Sam

Lo specialista siede dietro una scrivania che sta utilizzando chiaramente solo per questo colloquio, perché non fa che aprire e chiudere i cassetti con rabbia, afferrare gli oggetti dalla scrivania e sbatterli di nuovo dov’erano. Temo che i suoi movimenti scomposti possano fargli cadere gli occhiali da lettura senza montatura poggiati in maniera precaria sulla punta del naso.

«Ogni volta mettono le cose in un posto diverso», si lamenta. «Si sieda, prego».

«Sam Locke», mi presento e ci stringiamo la mano un attimo prima che mi metta seduto.

Non sono abituato a stare da questo lato della scrivania in situazioni del genere, e mi sento come se dovessi dimostrargli in qualche modo che mi considero un suo pari, anche se solo con una stretta di mano.

Mi pento subito del mio pensiero perché non cambierà nemmeno una parola di ciò che ha da dirmi: è soltanto un inutile tentativo, da parte del mio orgoglio, di affermarmi come un collega professionista e, in ogni caso, il dottore sembra del tutto indifferente. Probabilmente assiste a scene del genere venti volte al giorno. Per lui sono semplicemente un paziente, una persona da tenere alla giusta distanza che la professione impone, proprio come faccio io con i miei clienti.

«Ho solo bisogno di una penna», spiega con le sopracciglia sollevate. «Ridicolo, non crede?».

Gli passo la penna che porto in tasca e lui scarabocchia qualcosa su un grosso blocchetto di foglietti con le orecchie, strappando il cartoncino che lo protegge, prima di metterlo da parte.

«Bene! Mi scusi. Fanno sempre entrare i pazienti troppo velocemente. Sempre tutto di corsa».

Prende una cartellina sottile di colore marrone da una pila molto ordinata. È immacolata, e davanti leggo il mio nome. Quando la apre, vedo una lettera del mio medico di famiglia, la prescrizione medica per la visita specialistica, e solo uno o due altri fogli di carta.

«Ah!», esclama il dottore. «Sì. Lei ha appena fatto la risonanza».

Faccio cenno di sì con la testa.

«Quindi dobbiamo darle un’occhiata».

Inizia a pigiare la tastiera del computer. Ha bisogno di guardarsi le dita per trovare il tasto giusto.

«Speriamo che il sistema sia gentile con noi, oggi», mi dice. «Ci sono tanti ostacoli che possono farci cadere quando cerchiamo di accedere alle risonanze».

Io non parlo, lo osservo soltanto. Devo fare in modo da trovarlo simpatico, penso, perché quest’uomo si prenderà cura di me. Sulla testa ha soltanto l’ombra di una capigliatura sui lati e sulla parte posteriore del cranio, tagliati cortissimi, che svanisce sul cocuzzolo dove c’è un luccichio che sospetto non piacerebbe al dottore se lo vedesse. Indossa un abito costoso, e la cravatta è annodata in modo stravagante, ed è sicuramente di seta; all’anulare porta una grossa fede nuziale d’oro e un costoso orologio gli stringe il polso in modo ostentato. Immagino svolga una lucrosa attività privata.

Deve sentire molto caldo dentro il suo elegante abito, penso, perché io sono accaldato.

«Ah, sì! Eccoci», annuncia alla fine. «Trovato».

E vedo il suo viso crollare in un’espressione accigliata mentre osserva lo schermo, e mi sento come se stessi guardando un pezzo del mio mondo che si stacca e precipita nel vuoto.