Sei
Una sera, mentre eravamo fermi in macchina a fumare e chiacchierare di cose senza importanza, chiesi a Francesco perché non mi insegnava qualcuno dei suoi trucchi.
Lo dissi così per dire, come si dicono tante cose che poi non vanno a finire da nessuna parte. Certo, l'idea di poter fare con le carte quello che faceva lui mi piaceva, ma non pensavo prendesse sul serio la mia domanda.
Invece la prese molto sul serio.
«Sei sicuro di voler imparare?» mi colse alla sprovvista.
Faceva sempre una cosa diversa da quella che ci si poteva aspettare. Io dicevo una cosa seria e lui la trattava come una buffonata. E io mi sentivo in imbarazzo, e cominciavo a pensare che sì, in fondo non era poi così seria. Forse.
Oppure dicevi una cosa per ridere, una battuta o altro.
Lui non rideva e ti guardava con aria stupita, quasi offesa; in silenzio. A volte ti spiegava che quello era un argomento serio, su cui c'era poco da ridere o da scherzare. E tu, di nuovo, ti sentivi in imbarazzo o a disagio; e pensavi che probabilmente aveva ragione e che ancora una volta ti era sfuggito qualcosa.
Aveva questa capacità di formulare giudizi rapidi e irrevocabili, in cui aleggiava sempre una nota di disprezzo per chi non fosse stato d'accordo.
Tutto questo l'ho capito dopo. Allora semplicemente mi sembrava che lui avesse più strumenti di me per capire il mondo e le situazioni; per decidere come comportarsi.
«Manipolare le carte, manipolare gli oggetti, sono cose che vanno molto al di là del semplice gesto di destrezza. La vera abilità del prestigiatore consiste nella capacità di influenzare le menti. E fare un gioco di prestigio riuscito significa creare una realtà. Una realtà alternativa dove sei tu a stabilire le regole. Riesci a seguirmi?»
«Credo di sì. Per come la vedo io...» mi interruppe. La risposta non lo interessava. Ovviamente.
«Se qualcuno dice che la vita non è una continua sequenza di manipolazioni, o è un bugiardo o è un cretino. La vera differenza non è fra manipolare e non manipolare. La differenza è fra manipolare consapevolmente e manipolare inconsapevolmente. Pensa a un tizio sposato da poco. Una sera torna a casa e dice alla moglie di essere stato invitato a una rimpatriata di vecchi amici, o magari a un pokerino, tanto per restare in tema. Le dispiace se lui esce? No, se lui ne ha voglia, dice lei dopo una breve esitazione, con una faccia che esprime il contrario di quello che ha detto a parole. Se non vuoi rimango a casa, replica lui. No, no, vai pure, ripete lei a parole. La sua faccia però dice: è chiaro che non ti importa di me se vuoi uscire da solo. Lui allora è a disagio, perché riceve due messaggi contraddittori, e si innervosisce. Insiste a dire che non è indispensabile e che può rimanere a casa; e lei insiste a dire, a parole, che può pure andare. Alla fine lui, sentendosi in colpa, decide di non uscire. Non potrà accusarla di averlo costretto, perché lei gli ha detto che se voleva, poteva uscire. Non potrà lamentarsi perché è stato lui a decidere di non uscire. E questo lo farà sentire a disagio. Lei lo ha manipolato, ma nessuno dei due lo sa, a livello cosciente.»
Io lo guardavo: dove voleva arrivare?
«I giochi di prestigio – o il barare alle carte – sono una metafora della realtà quotidiana, dei rapporti fra le persone. C'è qualcuno che dice delle cose e contemporaneamente agisce. Quello che succede davvero è nascosto fra le pieghe delle parole e soprattutto dei gesti. Ed è diverso da quello che appare. Solo che l'attore ne è consapevole e controlla il processo. La sostanza delle cose, la loro verità è quasi sempre diversa da quello che viene comunemente percepito. Le cose accadono realmente in posti e in momenti diversi da quelli che crediamo, guardiamo o percepiamo. Le intenzioni vere sono diverse da quelle dichiarate. Per esempio: prova a indagare sulle vere spinte che inducono le persone a fare le cosiddette buone azioni. Quello che scoprirai non ti piacerà. La verità è difficile da sopportare, ed è per pochi.»
Provai a inserirmi, e a dire qualcosa. Inutilmente. Doveva completare il concetto, con la parte che gli stava più a cuore.
«Vedi per esempio il poker. Chi si siede al tavolo lo fa perché vuol fare del male a qualcun altro. La cattiveria è un requisito indispensabile. Il giocatore mediocre si siede al tavolo sperando che la fortuna sia buona con lui e cattiva con i suoi avversari. Immagina che a questo ipotetico, mediocre giocatore si presenti qualcuno – un angelo o un diavolo – prima di una partita, e gli dica che ha modo di fargli vincere una grossa somma, in quella partita. In cambio vuole la metà di quella vincita. Il nostro giocatore chiede come questo sia possibile e quello gli dice di non preoccuparsene. Deve solo decidere: sì o no. Se è sì, dovrà impegnarsi a versare la metà della vincita di quella partita. E basta.
«Cosa credi che farà il nostro ipotetico giocatore? Pensi che rifiuterà sostenendo che sapere in anticipo di vincere costituisce una violazione dell'etica del gioco del poker? Pensi che qualcuno rifiuterebbe mai una proposta del genere?»
Presi le sigarette e ne accesi una. Francesco me la tolse dalle labbra dopo il primo tiro e la tenne per sé. Così ne accesi un'altra mentre lui ricominciava a parlare.
«Accetterà, il nostro giocatore. E gli piacerà sedersi al tavolo sapendo che il destino è già dalla sua parte e si godrà ogni momento di quella partita. La sola cosa che gli darà un po' di fastidio sarà spartire quei soldi, alla fine della partita.
«Oppure pensa a una partita fra giocatori della domenica e un giocatore professionista. Non voglio dire un manipolatore di carte. Un vero professionista del poker. Quante possibilità pensi che abbiano i dilettanti, con il professionista? Pensi che ne abbiano di più di quante ne hanno quando giocano con noi? No. Ne hanno esattamente lo stesso numero: zero. Il metodo è diverso ma il risultato è lo stesso. La fortuna non c'entra niente.»
I suoi occhi verdi balenavano nella semioscurità della macchina. La brace della sigaretta quasi del tutto consumata era vicina alle sue dita. I finestrini erano abbassati, l'aria mite e il silenzio interrotto solo occasionalmente dal passaggio di un ciclomotore con la marmitta truccata.
«Tu hai giocato a poker in modo regolare, prima che diventassimo soci. Ti ricordi l'emozione che provavi quando avevi un punto forte su un piatto grosso? Era un'emozione diversa da quella che provi adesso quando hai un punto forte, anche se la cosiddetta fortuna non c'entra niente?»
Aveva ragione. Dannatamente ragione.
«La gente manipola e viene manipolata, imbroglia e viene imbrogliata in continuazione, senza rendersene conto. Fanno del male e ne ricevono senza rendersene conto. Rifiutano di rendersene conto perché non potrebbero sopportarlo. Il gioco di prestigio è una cosa onesta perché è chiaro in anticipo che la realtà è diversa da quella che appare. E in un certo senso, in una dimensione universale, è onesto anche il barare alle carte. Voglio dire: il controllo della situazione viene sottratto al caso ed è nelle nostre mani. Io lo so che tu riesci a capire. Per questo ti ho scelto. Non farei questo discorso con nessun altro. Noi sfidiamo l'ottusa brutalità del caso e la sconfiggiamo. Capisci? Capisci? Noi violiamo regole mediocri e scegliamo il corso del destino. Io e te.»
Smise di parlare bruscamente, dopo aver detto le ultime parole con un tono più alto, e insolito. Adesso sembrava esausto. Mi prese il pacchetto di sigarette dalla tasca e ne accese un'altra. Quella di prima l'aveva appena spenta. Io pensai che stavamo fumando troppo tutti e due, e sentii un gusto rancido in bocca. Per qualche istante ebbi un senso di vertigine mentre nel cervello mi rimbalzava questa frase: «È un cumulo di stronzate. E tutto un cumulo di stronzate». Fu un fenomeno molto strano perché la vedevo mentalmente, come su una pagina bianca; e contemporaneamente la sentivo come se qualcuno la pronunciasse dentro la mia testa; e la percepivo come un'entità dotata di consistenza fisica.
Non dissi niente però, e quella frase si dissolse quando Francesco riprese a parlare dopo avere aspirato con violenza metà della sua sigaretta.
«Ti insegnerò. Sei l'unico a cui potrei insegnare sapendo che capisce cosa sto facendo, veramente.»
Annuii e poi lui mi chiese di portarlo a casa, per piacere. Era molto stanco.
Misi in moto e accesi il mangiacassette. La BMW scivolò per le strade male illuminate, liquida come mercurio.
Nell'abitacolo, a basso volume, la voce di Leonard Cohen ancora giovane cantava la canzone di Marianne.
Francesco stava zitto, adesso. Guardava diritto davanti a sé, ed era altrove.
All'improvviso sentii la solitudine e la paura. Gelide.
Mi venne in mente qualcosa di quando ero bambino, ma era un ricordo indistinto e passò prima che riuscissi ad afferrarlo. Come un sogno, di quelli che si fanno la mattina, fra il sonno e il risveglio.
Un sogno triste.