhi. «Che cosa?»

«Aspetta. Sai che cos’è un origami?»

«Certo. Giapponese. “Ori” significa “piegare” e “kami” significa “carta”. Il primo chiaro riferimento a modelli di carta risale a una poesia del 1680 di Ihara Saikaku».

Jason si appoggiò contro lo schienale della sedia e mi guardò. «Zoe-pedia», commentò, e questo mi spronò a continuare.

«La poesia parla di farfalle, in un sogno, e sono fatte di origami. Tradizionalmente, vengono usate nelle cerimonie nuziali».

Inspirai, perché avrei potuto aggiungere altre informazioni. Pensai che avrei forse potuto declamargli il verso della poesia in giapponese, perché una volta l’avevo letta, ma Jason mi interruppe.

«Allora immagina un origami che rappresenti un fiore».

Nella mia testa, la peonia che avevo visualizzato si trasformò da un ammasso di petali vellutati, così morbidi da poter soffocare qualcuno, in un oggetto fatto di pieghe taglienti e simmetrie.

«Adesso, richiudi bene il fiore. Ripiega i petali».

Vidi la scena nella mia mente. Il fiore che si richiudeva, la perfezione della forma a cui lo riducevo. Il fiore de-sbocciò.

«Ora, immagina di riporre quel fiore richiuso dentro una scatola. Lo prenderai di nuovo più tardi, e lascerai che si apra ancora, ma per il momento mettiamolo da parte e teniamolo al sicuro, e vediamo cosa succede se ce ne dimentichiamo per un po’».

Non mi riuscì subito, ma una volta acquisita dimestichezza con quei pensieri, e una volta capito che Jason aveva ragione quando diceva che di tanto in tanto faceva bene allontanare dolore e senso di colpa, scoprii che la mia mente era di nuovo in grado di concentrarsi. È la mente che mi consente di memorizzare tutto ciò che mi capita sotto gli occhi, è la mente che si collega alla musica. Nonna Guerin diceva che la mente è come il cesto dei panni sporchi della nostra famiglia: sempre pieno fino all’orlo, sempre sul punto di debordare, non si riusciva mai a tenerci tutto dentro e chiudere il coperchio.

Così, il mattino dopo la morte di mia madre seguo il consiglio di Jason, e metto il dolore per la sua perdita dentro una scatola. So che non potrà restarci a lungo, perché è immenso, ma so anche che farlo è indispensabile, e che devo stare all’erta. Chiedo a Richard di portarmi da Sam. Gli dico che dobbiamo andarci a causa del mio passato. Gli dico anche che Sam conosce Tessa da allora, e quindi potrebbe aiutarci a trovarla.

Richard mi guarda e risponde: «Va bene, lui forse potrà essere più utile di quanto lo siano questi agenti, allora andiamo, proviamoci».

Navigando in rete dal suo cellulare, lo zio Richard trova l’indirizzo dello studio di Sam in un battibaleno e, siccome nessuno risponde alla sua chiamata, conclude che forse è un po’ troppo presto, quindi la cosa migliore è andare lì.

All’inizio, facciamo un po’ di fatica a convincere i poliziotti a lasciarci andare, perché non sanno come interpretare la nostra richiesta. Chris, Lucas e Katya invece ci fissano come se non potessero credere che li stiamo abbandonando. Ma Richard è intelligente, e sa che la polizia non può trattenerci in centrale perché non siamo in stato di arresto, e quindi non possono impedirci di andare via, soprattutto perché si tratta di un’assenza breve. Sottolinea il fatto che Sam è un amico di famiglia, oltre che un avvocato, e per me sarebbe di grande conforto poterlo vedere.

Naturalmente il poliziotto non ne è contento. E quando sembra aver esaurito tutte le obiezioni possibili, che Richard ha contestato una alla volta con grande sicurezza, gli chiede solo se pensa che sia il caso di guidare. Richard mi guarda con un’espressione tesa, come fanno sempre tutti quando salta fuori l’argomento della guida in stato di ubriachezza. Poi assicura al poliziotto che chiamerà un taxi per arrivare a destinazione, esattamente come ha fatto prima per giungere alla stazione di polizia. Sono sicura che quella domanda lo ha ferito nell’orgoglio, ma si sta sforzando di non mostrarsi troppo indignato o irritato, perché vuole solo che ci lascino andare.

Arriviamo allo studio proprio al momento dell’apertura, ma dobbiamo aspettare un po’ perché è il giorno libero di Sam, un dettaglio al quale non avevo pensato. Alcune persone, elegantemente vestite, ci fissano per qualche istante oltrepassandoci, mentre la segretaria di Sam prova a raggiungerlo al telefono.

«Sta arrivando», ci riferisce la donna dopo avergli parlato. «Siete fortunati che sia riuscita a mettermi in contatto con lui».

Quando Sam arriva, va già molto meglio perché possiamo andare nel suo ufficio, e mi sento subito sollevata perché lui conosce tutti i dettagli di ciò che ho fatto in passato. Con lui, non ho nulla da nascondere, e non devo fare finta di essere quella che non sono.

A volte penso di stare meglio insieme alle persone che lo sanno. Nel carcere, tutti erano lì perché avevano fatto qualcosa di sbagliato e quindi non ero diversa da nessuno: in un certo senso, mi sentivo decisamente più rilassata. E so che Sam non mi giudica, ma vuole solo aiutarmi. Posso dirgli qualsiasi cosa. Con la famiglia della seconda occasione non era così. C’erano tante cose che non potevo dire, tante cose di cui vergognarmi, nonostante il verdetto del processo fosse stato ingiusto verso di me; e questa idea continua ad agitarsi nella mia mente ogni giorno.

Sam si siede, e anche noi ci accomodiamo. Nel suo ufficio buio e caldo con un tappeto consunto e certificazioni incorniciate e malferme dietro la sua scrivania, sento di essere pronta a raccontargli tutto quello che è successo.