Domenica sera
Dopo il concerto
Zoe
Lucas mi vede rabbrividire. I suoi occhi prendono atto delle mie spalle nude.
«Hai bisogno di una maglia?», chiede. «Posso andartene a prendere una».
«No, grazie».
«Ne sei sicura?»
«È stata solo un po’ di corrente».
Attorno a noi l’aria sta iniziando a muoversi, anche se è ancora molto caldo: una brezza vellutata proveniente da chissà dove, celata dall’oscurità, che non rinfresca.
«Qualcuno sta camminando sulla tua tomba?», chiede lui, citando un vecchio detto.
«Probabilmente», rispondo, ma quello è il genere di commento sul quale devo lavorare parecchio, per mantenere un’espressione composta.
Per distrarmi, e perché voglio fare quello che fa lui, metto un dito nella fiamma della candela, ma brucia all’istante, e lo tiro via. Lucas ride, e poi rimaniamo di nuovo in silenzio, e io penso che non potrei farcela in questa casa, se lui non vivesse qui con noi. Mia madre non è più affettuosa, non dopo l’incidente, e Chris nemmeno. Grace lo è, ma in modo confuso, da neonata, quindi è solo Lucas a darmi l’impressione di essere realmente caloroso: sembra vedere le cose un po’ come me, anche se non parla molto.
«Lucas…», dico, ma lui ha iniziato a parlare nello stesso istante.
«Pensi mai di rinunciare al pianoforte?», chiede, ed è una domanda così assolutamente e incredibilmente sconvolgente, assurda, inaspettata e scioccante da parte sua che persino io resto senza parole.
«Perché?», ribatto. Non riesco a concepire di rinunciare al pianoforte. Suonare è come una droga per me. È un sentiero che devo percorrere, acqua che devo bere, cibo da consumare, aria che ho bisogno di respirare. È la sola cosa che riesce a portare la mia mente in un luogo sicuro, e tutti mi dicono che mi garantirà un futuro brillante.
«Non dire a mio padre che te l’ho chiesto», mi ammonisce. Ha percepito la mia sorpresa e si è innervosito, ma io sono una persona leale.
«Non lo farò». Butto lì in fretta quelle tre parole, perché voglio che Lucas sappia che sono dalla sua parte, ma devo domandargli di nuovo: «Perché?»
«Non ho mica detto che lo avrei fatto». Torna sui suoi passi.
«Ma come mai ci stai pensando?».
Spinge indietro la sedia, restando in equilibrio sulle gambe posteriori. «Perché fa parte di ciò che è sbagliato».
«Il pianoforte?»
«No».
«Che cosa è sbagliato?»
«Questo. Tutto quanto».
«Cioè?». Non riesco a credere alle mie orecchie, perché al pianoforte Lucas si esercita più a lungo e più duramente di me, e senza lamentarsi mai.
Solleva le dita, formando un rettangolo attraverso il quale mi guarda. So che cosa sta facendo: mi sta inquadrando per una ripresa, perché è ossessionato dai film. Lo fa spesso, e a Chris dà molto fastidio.
«È perché vuoi fare dei film?», insisto. So che è così, lo sappiamo tutti, ma lui non ne parla, perché Chris sostiene che non sia un vero lavoro.
Lucas lascia cadere le mani. «È vero, voglio fare dei film; ma non è solo quello. A volte il pianoforte mi sembra solo l’ingranaggio di una macchina. Come se non significasse nulla, di per sé, ma fosse solo per le apparenze. Lo odio. Tu non lo odi?».
E le sue parole mi tolgono letteralmente il fiato, come se avessi inspirato aria rovente, perché mi scioccano davvero, realmente. Io non rinuncerei mai al pianoforte. Non rinuncerei mai, perché dobbiamo andare avanti.
Sento l’impulso di alzarmi da tavola e allontanarmi da lui, perché non voglio che veda i miei occhi velarsi di lacrime per ciò che ha appena detto, così mi alzo in modo goffo, come quando vorresti correre ma hai le ginocchia in qualche modo incastrate sotto il tavolo, e nel farlo rovescio il piatto delle bruschette con la mano.
Di conseguenza, piovono bruschette. Schizzi di pomodoro a pezzetti, basilico e olio finiscono sulla tovaglia, addosso a Lucas e sul pavimento. La sua camicia nera da concerto ne è piena, e così il suo volto e i capelli. Non avrei potuto distribuirli in modo più efficiente nemmeno utilizzando una pistola a spruzzo. E, siccome non so cos’altro fare, scoppio a ridere. Sono terribile, perché rido quando accadono cose orribili, ma è una sorta di reazione che non riesco a controllare. Una volta, al carcere minorile, mi ha fatto finire nei guai, perché è il genere di posto in cui è meglio non ridere degli altri. Non vi dirò cosa mi hanno messo nel letto quella notte, e la notte seguente.
Lucas mi guarda dritto negli occhi, e l’espressione serissima che aveva pochi secondi fa gli rimane sul volto solo per un istante, poi si dissolve in una più simpatica, e anche lui scoppia a ridere. Così rido di nuovo anch’io, davvero forte, del tipo risate a crepapelle, e perciò quando Chris ci parla dalla porta, mi prendo un brutto spavento, perché non l’ho sentito arrivare, e mi lascio scappare un urletto, breve e acuto.
«Che cosa state facendo, voi due?», chiede. Ha un tono di voce che non gli ho mai sentito prima. Freddo come il ghiaccio.
Lucas risponde: «Scusa». E io aggiungo: «È stata colpa mia. Mi dispiace molto», e mi ritrovo di nuovo in uno di quei momenti in cui un istante sei lì che ridi con il tuo bel vestito e ti senti bene, perché ti stai divertendo con qualcuno; e l’istante dopo torni di nuovo con i piedi per terra, perché sei di nuovo solo tu, una persona inutile, e probabilmente anche peggio.
Chris se ne accorge.
Chris, che non mi ha mai detto una parola cattiva, anche se suppongo non abbia mai detto molto in generale.
A Lucas ordina: «Vai a ripulirti!».
E a me: «Smettila di comportarti come una sgualdrina con mio figlio. Non credere che non ti abbia visto».
Il silenzio che segue mi fa accapponare la pelle in fredde e mutevoli chiazze, come se qualcuno si stesse muovendo attorno a me soffiandoci sopra, perché non so cosa fare. Rimango immobile, concentrandomi sullo schiaffo… lo schiaffo dell’acqua della piscina contro i filtri, e mi mordo l’interno delle labbra. Mi prude il naso, segno premonitore che le lacrime stanno per arrivare, e ancora una volta combatto contro quell’impulso, nel modo più silenzioso e discreto possibile.
Chris si aspetta una risposta, ma io non riesco a pensare a una sola cosa da dire, perché il mio cervello è confuso dal dubbio. Non sapevo di comportarmi come una sgualdrina; o forse lo sapevo, e quindi mi sono comportata in modo vergognoso di proposito; ma, se questo è vero, mi domando se devo ammetterlo.
Mi sento nuda. Le parole di Chris mi ricordano i messaggi che ricevevo su Panop, le ragazze che mi tormentavano, e il carcere minorile. Quelle parole non appartengono a questa casa. Mormoro: «Mi dispiace, Chris. Non intendevo farlo. Davvero, non volevo».
«Sei sul filo del rasoio, signorina», replica lui. «Vai a badare alla bambina, e chiedi a tua madre di scendere. Ho bisogno di parlarle».
Passo accanto a lui e a Lucas senza guardarli negli occhi, cercando di tenere la testa alta e fare in modo di non ancheggiare come una sgualdrina, e, quando sono in casa, mi metto a correre e non smetto finché non ho salito a passi pesanti tutte le scale, ritrovandomi sul pianerottolo fuori dalla stanza di Grace, dove mi fermo.