Domenica sera
Il concerto
Tessa
Quando non hai figli, la gente ha la tendenza a rifilarti delle cose di cui prenderti cura. Forse pensano addirittura che ti manchino delle valvole di sfogo per eventuali istinti materni.
La sera del concerto di Zoe, mi hanno affidato la videocamera come surrogato di un figlio. Devo prendermene cura per tutta la durata dell’evento, così da poterlo filmare nella sua interezza. Con tono pedante, come se fossi mentalmente incapace, mia sorella mi ha ripetuto che si tratta di un incarico importante.
Dobbiamo parlare subito delle ragioni per cui non ho avuto figli? Facciamolo. Nonostante io sia una professionista di successo e felice di ciò che sono, è sempre il particolare per cui la gente nutre più curiosità.
Quindi eccovi la risposta: l’infertilità inspiegata è una condizione riconosciuta. Nonostante il nome suoni poco scientifico si tratta di una diagnosi ufficiale; e a me l’hanno fatta. Mio marito Richard e io l’abbiamo scoperto quando ormai avevamo superato i trent’anni: avevamo rimandato l’idea di avere dei figli finché non avessimo viaggiato a sufficienza e le nostre carriere non fossero state ben avviate.
Dopo averlo scoperto, abbiamo provato con la fecondazione in vitro, per ben tre volte prima di arrenderci. La maternità surrogata non mi piaceva: non sono abbastanza coraggiosa. L’adozione: idem. E comunque adesso non passeremmo mai la valutazione, considerato che Richard beve.
Quanto all’essere una persona priva dell’istinto di accudire gli altri, potrei farci sopra una grossa risata, perché sono un veterinario.
Il mio studio si trova in centro, in una zona in cui confinano alcuni dei quartieri più contrastanti di Bristol. In una giornata media vedo probabilmente tra i venti e i venticinque pazienti, che tasto, sondo, accarezzo, rassicuro; pazienti a cui, a volte, devo mettere la museruola prima di poterne curare i problemi di salute e, di tanto in tanto, quelli psicologici. Poi, se ci sono cattive notizie, posso trovarmi a dover rassicurare, o consigliare, e solo occasionalmente accarezzare, i loro padroni.
In breve, non faccio altro che accudire gli uni o gli altri per tutto il giorno, quasi tutti i giorni della settimana.
Ma c’è una certa ironia, nella mia situazione, che non mi sfugge mai, quando sono con la mia sorellina: specialmente quando mi coinvolge per aiutare la sua famiglia, come questa sera.
Vedete, durante la nostra infanzia, Maria era una sorta di Pierino la Peste, mentre io ero quella brava. Da bambina lei aveva un grande potenziale, specialmente nel campo della musica, e la cosa aveva elettrizzato i miei genitori, però la mia sorellina non realizzò mai le loro aspettative.
Fin da molto piccola era piena di energia e divertente, ma all’età di quattordici anni iniziò ad andare fuori controllo. La sera, mentre io mi rintanavo in camera da letto a sgobbare sui libri, desiderosa di entrare alla scuola di veterinaria, la sua scrivania, dall’altra parte della stanza, era piena solo dei trucchi che vi aveva lasciato dopo essersi preparata per passare la notte fuori. Smise di studiare e di suonare musica classica, per andare invece a divertirsi.
Diceva di non capire che senso avesse tutto il resto, nonostante a mio padre uscissero gli occhi dalle orbite quando lei parlava a quel modo.
Senza un ragazzo, molto più ordinaria e socialmente meno dotata della mia bella sorellina, io amavo vivere attraverso di lei, per interposta persona; e credo che ciò piacesse anche a Maria. Quando rincasava a tarda notte, mi sussurrava i suoi segreti: i baci, le bevute e le pasticche che ingurgitava; mi riferiva gelosie e trionfi. Tutti, in qualche modo, avventure.
Ma poi, con nostra grande sorpresa, all’età di soli diciannove anni, a un festival musicale incontrò Philip Guerin. Philip aveva ventisette anni e aveva già ereditato la fattoria di famiglia, e lei se ne andò a vivere lì con lui, sposandolo poco dopo. Come se niente fosse. «Per vivere il suo sogno», diceva sarcastica mia madre, torcendosi nel frattempo le mani.
Zoe arrivò subito dopo. Maria la ebbe che aveva solo ventidue anni, e credo che sia stato a quel punto che la realtà della vita alla fattoria con una bambina piccola iniziò a toglierle un po’ di smalto. A suo credito c’è però da dire che non se ne andò: cominciò invece a investire tutte le sue energie su Zoe e, nel momento in cui la straordinaria musicalità della figlia si presentò in tutta la sua evidenza, quando la bambina aveva solo tre anni e già riconosceva le melodie sul pianoforte di casa, Maria s’imbarcò nella missione di coltivare il suo talento.
Questo, naturalmente, prima dell’incidente, in seguito al quale le cose si sono messe davvero male per loro. Nel frattempo, dopo essermi sempre comportata bene per tutta la vita, avere studiato con grande impegno e rispettato le regole, mi sono sì sposata, ma non ho avuto figli. Da parte mia, sono ormai scesa a patti con la situazione, ma Richard non se la sta cavando tanto bene, soprattutto dopo una drammatica delusione professionale, coincisa con il mio rifiuto di sottopormi al quarto ciclo di FIVET.
E così eccoci qui, questa sera. Io sto aiutando mia sorella e Zoe, una cosa che adoro fare quando Maria me lo permette; non vedo l’ora di assistere al concerto, perché la musica di Zoe è quasi tornata ai suoi soliti standard, di prima che andasse in carcere, perciò sono sicura che sbaraglierà tutti, stasera; e spero di non fare casini e di riuscire a registrare l’intera esibizione.
Lucas, il figlio del nuovo marito di mia sorella, mi ha impartito una breve lezione sul funzionamento della videocamera. Lucas è un genio, con i film e le videocamere, quindi ero in buone mani, ma la lezione non è bastata, perché d’istinto io sono un po’ tecnofoba e, anche mentre Lucas mi spiegava, sentivo le sue parole vagare allo sbaraglio per la mia mente come un banco di pesci in preda al panico.
Se il mio Richard fosse qui ad aiutarmi, forse potrei farcela; ma mi ha deluso anche questa volta.
Un’ora fa, sono andata a chiamarlo, perché dovevamo prepararci per il concerto. Era nel capanno in fondo al giardino, in teoria a costruire un modellino di aeroplano, ma quando sono arrivata l’ho trovato che spremeva fuori il fondo del vino in bag-in-box dalla sua argentea sacca di plastica. Aveva strappato via il cartone e stava massaggiando e strizzando il lucente sacchetto interno tenendolo sospeso sopra una tazza da tè, come se fosse una recalcitrante mammella.
Intanto che ero ferma sulla porta a osservarlo, alcune pallide gocce di liquido sono colate dalla sacca nella tazza. Richard le ha bevute immediatamente, e solo dopo ha notato la mia presenza. Non ha chiesto scusa né ha fatto alcuno sforzo per nascondere ciò che stava facendo. «Tess!», ha esclamato. «Ne abbiamo un’altra scatola?».
Persino dalla soglia ho sentito che il suo alito puzzava e che biascicava le parole e, anche se cercava di comportarsi come un bevitore civile, come una persona che si stava semplicemente godendo un bicchiere di vino bianco la domenica pomeriggio, la vergogna gli aleggiava sul volto, amplificando il tremore delle sue mani. Il modellino di balsa che teoricamente doveva costruire era ancora nella scatola, tutti i pezzi tagliati con precisione disposti in perfetto ordine sotto il manuale di istruzioni mai aperto.
«In garage», gli ho risposto. E me ne sono andata al concerto da sola.
Così ora sono qui con una videocamera che non sono sicura stia funzionando, la testa che mi scoppia e l’animo deluso, a ripetermi che non devo, non devo assolutamente cedere alla tentazione di andare a trovare Sam, stasera dopo il concerto, perché sarebbe sbagliato.