Sette
Suonarono al citofono. Una volta. Due. Tre, a lungo.
Nessuna risposta.
Allora Cardinale prese ad armeggiare con il mazzo di chiavi sulla serratura e in meno di un minuto il portone si aprì. In macchina erano rimasti Martinelli e Pellegrini.
Chiti aveva detto che toccava a lui entrare. Non c'erano state obiezioni.
Salirono le scale fino al terzo piano, lessero il nome sulla targhetta, suonarono il campanello.
Una volta. Due. Tre, a lungo.
Nessuna risposta.
Allora Cardinale, dopo essersi messo dei guanti in lattice, cominciò a lavorare sulla serratura della porta. Si sentiva il ronzio di qualche macchinario. Chiti sentiva anche i battiti del suo cuore e il rumore del suo respiro. Provò a pensare cosa avrebbe detto se all'improvviso l'altra porta sul pianerottolo si fosse aperta e qualcuno si fosse affacciato. Non gli venne niente, e smise di pensare. Si concentrò sul ronzio, sul battito del cuore, sul respiro.
Fino a quando non sentì lo scatto della serratura. Mentre entravano in casa pensò che non avrebbe saputo dire per quanto tempo – trenta secondi? dieci minuti? – erano stati davanti a quella porta.
Dentro era buio, silenzioso, con un odore greve.
In quell'oscurità fitta e consistente d'improvviso, senza ragione, gli apparve la faccia di sua madre. Cioè quella che doveva essere la faccia di sua madre, perché lui non se la ricordava. Non bene. Le volte in cui cercava deliberatamente di ricordarsela, lui che era così bravo con le immagini, non ci riusciva. Era sfuggente, e a volte si trasformava in qualcosa di mostruoso che bisognava scacciare via, subito.
Cardinale trovò l'interruttore della luce.
La casa era in ordine. Un ordine meticoloso, ossessivo e privo di vita. Appunto. Si fermò un attimo a pensare, a chiedersi come doveva essere stata quella casa, quando a viva.
Se era mai stata viva.
Poi si scosse, mise anche lui i guanti di lattice e cominciarono a cercare. Qualcosa.
C'era polvere di molti giorni, senza segni visibili di mani o altro. La casa doveva essere disabitata da almeno un mese. Cioè, più o meno, da quando era morta la madre.
Evidentemente lui se ne era andato subito dopo. O subito prima, pensò Chiti senza una precisa ragione.
Arrivarono rapidamente alla camera di lui. Nel resto della casa non c'era niente di interessante. Vecchi oggetti, vecchi giornali, vecchi utensili. Tutto in un ordine quasi rituale, e malato.
La prima cosa che lo colpì fu il manifesto di Jim Morrison.
Appeso di sghimbescio, e quella faccia che guardava con occhi remoti.
Poi i fumetti di Tex; ce n'erano centinaia, e riconobbe titoli e copertine di quelli che anche lui aveva letto, da bambino.
Frugarono nei cassetti, sotto il letto, sugli scaffali. Niente di strano o di sospetto, a parte tutti quei mazzi di carte da gioco. Si chiese cosa significassero, e se potessero avere una relazione con l'indagine; con le violenze e tutto il resto. Sempre che quel tipo e le sue carte avessero a che fare con gli stupri, e che il vero responsabile non stesse tranquillo, indisturbato da qualche parte, a pregustare il prossimo assalto alla faccia di tutti i carabinieri e poliziotti del mondo.
«Signor tenente, guardi questo.»
Cardinale aveva in mano un foglio dattiloscritto sulle due facciate.
Contratto di locazione, uso foresteria.
C'era un indirizzo, su quel foglio.
Dieci minuti dopo erano in macchina. Tornarono in caserma senza dire una parola per tutto il percorso. Mentre stava seduto, con Pellegrini che guidava in silenzio, con gli altri due dietro, anche loro in silenzio, la macchina che scivolava fra le vie imbruttite dalle auto parcheggiate con le ruote anteriori sui marciapiedi, per la prima volta pensò che lo avrebbero preso.
Non fu un pensiero articolato, e tantomeno un ragionamento.
Semplicemente, pensò che lo avrebbero preso.
Una decina di giorni dopo l'incontro con mia sorella,
Francesco mi telefonò.
Che fine avevo fatto? Perché non mi ero fatto sentire, in tutto quel tempo? Cazzo, erano almeno due settimane che non ci vedevamo. Era molto di più, ma non glielo dissi. Come non dissi che lo avevo cercato un sacco di volte, senza mai trovarlo e senza che lui mi richiamasse.
«Amico mio, dobbiamo vederci assolutamente, al più presto.»
Ci incontrammo verso le otto, per l'aperitivo. Ormai faceva freddo. Era novembre. Due o tre giorni prima centinaia di migliaia di tedeschi dell'Est avevano sbriciolato il muro ed erano passati dall'altra parte, mentre la mia vita strisciava, priva di senso.
Francesco era euforico, con una cupa nota di fondo che non riuscivo a decifrare.
Mi portò nel suo bar preferito da dove si vedeva il mare anche stando seduti all'interno. Ordinò due negroni, senza nemmeno chiedermi cosa volessi e li bevemmo in pochi sorsi come fosse aranciata, masticando patatine, pistacchi e anacardi. Ne ordinammo altri due e accendemmo le sigarette.
Che fine avevo fatto, mi chiese di nuovo. Che fine aveva fatto lui, risposi. L'avevo cercato, tante volte. Avevo parlato con sua madre. E poi da un certo momento in poi non aveva più risposto nemmeno lei.
Rimase un attimo in silenzio, socchiudendo gli occhi.
Come se gli fosse venuta in mente una cosa, un dettaglio.
Che però doveva dirmi, prima di proseguire.
«Mia madre è morta» disse poi. Non c'era nessuna intonazione particolare nella sua voce. Una comunicazione, neutra. Mi sentii gelare il sangue. Cercai qualche parola da dire, o qualche gesto da fare. Mi dispiace. Mi dispiace tantissimo. Come è successo? Quando è successo? Come stai?
Non dissi niente, e non feci niente. Non ne ebbi il tempo. Fu lui a parlare ancora, dopo appena qualche secondo.
«Adesso non abito più lì.»
«Dove abiti?»
«In un appartamentino che avevo preso un po' di tempo fa.»
Era la casa dove eravamo andati tanti mesi prima, con quelle due. Non si ricordava di avermici portato. Mi sentii invadere da una inquietudine fortissima, al confine con la paura.
«Devi venirci. Stasera voglio farti vedere come mi sono sistemato. Prima però andiamo a cena.»
Con i negroni che si spandevano nelle gambe e nel cervello andammo in una trattoria un po' squallida dove non ero mai stato prima. Mangiammo, ma soprattutto bevemmo ancora. Vino e poi grappa. Francesco parlava di come dovevamo riprendere a vederci. Dovevamo tornare a giocare a carte, ma in grande stile, adesso. Fuori Bari, dovevamo andare. In giro per l'Italia, e anche più in là, a fare i soldi veri. Non gli spiccioli su cui avevamo sprecato il nostro tempo e il nostro talento. Il nostro talento, diceva. Dovevamo ricominciare da dove ci eravamo interrotti. Questa cosa la ripeté più volte. Apparentemente guardandomi negli occhi. In realtà passandomi attraverso con quello sguardo febbrile e remoto.
L'appartamento era lo stesso dell'altra volta. Ma era anche diverso. C'erano cumuli di vestiti, sul divano e anche per terra. C'erano alcune scatole di cartone ancora chiuse.
C'era cattivo odore. Di fumo e di altro. Di una casa dove le finestre restavano chiuse. Simile a quello che c'era nella casa della madre.
Bevemmo altra grappa, direttamente da una bottiglia mezzo vuota, senza etichetta che Francesco andò a prendere dalla stanza da letto. Parlava più veloce del solito e, se possibile, ascoltava ancora meno. In realtà non ascoltava niente. Aveva lo sguardo sbarrato, fisso da qualche parte. Altrove. Prese un vecchio disco in vinile e lo mise sul piatto del costoso impianto stereo. Lo riconobbi dalle prime battute. Exile on Main Street, Rolling Stones.
Ero fatto già prima che lui andasse di nuovo nella stanza da letto e ne ritornasse con un pacchetto di plastica bianca.
Ero fatto da molto prima.
«Ne avevo trattenuta un po', di quella della Spagna. Per ogni evenienza.»
Lo guardai con un sorriso demente, mentre faceva cadere da quell'involucro, sul tavolo lucido, delle linee di polvere bianca. Ne fece quattro, di lunghezza identica; regolari.
Fui solcato da scariche di paura e di desiderio. Per un attimo persi la nozione di tutto quello che avevo attorno — forme, suoni, la concretezza degli oggetti — e mi attraversò il pensiero che Francesco fosse omosessuale, e che quella sera avesse deciso di rivelarsi. Un paio di belle tirate di coca, e poi me lo avrebbe messo nel culo. In quel rapido istante la cosa mi parve quasi normale; comunque ineluttabile e risolutiva. Una liberazione, in un certo senso.
Poi, com'era arrivato, quel pensiero andò via e i miei sensi ripresero a funzionare. Tornai a distinguere la musica e rimisi a fuoco la scena che avevo davanti.
Con una sola mano Francesco stava arrotolando una banconota da cinquantamila lire. Un gesto semplicissimo e aggraziato, che sembrava una magia.
Mi diede quella specie di tubicino e io lo presi senza dire niente, ma poi rimasi fermo, non sapendo cosa fare. Fece un breve gesto con la mano, come a dire: «Vai, cosa aspetti?». Ma io non mi mossi. Allora mi tolse di mano la banconota, si schiacciò la narice sinistra, appoggiò la cannuccia alla narice destra, si abbassò verso il tavolo e con un movimento rapido fece sparire una delle strisce. Scosse il capo, con le labbra serrate, gli occhi socchiusi. Subito dopo replicò la sequenza dall'altra parte. Poi mi ridiede l'attrezzo.
Per l'ennesima volta imitai i suoi gesti. Feci quello che diceva lui. Feci quello che faceva lui. Tirai con forza, prima da una parte e poi dall'altra, e mentre lo facevo mi venne in mente di quando da piccolo ero raffreddato e, prima di andare a dormire, mamma mi metteva la rinazina nel naso. «Tira su» diceva e io lo facevo sentendo subito dopo, nella gola, il sapore salato e medicinale delle goccine. La scena mi si formò nella mente, nei sensi, con una vivezza impressionante.
Poi sparì in uno sbuffo, come in certi cartoni animati.
Mi ritrovai solo con un leggero formicolio, una leggera anestesia nel naso, a chiedermi se il famoso, strabiliante effetto della cocaina fosse tutto lì. Francesco stava seduto, con gli occhi socchiusi e le braccia distese, le mani poggiate sul tavolo con i palmi verso l'alto. Composto.
Per un tempo indefinito – minuti? secondi? – rimasi con la testa appoggiata al palmo di una mano. Come se meditassi, ma non pensavo a niente. Niente di niente se non che la famosa cocaina era solo una presa in giro.
Poi, da un momento all'altro, fui attraversato da una sensazione oscena ed esaltante che si spargeva per tutte le mie fibre, proprio mentre partivano le prime battute dolci e sporche di Sweet Virginia. Avevo un leggerissimo, inarrestabile, eccitante formicolio sugli occhi. Come se sulle pupille picchiettassero delicatamente migliaia di innocue punte di spillo. Come se stessi sperimentando una trasformazione da supereroe dei fumetti.
Mi sembrava che se non ci fossero stati i muri avrei potuto vedere a chilometri e chilometri lontano.
Non so bene quando Francesco cominciò a parlare di violentare una ragazza. Sicuramente lo fece in modo naturale. Nel suo modo naturale. Fece delle altre piste, cambiò il disco, accese una sigaretta, bevve altra grappa – e anch'io ne bevvi – e parlò di violentare una ragazza. Insieme. Lui e io.
«Farsi una che ci sta non è così divertente, alla fine. È sempre il solito rituale. Battute, allusioni, una stantia manovra di avvicinamento a quello che volete tutti e due. Quello che vuole lei, che ti segue in questa specie di danza, come una cagna in calore.»
Quell'espressione mi diede un urto allo stomaco. Feci anche un movimento in avanti, come per un rigurgito di vomito. Ma non vomitai e Francesco continuò a parlare.
Gli occhi solo apparentemente su di me. In realtà, altrove.
In qualche territorio di incubi.
Continuò a parlare, quasi senza soluzione di continuità.
Mi disse di come poteva essere esaltante il prendere una donna con la forza. Una specie di recupero di radici primordiali. Il ratto delle Sabine. Quello che loro veramente volevano, nel profondo del loro essere. Lo comprendevano solo nel momento supremo del dolore e dell'annullamento fra le mani del maschio predatore. Dei maschi predatori. Perché la forma più profonda di una amicizia fra uomini era il prendere insieme una donna, con la forza.
Possederla insieme, come in un sacrificio rituale.
L'armonica di Turd on the run stracciava l'aria. Gli oggetti di quella stanza anonima si mescolavano nel delirio.
Il suo, ma anche il mio; con la pelle sensibile, i più piccoli peli del mio corpo come vibrisse, tutti i sensi esasperati, sperimentavo qualcosa di nuovo e tremendo. Il senso di essere completamente libero da ogni regola. Era orribile, e bellissimo. Lui lo sapeva.
Mi disse che aveva studiato i movimenti di una ragazza.
Era una studentessa fuori sede, abitava nel quartiere Carrassi, lavorava in un pub per pagarsi il soggiorno e gli studi a Bari. Tornava a casa dal lavoro, ogni notte, da sola, verso l'una.
Fra poco.
La bocca di Francesco si muoveva, ma il suono delle sue parole era fuori sincronia. E la voce veniva da qualche punto della stanza. Un punto diverso da dove era lui. Un punto inafferrabile.
Uscimmo di casa senza spegnere il giradischi. La voce spettrale di Jagger, da un altro mondo, cantava I just want to see bis face. Percussioni; un coro lontano; nebbia.
Io andavo incontro al mio destino. Definitivamente.